Interviste

Orfeo e gli altri: Intervista a Luca Tarenzi

Oggi, qui su SpaceNerd, abbiamo l’onore e il piacere di intervistare uno dei nomi di punta del fantasy italiano: Luca Tarenzi.

Attivo dal 2006 nel campo della scrittura, ha lavorato anche come traduttore di autori sempre nel panorama fantasy, collaborando a far conoscere anche qui in Italia nomi quali Jonathan Stroud e Kij Johnson. Portano la sua firma romanzi della Acheron e, prima ancora, della Salani.

Da poco è reduce della pubblicazione del suo nuovo romanzo Sogno e Morte, primo volume della serie di Orfeo, edito da Giunti Editore.

Il fantasy secondo Luca Tarenzi

Una domanda leggera, giusto per rompere il ghiaccio. Quand’è che hai cominciato a scrivere in ambito fantastico, o anche solo a scrivere in generale? E cosa ti ha spinto a mettere mano alla penna?

La disoccupazione. Sul serio. A ventisette anni ero rimasto senza lavoro ed ero abbastanza depresso: la mia fidanzata di allora (che di lì a qualche anno avrei sposato), sentendomi dire che avevo fatto un sogno che sembrava una storia fantasy, cominciò a insistere che la scrivessi, anche solo per riempire le mie giornate.

All’inizio io feci resistenza, ma lei insistette al punto che per metterla tranquilla iniziai davvero. E in undici settimane, nell’inverno tra il 2003 e il 2004, lavorando esclusivamente di notte, scrissi Pentar, il mio primo romanzo, pubblicato nel 2006.

Tra gli autori della tua “giovinezza” (uso le virgolette perché sei ancora giovane), quali sono stati quelli che, a tuo parere, ti hanno formato di più e ai quali devi indirettamente più insegnamenti?

Ho quarantotto anni: sono giovane se confrontato con una quercia, se confrontato con una verza sono decrepito. Per tornare agli autori, Stephen Donaldson è quello che ho amato di più da adolescente e i suoi romanzi sul personaggio di Thomas Covenant hanno senz’altro lasciato un segno forte sulla mia idea di come si creano mondi e personaggi.

In tempi più recenti, due autori urban fantasy hai quali ho guardato coscientemente come modelli sono  “i due Jim”: Jim Butcher e Jim Hines. Il primo, che leggevo già molti anni prima che arrivasse in Italia, ha obiettivamente molti limiti che quando ero più giovane non sapevo vedere, ma non posso negare che mi abbia influenzato soprattutto a livello di stile.

Il secondo, praticamente sconosciuto nel nostro paese, per me rimane uno dei giganti imbattuti del fantasy contemporaneo. In ultimo voglio citare la grandissima Ursula LeGuin, che ha scritto alcuni dei romanzi che mi sono più cari in assoluto, soprattutto come autrice di fantascienza.

Dai tuoi numerosi scritti dimostri una certa abilità nel variare i sottogeneri del fantastico (horror, urban fantasy, fantastorico, epic fantasy), dando al tuo stile un tono punk o fiabesco quando occorre. Pensi sia difficile per uno scrittore sperimentarne sempre di più con il proprio stile? O almeno, lo è stato per te?

Quando qualcuno mi chiede consigli su come trovare uno stile, io rispondo sempre alla stessa maniera: iniziate copiando. Io ho fatto così. Copiavo lo stile degli autori che mi piacevano (in particolare il Jim Butcher di cui sopra), e mi sforzavo di farlo nella maniera più fedele possibile.

Forse sembra controintuitivo, ma è così che ho trovato la mia voce: imitando quelle degli altri che mi affascinavano, finché non ho capito – in maniera del tutto naturale, senza strani sforzi – che cosa mi andava bene tenere e che cosa preferivo cambiare a modo mio. Il resto è venuto da solo, non c’è stato bisogno di operare coscienti metamorfosi di paradigma scrittorio: ogni libro chiede di essere scritto nel modo che gli conviene.

Tra l’urban fantasy, che sembra essere il tuo genere “principale”, e l’epic fantasy, al quale ti sei recentemente “trasferito” con L’Ora dei Dannati e Orfeo, a quale dei due ti senti più legato?

Senza dubbio all’urban. Il fantasy “in secondary world” resta indiscutibilmente la pietra angolare del genere, non tramonterà mai e io per primo non mi stanco mai di leggerlo, ma di contro non sono mai stato molto attratto dall’idea di scriverlo. Per qualche ragione – che in realtà non so spiegare nemmeno io a me stesso – per poter scrivere una storia di fantasia ho sempre avuto bisogno che abbia un qualche legame, anche labile, con il nostro mondo.

Per questo sono a mio agio con l’urban fantasy, ma anche con il fantasy in ambientazione storica e con casi più particolari come l’Ora dei Dannati che tecnicamente va sotto la definizione di “Bangsian fantasy”, ovvero le storie ambientante interamente nell’Aldilà e in cui tutti i personaggi sono morti (che poi, se la si guarda bene, è una forma di fantasy storico).

Milano è una città molto presente in diversi tuoi romanzi (Quando il Diavolo ti Accarezza, Godbreaker, Severianus). Riesci a dare personalità a questa città bella e misteriosa. In diversi tuoi interventi hai detto che in uno urban fantasy la città deve essere, oltre al setting, “un altro personaggio”. Puoi approfondire?

“Urban fantasy” è una definizione almeno in parte fuorviante (infatti molti letterati stranieri oggi preferiscono “contemporary fantasy”), perché potrebbe far pensare che le storie in questione debbano svolgersi per forza in una città, quando esistono un sacco di esempi del contrario. Il punto è piuttosto che si tratta di storie fantasy ambientate nel nostro mondo, o meglio in una versione del nostro mondo il cui un fantastico fatto di magia, creature soprannaturali e via dicendo è reale.

A dargli la sua “personalità” specifica come sottogenere è proprio il rapporto con il mondo che conosciamo, il fatto che il background da cui si attinge non è costruito appositamente per l’ambientazione ma nasce (almeno in parte) dalle leggende, dal folclore, dalla storia e dalla geografia di luoghi reali. Se il luogo in questione è una città, come di fatto spesso accade anche se – lo ribadisco – non sempre, è fondamentale che l’atmosfera, i luoghi, i dettagli storici (veri o presunti) di tale città traspaiano fortemente nella storia, siano proprio elementi di primo piano, perché è primariamente da essi che deriva la collocazione nel sottogenere.

In questo senso ho usato spesso l’espressione “la città deve essere uno dei personaggi”. Per il fantasy in ambientazione storica vale un discorso analogo, con l’opportuno spostamento temporale.

Tra i libri che hai scritto, potresti farci una TOP 5, o anche solo 3, di quelli a cui sei più affezionato? E perché?

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Facciamo tre, non fatemi faticare troppo… In testa metto proprio il più recente, “Orfeo. Sogno e morte”. Perché è stato veramente un unicum, un libro la cui stessa stesura ha avuto un significato profondo per la ma vita anche al di fuori della mia professione.

A seguire il primo volume dell’Ora dei Dannati, L’Abisso. È il romanzo che mi ha fatto soffrire più di ogni alto, che ho impiegato più tempo a terminare (quasi due anni) e che ha rappresentato una lotta continua quasi a ogni pagina. A oggi è il  mio bestseller.

Per terzo, Godbreaker, un libro che ho scritto dodici anni fa e che ho amato di un amore puro, quasi infantile, perché in un certo senso faceva il punto su tutte le mie esperienze letterarie e umane dell’epoca.

In precedenza hai anche lavorato come traduttore, con nomi quali Jonathan Stroud sul tuo curriculum. Com’è stato avere tra le mani opere fantasy di rilievo che sarebbero state portate in Italia grazie al tuo contributo?

Diciamo che cercavo di non pensarci troppo per non farmi prendere dall’ansia da prestazione… Questo soprattutto all’inizio: con il tempo è subentrata la calma dell’esperienza professionale. L’aspetto più bello di tutti, però, per me resta ancora oggi la reazione degli autori stessi: ho avuto la fortuna di conoscere personalmente alcuni di loro – a volte online a volte persino dal vivo – e la profonda, evidente, gioiosa gratitudine con cui accolgono una persona che ha tradotto i loro libri è qualcosa di difficile da descrivere (Jonathan Stroud in particolare è un personaggio adorabile: l’ho incontrato qualche anno fa in Olanda ed è stato quasi come ritrovare un vecchio amico).

Ma alla fine non è una cosa strana: se immagino di incontrare un ipotetico futuro traduttore straniero di un mio libro, mi figuro una reazione del tutto analoga da parte mia.

La situazione attuale del fantasy italiano si può definire in ascesa? Rispetto a dieci o più anni fa ci sono più case editrici disposte a investire nel genere, dopotutto.

Più editori disponibili a pubblicare, più pubblico disponibile a leggere e in media un evidente innalzamento anche nella qualità di quel che viene messo in vendita. In una forma o in un’altra la domanda sullo “stato del fantasy italiano” mi viene rivolta molto spesso, e io rispondo sempre alla stessa maniera: il miglioramento generale è innegabile e tuttora in corso. Alleluja!

Credi che un buon scrittore fantasy italiano debba dare priorità a narrare storie che riguardino il folklore della nazione di appartenenza, o gli è consentito anche di “appropriarsi” del folklore altrui, se non proprio crearne uno ex-novo?

Non credo nei dogmi. Punto. In quanto italiani nostro patrimonio storico-leggendario-culturale è uno straordinario tesoro ancora in buona parte inesplorato dalla moderna letteratura dell’immaginario (si veda quanto dicevo sopra a proposito dell’urban fantasy), e che oltretutto ci viene esplicitamente invidiato da vari autori di lingua inglese (li ho sentiti con le mie orecchie), ma non può e non deve rappresentare un vincolo, laddove di fatto è l’opposto, è una libertà: quella di scegliere che cosa ci affascina di più in un forziere pieno di meraviglie.

Ma il mondo esiste anche fuori dal quel forziere: ci sono i forzieri degli altri paesi e delle altre culture, e c’è l’abisso inesauribile della nostra stessa immaginazione. I lettori italiani vengono spesso accusati (o forse ancor più spesso si autoaccusano) di essere esterofili, e come in ogni stereotipo anche in questo c’è un fondo di verità, ma il rischio diametralmente opposto è quello di cadere nel tranello di una mentalità (tipicamente americana se proprio vogliamo farne una questione di confini) che incatena l’appartenenza culturale alla liceità scrittoria.

Esempio pratico: vuoi scrivere una storia sul Vudù? Allora devi essere caraibico o perlomeno figlio di caraibici, altrimenti non ne hai diritto, stai facendo appropriazione culturale e via dicendo. Ecco, questa io la trovo una mentalità estremamente pericolosa.

Dalla tua ultima trilogia, L’Ora dei Dannati, e dal tuo ultimo scritto di prossima uscita, Orfeo, si parla di viaggi nell’Aldilà. Da dove è venuta questa voglia di ambientare i tuoi ultimi (per ora) lavori nei vari reami della morte e di raccontarne una specie di uscita?

In realtà le due storie hanno genesi molto diverse, e il fatto che parlino entrambi di aldilà ed escano in libreria a stretto giro è una coincidenza. L’Ora dei Dannati nasce da un mio desiderio, concepito inizialmente una decina d’anni fa, di scrivere qualcosa che una massa molto vasta di lettori potesse riconoscere automaticamente, persino senza alcuna attitudine o abitudine a leggere fantasy.

Dalla fusione di quella originaria fantasticheria con il mio amore per Dante, la provvidenziale lettura di vari testi che mi hanno ispirato e alcuni altri avvenimenti casuali (tra cui una canzone di Caparezza) ha finito per scaturire la trilogia.

Orfeo per contro ha radici ben più antiche: il suo mito è un’ossessione che mi ha accompagnato per tutta la vita e l’averla trasformata nel primo libro di una nuova trilogia è il punto di arrivo di un procedimento (perlopiù mentale) durato quasi trent’anni.

Il ri-narrare dei classici con una prospettiva contemporanea ti classificherebbe, assieme ad altri, come autore “postmoderno”. Ti trovi bene con questa pseudo-etichetta?

Più di quanto possiate immaginare. Io mi sento postmoderno in quasi tutti gli aspetti della mia vita, dal pensiero filosofico a quello spirituale, dai gusti artistici all’approccio a cose come la magia e l’occultismo. Se sia un pregio, un difetto o una caratteristica neutra non saprei dirlo (e probabilmente non spetterebbe nemmeno a me fare questa valutazione), ma è una cosa di me stesso che posso constatare con ben pochi dubbi.

Come ultima domanda, qualcosa che di certo molti si staranno chiedendo: che cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova serie su Orfeo?

Nelle mie speranze, una storia epica sulle grandi domande dell’animo umano. E un’avventura “moderna” tra i mostri e gli dèi del’Età del Bronzo. E uno sguardo “orizzontale” sui miti che stanno alla base della nostra cultura, che li renda agli occhi dell’osservatore meno marmorei e più fatti di carne e sangue ed emozioni.

La redazione di SpaceNerd ringrazia Luca Tarenzi per il suo tempo! A presto, ci rivediamo in libreria!

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Fin da bambino sono sempre stato appassionato di due cose: i romanzi fantasy e il cinema, passioni che ho coltivato nel mio percorso universitario, laureandomi al DAMS Crescendo hoi mparato a coltivare gli amori per i videogiochi, i fumetti e ogni altra forma di cultura popolare. Ho scritto per magazine quali Upside Down Magazine e Porto Intergalattico, e ora è il turno di SpaceNerd di sorbirsi la mia persona! Sono un laureato alla facoltà DAMS di Torino, con tesi su American Gods e sono in procinto di perseguire il master in Cinema, Arte e Musica.

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