In questa seconda e ultima parte dell’approfondimento dedicato ai supereroi nell’industria dei manga (qui trovate la prima parte) vedremo come la figura dell’eroe mascherato sia caduta – salvo rare ma importanti eccezioni – in una sorta di limbo perdurato per tutti gli anni ’90, per poi riacquistare popolarità nella seconda metà dei ‘2000.
Nuovi costumi, nuovi supereroi – Tra mutande in testa e vestitini alla marinara Il processo di interiorizzazione dei tokusatsu e dei Super sentai iniziato negli anni ’80 raggiunse il suo apice agli inizi degli anni ’90, decade nella quale spuntarono fuori numerose ibridazioni tra i classici eroi mascherati e i nuovi eroi dei manga battle shonen .
A inaugurare questo sodalizio furono la casa editrice Kodansha e l’autrice Naoko Takeuchi , che nel marzo e nel dicembre del 1991 diedero inizio alla serializzazione di due fumetti destinati a rivoluzionare il manga per ragazze: Codename Sailor V e Pretty Guardian Sailor Moon .
Il successo delle guerriere Sailor è da ricercare proprio nelle dinamiche di ibridazione citate pocanzi .
Entrambe le serie della Takeuchi fondono rispettivamente dinamiche da tokusatsu alla Ultraman (protagonista mascherato e solitario che combatte gli alieni) e da Super sentai (squadra di giovani eroine dal carattere stereotipico ma riconoscibile) all’altrettanto antico e collaudato genere mahō shōjo (o majokko ), in cui le protagoniste ricevono in dono poteri magici da esseri soprannaturali (in Sailor Moon è la gatta Luna), acquisendo in omaggio un vestitino succinto che le aiuterà a nascondere la vera identità agli occhi dei comuni mortali.
Praticamente la versione giapponese della dinamica per la quale nessuno riconosce Clark Kent nei panni di Superman.
L’anno dopo, la casa editrice Shueisha lanciò il ben più originale e meno di successo Kyuukyoku!! Hentai Kamen di Keishū Ando .
Sulle orme della Kekko Kamen di Go Nagai, Hentai Kamen racconta la storia di Kyosuke, uno studente con velleità da giustiziere, nonché grande fan dei supereroi, che scopre di avere straordinari poteri il giorno in cui, per salvare una compagna di classe e celare la propria identità, si infila un paio di mutandine da donna sulla faccia , diventando l’eroe che ha sempre sognato di essere.
Da notare che sia in Sailor Moon sia in Hentai Kamen – oltre al per nulla vago sottotesto erotico – è presente una netta trasformazione della figura dell’eroe .
In precedenza i protagonisti di questo tipo di storie erano naturalmente portati al loro ruolo , mentre Usagi e Kyosuke sono, per dirla in maniera gentile, degli inetti , in quanto incarnano la nuova gioventù giapponese ormai priva dei punti di riferimento e dei valori che avevano caratterizzato le precedenti (almeno secondo gli editor del tempo).
Era dunque necessario che le narrazioni fossero tremendamente consolatorie , sicché il lettore sfigato avrebbe tratto massimo godimento dal vedere qualcuno messo peggio di lui che, nonostante tutto, riusciva a spiccare all’interno dell’iper-competitiva società giapponese.
Nel 1993 accadde qualcosa di inaspettato che avrebbe riaperto i ponti tra il supereroismo giapponese e quello americano.
Il produttore israelo-staunitense Haim Saban , che negli anni ’70 aveva curato le colonne sonore di Goldrake e Candy Candy per il mercato francese, decise che i tempi erano maturi per importare negli USA i Super sentai . Acquistò dunque i diritti di tre serie del franchise (Kyōryū Sentai Zyuranger , Gosei Sentai Dairanger e Ninja Sentai Kakuranger ) per realizzarne una versione adatta al pubblico americano, in maniera simile a come i giapponese avevano importato i supereroi Marvel e DC .
Nasce così Mighty Morphin Power Rangers , il cui straordinario successo convince nuovamente gli Stati Uniti a investire nel mercato nipponico. Contemporaneamente, l’enorme boom dei fumetti di supereroi americani, che negli anni ’90 toccarono picchi di vendite assurdi , e delle loro serie animate – su tutti Batman – The Animated Series e Insuperabili X-Men – riaccende l’interesse dei giapponese nei confronti degli originali uomini mascherati.
Diversi mangaka, come Nobuhiro Watsuki (Kenshin – Samurai vagabondo ), grande fan degli X-Men , ne avrebbero implementato gli stilemi nelle loro opere, mentre altri – come vedremo più avanti – sarebbero finiti addirittura a lavorare per il mercato americano .
Ben conscia del successo mondiale dei suoi X-Men , Marvel Comics ne concesse i diritti alla casa editrice Takeshobo , che nel 1994 pubblica sulla rivista Bamboo Comics X-Men: The Manga di Hiroshi Higuchi, Miyako Kojima e Koji Yasue, durata per ben 13 volumi.
La risposta di DC Comics sarebbe arrivata solo a inizio anni ‘2000.
Dopo aver ingaggiato nel 1996 nientemeno che Katsuhiro Otomo , creatore di Akira , per disegnare una storia breve di 8 tavole scritta da Chris Duffy per la testata antologica Batman: Black and White , una collaborazione con Kodansha permise la pubblicazione della miniserie Batman: Il figlio dei sogni di Kia Asamiya (Silent Möbius , Mobile Battleship Nadesico ), grandissimo fan dei fumetti supereroistici, tanto che Marvel lo avrebbe ingaggiato nel 2002 per disegnare un intero arco narrativo della storica testata Uncanny X-Men .
Peccato solo che l’arco in questione facesse parte della famigerata run di Chuck Austen , considerata una delle peggiori di sempre tra quelle dedicate ai mutanti.
Nuovo millennio, nuovi supereroi Grazie al suo futuro editor in chief C. B. Cebulsk i, grande appassionato del Giappone e precedentemente editor di manga per Central Park Media, Marvel Comics strinse legami sempre più profondi con il Sol Levante , con risultati alterni.
Nel 2000, sotto la supervisione dello stesso Cebulski, nacque la linea Marvel Mangaverse , in cui i supereroi della casa editrice venivano totalmente re-immaginati secondo gli stilemi del fumetto giapponese, ormai pienamente esportato in tutto il mondo.
L’esperimento durò appena fino al 2002, rivelandosi fallimentare sotto ogni aspetto a causa della visione stereotipica che editor e autori americani avevano dei manga.
Fortunatamente in Giappone nacque invece un nuovo supereroe da un autore che in passato aveva già toccato il genere. La fine del Mangaverse coincise infatti con il debutto dello Zetman di Masakazu Katsura, pubblicato da Shueisha.
In verità il fumetto di Katsura nasce da un’opera omonima precedentemente pubblicata dall’autore negli anni ’90, con cui questa nuova versione ha però ben poco da spartire.
Il protagonista della storia è uno Z.E.T. , essere artificiale creato in laboratorio per uccidere altri esseri artificiali, denominati Player , ribellatisi ai loro creatori, dei magnati facoltosi che li sfruttavano per il loro divertimento.
Pur non essendo – come lui stesso ha dichiarato – un grande lettore di fumetti, Katsura attinge pienamente ai topoi del genere supereroistico .
Il protagonista è ispirato alla versione cinematografica di Batman diretta da Tim Burton , ma ricorda anche il Devilman di Go Nagai per la sua mancata appartenenza a uno schieramento ben preciso. La narrazione presenta una forte carica drammatica, coinvolgendo multinazionali e un eroe moralmente ambiguo, come Guyver prima di lui.
A distinguerlo dai suoi predecessori è però l’ennesima evoluzione della figura del supereroe nipponico, passato da inetto che deve essere guidato sulla retta via a entità più che capace imbrigliata in uno status quo ingiusto al quale non può fare a meno di conformarsi .
Zetman è un eroe, ma è nemico sia dei suoi creatori sia dei suoi fratelli. La sua morale è tutt’altro che netta; non è un ribelle né tantomeno un primus inter pares , ma riesce a cavarsela grazie a una componente essenziale ripudiata dalla società giapponese: l’emotività che guida le sue azioni a dispetto della fredda logica e del buonsenso apparenti .
L’insuccesso del Marvelverse non aveva scoraggiato le ambizioni della Casa delle Idee, la quale concesse dopo tanto tempo i diritti del suo personaggio di punta, Spider-Man , per la realizzazione di un nuovo manga a più di trent’anni dal precedente.
Nel 2004 uscì così Spider-Man J (in cui la “J” sta per “Japan”) di Akira Yamanaka, pubblicato dalla sempreverde Kodansha. Trattandosi di un manga kodomo , ossia dedicato a un pubblico di bambini, presentava uno stile super-deformed e toni comici molto spiccati che lo rendevano un esperimento unico nel suo genere.
Qualche anno dopo, nel 2008, venne invece pubblicato un prodotto ben più convenzionale che coinvolse il personaggio di Batman.
Stavolta DC Comics non si affidò all’amica dei supereroi Kodansha, bensì alla più modesta Flex Comix , che diede alle stampe Batman: Death Mask di Yoshinori Natsume, pubblicato in contemporanea con gli Stati Uniti.
Ben più interessante – almeno sulla carta, perché poi la realizzazione lasciò parecchio a desiderare – fu il progetto Karakuri Dōji Ultimo , manga pubblicato da Shueisha che vide la collaborazione nientemeno che Stan Lee , autore del soggetto, e Hiroyuki Takei , autore del cult Shaman King .
Per la serie Lee adottò lo stesso approccio creativo che lo aveva reso famoso negli USA: scrivere due scemitaggini scopiazzate altrove e lasciare tutto in mano al disegnatore di turno .
Ultimo infatti si rivelò niente più che un pastiche disordinato di elementi mecha , battle shonen e supereroistici, tenuti insieme dal debole pretesto della lotta tra bene e male promossa da uno scienziato che, evidentemente, non aveva niente di meglio da fare (guarda caso ispirato proprio alle fattezze dello stesso Stan Lee).
Praticamente una versione autoctona del Mangaverse .
Il bistrattato Ultimo non fu però l’unica occasione in cui l’uomo-immagine della Marvel mise mano impropriamente a un manga.
Se già nella collaborazione con Takei si era impegnato poco o nulla, nello stesso anno diede fondo a tutta la sua mancanza di voglia con Heroman , progetto crossmediale realizzato con Square Enix e lo studio Bones .
Crossmediale perché, oltre al manga, venne realizzata anche la trasposizione animata della storia in cui un ragazzino orfano trova un robot giocattolo rotto che, colpito da un fulmine, si trasforma in un mecha gigante con il quale il ragazzino in questione combatterà il male incarnato dagli alieni Skrugg .
Una rivoluzione da un pugno solo Mentre Stan Lee si dilettava in burle, un misterioso giapponese medio, noto sul web come One , aveva aperto un blog sul quale pubblicare un fumetto tutto suo, One-Punch Man , narrante le gesta di Saitama, uno spiazzante supereroe che abbatte tutti i suoi nemici con l’ausilio di un solo, banalissimo pugno.
Il webcomic – disegnato uno schifo, ma anche pieno di idee interessanti, trame avvincenti e personaggi memorabili – guadagnò un discreto seguito di appassionati, attirando le attenzioni di Yusuke Murata , disegnatore di Eyeshield 21 , che propose a One di collaborare a una versione riveduta e corretta della sua opera.
One ovviamente accettò, e la versione cartacea di One-Punch Man , pubblicata da Shueisha sulla rivista Weekly Young Jump , fece il suo esordio nell’estate del 2012, rivelandosi un successo e acquisendo in breve tempo lo status di cult.
L’impatto di One-Punch Man sulla cultura giapponese non va sottovalutato.
Il manga di One e Murata, nel suo essere una parodia apparentemente educata del genere supereroistico, mette in discussione tutta una serie di valori cardine della cultura nipponica.
Saitama è sì un Superman senza filtri spogliato della sospensione dell’incredulità , per la quale anche un essere apparentemente invincibile può venire messo in difficoltà, ma è anche un feroce cortocircuito nell’etica del duro lavoro tanto cara ai giapponesi .
Come dimostra il personaggio di Genos, non è vero che se ci credi anche tu puoi diventare l’eroe più forte . Magari uno sforzo che per qualcuno richiede 100, per qualcun altro richiederà invece 1. Tuttavia Saitama, pur essendo oggettivamente il più forte, non nutre alcuna ambizione che non sia quella di vivere in tranquillità la sua professione di eroe . Lui è già arrivato e non vuole di più. Non gli interessa poi tanto la questione del ranking degli eroi – anche se gradirebbe un minimo di riconoscimento – e non nutre alcuno spirito di competizione.
Forse il motivo per cui è così forte rispetto agli altri mostri ed eroi della serie risiede proprio nel fatto che lui, una volta ottenuto ciò che voleva, ha saputo accontentarsi .
Personaggi come Garou, che invece hanno fatto di tutto per diventare più forti, sono stati distrutti dalle loro ambizioni o hanno raggiunto la serenità solo nel momento in cui hanno capito che è inutile ferire se stessi e gli altri per vincere una competizione nella quale bisogna perdere la propria umanità .
Saitama è un invito a prendere la vita con serenità senza rinunciare all’automiglioramento , facendo ciò che sentiamo di fare non per primeggiare, bensì per pura e semplice voglia di vivere, disinteressandoci totalmente alla prospettiva che gli altri hanno di noi.
Magari non sarà il membro più popolare e ortodosso dell’Associazione Eroi, ma il fatto che voglia semplicemente fare l’eroe perché è quello che sente di dover fare basta e avanza a renderlo il più forte.
Ritorno allo standard Due anni dopo l’esordio cartaceo di One-Punch Man , Shueisha diede alle stampe un’altra serie supereroistica di grande successo, ma dal messaggio praticamente opposto: My Hero Academia di Kōhei Horikoshi .
La storia di Izuku Midoriya , giovane senza poteri in un mondo in cui la maggioranza della popolazione li ha, glorifica esattamente quell’ideale di ambizione sfrenata e illusoria parodiata da OPM .
Infatti, nonostante Izuku non abbia poteri, sogna di seguire le orme di All-Might , il più grande supereroe del mondo, ed entrare nel prestigioso Liceo Yuuei, dove vengono formati i nuovi eroi e chi non ha i poteri viene relegato al ruolo di spalla.
Laddove il target seinen aveva permesso a One-Punch Man e a Zetman di ignorare le dinamiche censorie dei manga per ragazzi, lasciando agli autori la libertà di imbastire storie sovversive e personaggi complessi, in My Hero Academia l’ipocrisia di fondo dettata dalla pressione degli editor , invero tipica della stragrande maggioranza dei battle shonen , è palesata sin dai primissimi capitoli.
Invece di rendere il protagonista competitivo a modo suo, trasformandone la mancanza di abilità sovrumane in un punto di forza, l’autore lo investe subito del potere più forte della serie , minando la credibilità del messaggio per cui anche un senza-poteri può aspirare alla grandezza tramite impegno e abnegazione.
Se per caso All-Might non avesse investito Izuku del potere dello One For All, quest’ultimo sarebbe rimasto a casa a fare la calzetta .
Horikoshi fa di tutto per convincere il lettore che il suo protagonista non sia un miracolato , che meriti il suo posto tra gli eroi mettendolo a confronto con altri personaggi identificabili come “predestinati” (Bakugo e Todoroki su tutti), ma ciò non cambia il fatto che Izuku in primis sia un predestinato , tant’è vero che riesce casualmente a padroneggiare poteri segreti dello One For All di cui lo stesso All-Might non era a conoscenza.
Si potrebbe obiettare che il merito di Izuku sia in realtà quello di aver dovuto soffrire per imparare a utilizzare il suo potere, laddove tutti i suoi coetanei hanno invece avuto la pappa pronta , ma anche qui ci vuole un bel coraggio a lamentarsi di un paio di ossa rotte in cambio del potere di scatenare uragani con uno schicco di dita.
Lo stesso Midoriya non mette mai in discussione il sistema che lo ha escluso senza neanche dargli una possibilità, anzi: spesso e volentieri si colpevolizza per il suo essere partito dal basso (vedi il complesso di inferiorità nei confronti di Mirio), dimostrando come My Hero Academia finga soltanto di parlare agli ultimi, agli svantaggiati, agli sfigati, quando in realtà li illude .
Variazioni sul tema Mentre Marvel partoriva nel 2015 un tie-in del film Avengers: Age of Ultron con Kodansha disegnato da Yūsaku Komiyama e il volume Secret Reverse nel 2020, realizzato invece in collaborazione con Shueisha e Kazuki Takahashi , creatore di Yu-Gi-Oh , in seguito all’uscita di My Hero Academia si sono succeduti molteplici altri prodotti supereroistici alternativi che hanno cercato portare ulteriore varietà a un genere che stava vivendo una nuova età dell’oro in Giappone.
Nel periodo in cui a Hideaki Anno , regista di Neon Genesis Evangelion , venivano affidati i revival di Ultraman e Kamen Rider al cinema, Kodansha annunciò la serializzazione di RaW Hero (2018), manga di Akira Hiramoto , già autore del pruriginoso Prison School .
Il protagonista stavolta è davvero un ultimo, essendo una ragazzo povero con fratellini a carico costretto dalle circostanze a diventare un agente sotto copertura per infiltrarsi all’interno di un organizzazione di supercriminali. Il tutto travestito da donna .
Hiramoto approfitta della premessa assurda per affrontare i temi più disperati, dalla corruzione delle istituzioni ai ruoli di genere , con il protagonista che, molestia dopo molestia, amplia la sua sensibilità nei confronti del genere femminile.
Purtroppo la serie venne interrotta prematuramente, ma resta un bell’esempio di manga supereroistico coraggioso e innovativo, per quanto non privo di fanservice. Dopotutto si tratta pur sempre dell’autore di Prison School.
Ben più simile a My Hero Academia fu invece Shy di Bukimi Miki , pubblicato da Akita Shoten nel 2019.
In un mondo in cui i supereroi sono uno standard, Shy, eroina giapponese, si sente inadatta al ruolo che ricopre a causa dell’estrema timidezza che la contraddistingue. Questa sua caratteristica le impedisce soventemente di adempiere al meglio al suo ruolo , attirandole l’astio dell’opinione pubblica che lei, sempre in virtù del suo carattere, non riesce a gestire.
Shy decide quindi di darsi una svegliata nel tentativo di diventare l’eroina che ha sempre sognato di essere.
La formula del protagonista inadatto al ruolo che però viene costantemente premiato più dalla sceneggiatura che dal duro lavoro è la medesima vista in MHA , con in più l’aggravante di una premessa interessante ed emotivamente coinvolgente che avrebbe potuto regalare molte più soddisfazioni.
Ma d’altronde, perché rendere l’emotività della protagonista un punto di forza e di critica nei confronti degli altri eroi più distaccati quando puoi semplicemente farla vincere perché così impone la censura bacchettona degli editor di manga ?
Ben più sovversivo fu invece l’ultima prova di Atsushi Kaneko , mangaka dal forte spirito underground e grande amante della pop art americana.
Nel 2020 l’autore cominciò la serializzazione di Evol per casa editrice Enterbrain , un seinen in cui gli eroi non sono altro che marionette acritiche al soldo dei potenti, mentre i cattivi, gli Evol, appunto – curiosamente omonimi dell’organizzazione malvagia dei player di Zetman – sono dei reietti emarginati dalla società per le loro diversità e i problemi emotivi.
La mancanza assoluta di filtri, le citazioni a elementi pop più o meno reali come espressione della controcultura giovanile e la trattazione di tematiche scottanti per la società giapponese come la xenofobia, le molestie sessuali nei confronti delle giovani donne, l’abilismo, il nonnismo, la censura dei media e del dissenso in generale, fanno di questo manga l’espressione più pura delle potenzialità del genere supereroistico giapponese vista finora .
Volendo fare un paragone, si potrebbe considerare Evol come il corrispettivo manga di The Boys , con il quale condivide la vena satirica e l’approccio fortemente decostruzionista nei confronti della figura del supereroe, finora praticamente ignorato dalla stragrande maggioranza dei mangaka.
Il fatto che il manga di supereroi abbia raggiunto la sua fase decostruzionista , come avvenne per i comics americani nella seconda metà degli anni ’80 grazie a opere come Watchmen e Il ritorno del cavaliere oscuro , è sintomatico di nuove e inedite strade che il genere potrà percorrere in futuro .
Questo sempre se le case editrici Giapponesi, ben più conservatrici di quanto possano apparire agli occhi degli occidentali, non costringano gli autori a rimanere sui binari codificati del battle shonen .
In quel caso, avremmo ancora un bel po’ di Shy e My Hero Academia a sbarrare la strada.
Seguici su tutti i nostri social!