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“City Hunter: Private Eyes”, la recensione

Pubblicato

il

City Hunter: Private Eyes

4.9

Comparto Tecnico

5.5/10

Cast

6.0/10

Scrittura

4.0/10

Regia

5.0/10

DIrezione Artistica

4.0/10

Pros

  • Ryo e Kaori sono invecchiati bene
  • Una o due scene d'azione degne di nota

Cons

  • Regia sgraziata e sgrammaticata
  • Sceneggiatura banale
  • Animazioni vergognose
  • Character design scialbi

City Hunter: Private Eyes è un film animato del 2019 di produzione giapponese, distribuito in Italia al cinema dal 3 al 5 settembre da Nexo Digital, in collaborazione con Dynit.

Il lungometraggio segna l’importante ritorno dei personaggi di Ryo Saeba e della banda Occhi di Gatto, protagonisti rispettivamente dei manga City Hunter e Cat’s Eye di Tsukasa Hojo, evento che ha mandato in solluchero centinaia dei fan che sono cresciuti – chi leggendo i fumetti e chi guardando gli anime – con questi personaggi.

Chi seguiva City Hunter ai tempi si ricorderà sicuramente che i casi affrontati da Ryo Saeba e dalla sua assistente/partner, Kaori Makimura, erano principalmente avventure autoconclusive la cui struttura si ripeteva ossessivamente.

In genere, una ragazza avvenente in difficoltà contattava Ryo scrivendo sulla bacheca della stazione di Shunjuku il codice “X Y Z“, ossia il nome dell’agenzia investigativa di proprietà dello stesso Ryo.

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In alternativa, c’era anche la possibilità di telefonare al numero indicato su un apposito volantino pubblicitario.

Una volta messasi in contatto con il city hunter, la cliente procedeva con l’elencare le sue sventure, per poi venire approcciata in maniera molesta e affatto educata dal nostro protagonista, meritatamente percosso sul cranio dalla sua assistente tramite un martello dalle dimensioni importanti.

Da qui in poi si susseguivano una serie di avvenimenti, con la puntuale scoperta che la cliente del nostro sweeper di fiducia era coinvolta in qualcosa di molto di più grande di quanto non sembrasse, spesso costringendo i protagonisti a rivolgersi a comprimari come Umibozu e Saeko (anche se per quest’ultima avveniva per lo più il contrario).

Niente di troppo dissimile dalle trame di Detective Conan, con il quale City Hunter condivideva anche una flebile trama orizzontale concernente il passato del personaggio principale che occasionalmente veniva approfondita, ma senza impegno.

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Occorre quindi rispondere alla prima domanda che l’aspirante spettatore potrebbe porsi di fronte al film: “È fedele ai caratteri peculiari dell’opera di riferimento?”

La risposta è: “assolutamente si“.

In questo film c’è davvero tutto il City Hunter che i fan hanno imparato ad amare, da Ryo pervertito e sprezzante nei confronti di Kaori, la stessa Kaori che lo martella furiosamente, e ovviamente le scene rocambolesche in cui Ryo sbaraglia a mani nude orde di nemici armati di mitra.

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Dal punto di vista del mero fanservice non ci si può davvero lamentare. Per quanto riguarda il resto, decisamente si.

Il problema principale di questo City Hunter: Private Eyes è il medesimo che affligge gran parte degli adattamenti da manga ad anime: l’eccessivo rispetto per il materiale originale.

È possibile che molti di voi pensino che questa caratteristica sia sempre positiva, ma non è così semplice. Senza imbarcamenarci nell’annosa questione sul come realizzare un buon adattamento (ne parlammo qui), è sufficiente dire che Kenji Kodama e Yoichi Kato, rispettivamente regista e sceneggiatore di City Hunter: Private Eyes, hanno cercato di imitare Tsukasa Hojo.

Ciò è un male, perché Tsukasa Hojo è un autore affermato, rispettato e, soprattutto, tremendamente riconoscibile. Questo comporta che chiunque provi ad imitarlo cadrà sempre nell’errore, perché solo Tsukasa Hojo è Tsukasa Hojo.

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Piccola digressione storica: in Giappone – a differenza di quanto credano i nippofili – il titolo di mangaka è qualcosa che va al di là dell’essere un semplice fumettista come lo intendono gli occidentali.

Il mangaka è uno status di enorme prestigio, ancor prima di essere un mestiere. C’è un motivo per cui tutti si rivolgono ai mangaka con l’appellativo di “maestro”.

Inoltre, in Giappone vige una visione differente del concetto di “copiare”. Per certi versi, a livello morale, si avvicina molto a alla contaminatio del drammaturgo romano Gneo Nevio.

Ripetere le medesime soluzioni stilistico-narrative di un autore, in Giappone equivale a mostrargli enorme rispetto. Ai mangaka e ai loro adattamenti questa usanza è quasi dovuta.

Se però al mangaka questo, ovviamente, fa piacere, di contro ciò impedisce spesso agli autori di adattare le opere secondo la loro visione e la loro sensibilità.

Ci sono stati casi eclatanti di autori che, pur di dare la loro impronta ad un adattamento, hanno litigato pesantemente con il mangaka di riferimento.

Tra i più noti vi è quello di Monkey Punch, creatore di Lupin III, che ha sempre odiato l’adattamento animato della sua opera più celebre ad opera di Hayao Miyazaki e Isao Takahata perché troppo diverso dal suo manga.

Oppure Masami Tsuda, autrice de Le situazioni di Lui & Lei, i cui dissidi con il regista Hideaki Anno (Neon Genesis Evangelion) hanno portato quest’ultimo a lasciare la direzione dell’anime tratto dal manga sopracitato. Eppure entrambi gli anime erano assoluti capolavori.

Non stupisce quindi che gli autori di City Hunter: Private Eyes abbiano preferito darsi al cosiddetto “compitino”, ma non deve neanche stupire che abbiano tirato fuori un prodotto davvero dimenticabile, in particolare perché hanno cercato di imitare un autore mostruoso senza averne un minimo del talento.

La prima cosa che salta immediatamente all’occhio del film sono i character design di una piattezza sconcertante, oltre che mal pensati. I personaggi di contorno sono assolutamente anonimi, ma quantomeno sono moderni, mentre i principali sono rimasti pressoché identici.

Ciò però porta a farsi alcune domande, del tipo: è mai possibile che Kaori, nel 2019, porti ancora il mullet?

Può sembrare un elemento superfluo, ma è sintomatico di quanto poco impegno ci sia stato nella reintroduzione dei personaggi nell’era moderna. Sarebbe bastato darle una semplice capigliatura corta e avrebbe fatto molta più bella figura, e invece si è preferito mantenere tutto uguale a com’era negli anni ’80, rendendo questo prodotto anacronistico già dal primo sguardo.

La regia di Kenji Kodama lascia sconcertati per sciattezza e mancanza di qualsivoglia gusto per le inquadrature. Campi lunghi fuori asse, inquadrature dall’alto sbilanciate e senza alcuna logica, personaggi spesso tagliati fuori malamente dallo schermo e tanti altri errori che un regista dal curriculum così ampio non dovrebbe essere autorizzato a commettere.

La sceneggiatura di Yoichi Kato è, come detto, una semplice riproposizione delle avventure tipo di City Hunter, senza infamia e senza lode, a parte un cattivo davvero troppo stereotipato che diventa improvvisamente e fastidiosamente sopra le righe nella parte finale della storia.

Ovviamente questo cattivo si andrà a rovinare con le sue stesse mani, nonostante  la vittoria praticamente in pugno, solo per dimostrare al protagonista di valere qualcosa.

Anche qui, roba vecchia.

La parte più oscena di questo film sono senza dubbio le animazioni. Il frame rate non oltre i 20 fps regala momenti di rara scattosità e una generale lentezza che, unita alla regia poco ispirata ricca di micro-transizioni forzate e ad un montaggio da telenovela, porta lo spettatore, già di per sé poco appagato dallo scialbo character design, ad assonnarsi dopo poco.

La poca fluidità delle animazioni tradizionali viene prepotentemente messa in luce dagli inserti in computer grafica, i cui modelli palesemente più rapidi nelle movenze rappresentano uno dei pochi elementi visivi degni di nota del film, escludendo l’unica scena d’azione davvero decente.

Ultima considerazione va fatta per il cameo della banda Occhi di gatto. Questa apparizione, oltre ad essere un ennesimo elemento di fanservice, aggiunge un particolare interessante alla lore dei due universi narrativi.

Scopriamo infatti che le avventure di City Hunter e quelle di Cat’s eye si svolgono nello stesso universo. Per la precisione, le vicende di Ryo Saeba e soci si svolgono successivamente a quelle di Sheila, Kelly e Tati (Hitomi, Rui e Ai in originale).

Di base, le ragazze appaiono sullo schermo per non più di 3 minuti, parlano poco e le loro personalità non vengono affatto messe in luce, portando un ulteriore elemento di delusione, soprattutto in chi si aspettava le ragazze coinvolte maggiormente nella trama del film.

City Hunter: Private Eyes saprà sicuramente incontrare il favore dei nostalgici di Ryo e Kaori, ma dal punto di vista strettamente qualitativo, non raggiunge neanche la sufficienza.

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Cercò per lungo tempo il proprio linguaggio ideale, trovandolo infine nei libri e nei fumetti. Cominciò quindi a leggerli e studiarli avidamente, per poi parlarne sul web. Nonostante tutto, è ancora molto legato agli amici "Cinema" e "Serie TV", che continua a vedere sporadicamente.

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