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I supereroi nei manga Pt. 1 – Da Superman a Guyver

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I supereroi sono, tra gli esponenti della cultura pop, forse i più americani in assoluto. Laddove con l’aggettivo americano si intende una tendenza spasmodica all’esagerazione di situazioni o concetti in verità molto banali.

Gli stessi supereroi sono semplicemente una riproposizione degli eroi classici – come Eracle del mito greco o i protagonisti dei feuilleton, i romanzi d’appendice francesi – ai quali sono state impiantate caratteristiche ancora più esagerate (costumi sgargianti, poteri soprannaturali e l’immancabile identità segreta) utili a fornire loro un tocco di originalità in più che li facesse risaltare agli occhi delle masse.

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Proprio per queste sue peculiarità, il genere supereroistico non ha mai trovato particolare riscontro nei panorami fumettistici esterni agli USA.

Prendendo il caso italiano, non esiste alcun personaggio di successo assimilabile al concetto di supereroe che non sia smaccatamente parodistico. Lo stesso vale per la bande dessinée franco-belga o l’historietas argentina.

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Eppure, paradossalmente, c’è stato un paese con una tradizione fumettistica assai più chiusa che ha saputo invece appropriarsi della figura del supereroe per assoggettarla alle proprie dinamiche culturali ed editoriali: il Giappone.

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Quando si parla di supereroi, si inizia sempre da Superman

Quando Jerry Siegel e Joe Shuster diedero vita al personaggio di Superman sul n.1 della rivista Action Comics pubblicato da National Comics (poi DC Comics) nel 1933, non si aspettavano certo di dare vita a un genere né tantomeno a un bestseller da 2 milioni di copie a numero.

Nel momento in cui un personaggio raggiunge una tale fama, è certo che le aziende faranno a botte per accaparrarsene i diritti, oggi come allora. Negli anni ’30 e ’40 Superman era ovunque: al cinema, in radio, nelle edicole, sui manifesti pubblicitari, persino sul fronte di guerra. Durante la seconda guerra mondiale divenne infatti pratica comune dei soldati americani portarsi dietro albi a fumetti per tirarsi su il morale nei momenti di pausa.

In seguito all’occupazione del Giappone a opera dalle forze statunitensi, che installarono sul territorio numerose basi militari, alcuni di questi albi cominciarono a entrare in possesso dei bambini nipponici, stabilendo il primo contatto tra il mondo dei supereroi e i lettori del Sol Levante.

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Mentre in Giappone il manga cominciava la sua ascesa come medium simbolo della nazione, grazie soprattutto a personaggi iconici come Astro Boy (Tetswan Atom) di Osamu Tezuka, vere e proprie mascotte della ricostruzione post-bellica, negli Stati Uniti Superman regnava quasi incontrastato, nonostante la purga dei fumetti americani degli anni ’50.

Nel 1959, grazie al successo della localizzazione giapponese della serie tv Adventures of Superman, venne dato alle stampe il primo, vero fumetto giapponese ispirato a un supereroe: il manga di Superman realizzato da Tatsuo Yoshida, il quale si appassionò ai fumetti proprio grazie alle storie dell’Uomo d’Acciaio “importate” dai soldati americani.

Inizialmente si era optato per tradurre le storie già pubblicate in America, ma queste non incontrarono il gusto del pubblico giapponese, che rimase invece molto colpito dalla reinterpretazione di Yoshida (all’epoca astro nascente del manga), decretando il successo della serie e stabilendo un precedente quasi inviolabile: qualsiasi supereroe USA che avesse messo piede in Giappone da lì in avanti andava reinterpretato.

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Gli anni ’60: Ultraman e la nascita dei supereroi giapponesi

Gli anni ’60 furono un periodo denso di cambiamenti per il Giappone.
Ripresosi ufficialmente dalle batoste della seconda guerra mondiale, il paese si trovò immerso nel benessere economico e divenne uno dei protagonisti dello scacchiere politico e mediatico internazionale.

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Ciò favorì la contaminazione tra cultura pop nipponica e anglo-americana, sicché in Giappone cominciarono a fioccare gruppi musicali che emulavano i Beatles, cineasti appassionati di Hitchcock e mangaka in fissa per i comics americani (si pensi che Monkey Punch, creatore di Lupin III, era un grande fan di Superman).

Con il senno di poi, sembra ovvio che proprio in un periodo del genere siano nati i primi, veri supereroi giapponesi, capostipite dei quali fu Ultraman, creato nel 1966 dalla Tsuburaya Productions.

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Ultraman è un eroe dei tokusatsu, genere di produzioni televisive e cinematografiche incentrate su un massiccio uso di effetti speciali, spesso giustificati dalla presenza di un kaijū che vuole distruggere qualcosa.

Sin da subito il personaggio riuscì a distinguersi dai colleghi a stelle strisce per la teatralità ereditata dal teatro kabuki, genere contraddistinto da pose esagerate e una recitazione altisonante.

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A questo si aggiunse una morale assai meno individualista: i supereroi americani fanno quello che fanno perché possono (carità di stampo cristiano), mentre gli eroi giapponesi, già ai tempi dell’Astro Boy di Osamu Tezuka, lo fanno perché devono (onore figlio della tradizione confuciana).

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Mentre Ultraman e suo cugino Gekko Kamen (noto anche come Moon Mask Rider), entrambi del 1966, si impongono nell’immaginario giapponese, dagli USA arriva un’altra serie tv con protagonista un supereroe della DC: Batman, che in seguito al successo mondiale della serie tv del 1966 con protagonista Adam West godette a sua volta di una trasposizione manga da parte dell’artista Jiro Kuwata, creatore di Gekko Kamen, poi passata alla storia come Bat-Manga.

La serie divenne un cult tra gli appassionati dell’Uomo Pipistrello, guadagnandosi illustri ammiratori come David Mazzucchelli (disegnatore di Batman: Anno Uno), Grant Morrison (sceneggiatore di Batman: Arkham Asylum e di un lungo ciclo sulla testata ammiraglia di Batman) e Chip Kidd, designer al quale si deve il libro Bat-Manga!: The Secret History of Batman in Japan.

Il motivo di tale successo è da imputare all’impronta fortemente camp della serie, che la avvicinava moltissimo al gusto per l’esagerazione nipponico. Si pensi alle onomatopee che facevano capolino tra un pugno e l’altro, che i giapponesi avevano già sperimentato con i prorompenti strilli pubblicitari, ancora oggi molto in voga nel paese. Oppure ai balletti di Adam West, anche questi molto utilizzati dai comici televisivi nipponici.

Gli anni ’70: La Marvel ci prova, la Tatsunoko ci riesce

Con l’ascesa a seconda casa editrice di fumetti americana avvenuta nel decennio precedente, la Marvel Comics iniziò una forsennata ricerca di licenziatari cui concedere i diritti dei suoi personaggi.

Ovviamente il Giappone, che in breve avrebbe ottenuto lo status di seconda potenza economica mondiale, era visto come un mercato assai allettante in cui esportare proprietà intellettuali.

I rapporti tra la Casa delle idee e le aziende del Sol Levante negli anni ’70 furono infatti molti e variegati.

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In quel periodo la Marvel riuscì a ottenere le licenze per la produzione di fumetti tratti da linee di giocattoli come I Micronauti e i Transformers, e persino dal franchise di Godzilla.

La casa editrice Kodansha, forse proprio per cavalcare il rinnovato interesse per i supereroi generato da Ultraman, si accaparrò invece i diritti di Spider-Man e Hulk.

Inizialmente, proprio come fu con Superman, la casa editrice si limitò a tradurre le storie americane di Stan Lee e Steve Ditko, ma lo scarso successo la spinse ripiegare su un adattamento in salsa nipponica scritto da da Kōsei Ono e Kazumasa Hirai e disegnato da un giovane Ryōichi Ikegami (Sanctuary, Crying Freeman).

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Il manga di Spider-Man, pubblicato dal 1970 e 1971 su Weekly Shonen Magazine e poi raccolto in 5 volumetti, venne pubblicato in contemporanea al manga di Hulk. Quest’ultimo, pubblicato invece sulla rivista Weekly Bokura Magazine (dedicata a produzioni più sperimentali), venne scritto da Kazuo Koike (Lone Wolf & Cub) e Yukio Togawa e dai disegnatori Kosei Saigo e Yoshihiro Morito.

Nessuno dei due esperimenti ebbe però un successo anche solo paragonabile a quello del Kamen Rider di Shotaro Ishinomori, l’eroe mascherato che combatte i mutanti cyborg a colpi di mazzate e motocicletta. Per altro, il manga che lo vedeva protagonista venne pubblicato dalla stessa Kodansha nel 1971, l’anno dopo la chiusura dei manga di Spider-Man e Hulk.

L’ascesa di Kamen Rider consolidò l’estetica supereroistica giapponese inaugurata da Ultraman, poi evolutasi ulteriormente con il franchise dei Super Sentai (1974, sempre opera di Ishinomori) e l’avvento delle super squadre di eroi, con capostipite l’anime Gatchaman (1972) della Tatsunoko Production, fondata da quel Tatsuo Yoshida responsabile del manga di Superman. Praticamente le versioni nipponiche dei supergruppi americani stile Avengers e Justice League.

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Con la codificazione del genere fioccarono anche le prime parodie, come Cutie Honey (1973) e Kekko Kamen (1974) di Go Nagai, in cui le protagonista prendeva in giro i concetti di costume e identità segreta.

Addirittura Kekko Kamen andava in giro nuda con il solo volto coperto da una maschera, chiaro riferimento ai vestiari delle eroine femminili, ben più ammiccanti delle controparti maschili.

Ironicamente, un’altra opera di Go Nagai ha insospettabilmente molto in comune con gli eroi tokusatsu: Devilman (1972), la cui controparte animata venne adattata in modo tale da somigliare il più possibile al Kamen Rider di Ishinomori, del quale lo stesso Nagai fu assistente per qualche tempo.

Tuttavia i giapponesi non avevano del tutto perso interesse per gli eroi Marvel, tanto che nel 1978 spuntò fuori una serie tv live action in cui uno Spider-Man motociclista e giapponese combatteva gli alieni a bordo di un robottone chiamato Leopaldon.

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Prodotta da Toei, Spider-Man (meglio nota come Supaidaman) ebbe un discreto successo, nonostante gli alti vertici della Marvel fossero inizialmente restii all’idea di stravolgere così tanto il personaggio.

Il progetto venne approvato solo grazie a un entusiasta Stan Lee, ben conscio che quei cambiamenti sarebbero stati necessari affinché la serie piacesse al pubblico giapponese, ormai totalmente assuefatto ai tokusatsu.

Tale successo spinse poi la casa editrice Shogakukan a tirare fuori un manga sul personaggio di Moon Knight (1979) scritto e disegnato da Gosaku Ota, co-autore di diversi manga tratti dai Super Robot (Mazinger Z, Grendizer) di Go Nagai.

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Gli anni ’80 e ’90: No more (super)heroes?

Il successo di Supaidaman, più che un rilancio del supereroismo in Giappone, ne fu il canto del cigno.

Serie come Gundam (1979) e Akira (1982) avevano condotto la fantascienza verso derive più austere e disilluse, e Weekly Shonen Jump, rivista di punta della casa editrice Shueisha, aveva ridefinito il concetto di eroe nipponico attraverso il genere battle shonen.

Il supereroe, inteso come reinterpretazione in chiave tokusatsu degli eroi mascherati americani, cominciò a diventare un mero reperto nostalgico per appassionati, perdendo parzialmente il suo posto di pilastro dell’intrattenimento. E questo nonostante i seguiti di Ultraman, Kamen Rider e dei Super Sentai abbiano ancora oggi il loro spazio nei palinsesti televisivi.

L’idea di eroe giapponese cambiò radicalmente negli ’80, passando da protettore del benessere comune a guerriero che riesce a raggiungere il proprio obiettivo in una società ultra-competitiva, oppure, in alternativa, ad outsider incapace di conformarsi a quel nuovo status quo, e per questo emarginati. Esattamente come il Giappone dell’epoca.

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Tuttavia, molti autori degli ’80, cresciuti proprio con Ultraman, Megaloman, Gekko Kamen e compagnia, dedicarono loro numerosi omaggi e camei all’interno delle loro opere.

Mangaka come Katsuhiro Otomo, che mise un pupazzetto di Ultraman tra le macerie di Tokyo in Akira, o Akira Toriyama, che rese Suppaman (parodia di Superman) un personaggio ricorrente del suo Dr. Slump e riversò la sua passione per i Super Sentai in Dragon Ball (prima con la squadra Ginyu e poi con Great Saiyaman).

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Nasceva così una nuova ondata di autori che avrebbe portato avanti lo stendardo dei supereroi giapponesi, tra cui un certo Masakazu Katsura, che nel 1983 cominciò per Shueisha la serializzazione di Wingman, la sua prima serie di lunga durata.

Kenta, protagonista del fumetto, è un grande fan dei supereroi tokusatsu che, grazie a un quaderno magico, può trasformarsi in un eroe mascherato dotato di straordinari poteri. Più avanti, altri come lui otterranno la stessa capacità, dando vita a una vera e propria super squadra sulla falsariga dei Super Sentai.

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Nel 1985 Kadokawa Shoten diede invece alle stampe Guyver di Yoshiki Takaya, vero e proprio pilastro del manga fantascientifico del periodo, nonché degno erede di Kamen Rider e Ultraman.

Come tipico della tradizione dei tokusatsu, il protagonista Sho Fukamachi è un giovane ignaro che entra in possesso di un’avveniristica bio-armatura rubata a degli alieni, gli Zoanoidi, intenzionati a conquistare la Terra.

A distinguere Guyver dagli antenati camp degli anni ’70 sono la forte componente di critica sociale (gli Zoanoidi operano attraverso una multinazionale, la Cronos) e le dosi estreme di violenza biopunk e ambiguità morale che trasudano da ogni tavola, in netta opposizione alla ben più tradizionale leggerezza di Wingman.

Wingman e Guyver rappresentano dunque le due anime del manga shonen del periodo – l’eroe egoista e conformato da una parte; il rinnegato che combatte contro i lati oscuri di una società corrotta dall’altra – dimostrando che i supereroi giapponesi avevano ancora molto da dire dal punto di vista del contenuto.

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Cercò per lungo tempo il proprio linguaggio ideale, trovandolo infine nei libri e nei fumetti. Cominciò quindi a leggerli e studiarli avidamente, per poi parlarne sul web. Nonostante tutto, è ancora molto legato agli amici "Cinema" e "Serie TV", che continua a vedere sporadicamente.

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