“Mi piacciono gli Horror e da sempre sono alla ricerca di qualcosa che mi faccia riprovare il terrore che provai quando a quattro anni vidi per la prima volta La Cosa di Carpenter. Sono passati 22 anni e grazie ad alcuni videogiochi quella sensazione di terrore torna a farmi visita di tanto in tanto”
Come intuibile dall’inizio di questo articolo, oggi voglio esprimervi dei pareri estremamente personali e su titoli a cui ho giocato. Pertanto mi scuso se tralascerò giochi come ad esempio Alan Wake, la saga degli Alone in the Dark o quella dei Five Nights.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un ritorno in grande stile dei giochi Horror grazie all’arrivo di nuove IP e a delle sapienti operazioni come, ad esempio i remake dei vecchi capitoli di Resident Evil da parte di Capcom. La situazione però non è sempre stata così rosea per questo genere di videogiochi, e purtroppo durante il corso degli anni alcune delle saghe che hanno contribuito a creare questo genere sono mutate, diventando l’ombra di ciò che erano, se non addirittura scomparse.
Era il lontano 1996 e come esclusiva per la prima PlayStation stava per arrivare un titolo che avrebbe cambiato per sempre il panorama videoludico. Sviluppato dalla leggendaria Capcom, Resident Evil, che nella terra del sol levante venne distribuito con il nome di Bio Hazard, prendeva ispirazione dai classici film dell’orrore del maestro George Romero trasportando la paura dei non morti in un videogame.
Tutti ormai conosciamo le vicende legate a Jill Valentine e Chris Redfield, membri della squadra Alpha del gruppo S.T.A.R.S., alla villa situata sulle montagne di Raccoon City e alle amichevoli creature create dalla Umbrella Corporation. All’epoca dell’uscita però nessun videogames aveva mai mostrato in maniera così esplicita e realistica la violenza, grazie alla potenza della macchina di Sony quelli che prima erano degli ammassi di pixel ora erano dei personaggi dettagliati che si muovevano all’interno di ambientazioni realistiche.
Il sistema di shooting estremamente macchinoso ed impreciso unito alla lentezza nei movimenti dei due protagonisti ponevano il giocatore in un costante stato di ansia; anche le limitazioni della macchina vennero usate per favorire l’immersione nel titolo. Un esempio di ciò è l’iconica schermata di transizione da un’ambiente ad un altro utilizzata per mascherare il caricamento delle texture: con una semplice animazione di una porta che si apre, Capcom riusciva a far provare un senso di terrore misto ad ansia per ciò che avremmo trovato.
Oltre a queste peculiarità, Resident Evil presentava marcati elementi survival come l’esigua presenza di munizioni e piante, la gestione dell’inventario e il sistema di combinazioni risultavano estremamente legnose e poco intuitive. Era quindi lasciato al giocatore il compito di prepararsi adeguatamente nelle varie safe room presenti nella villa.
Malgrado prima del titolo di Capcom il panorama presentava già titoli appartenenti al genere survival horror, come ad esempio il capostipite della serie Alone in the Dark, fu proprio la software house nipponica a coniare questo termine riferendosi al proprio gioco.
Tra enigmi ambientali, cadaveri in putrefazione, non morti e ragni giganti, Resident Evil diede il via alla mia ricerca di quell’ansia costante che solo un buon horror sa regalare. Quando questo titolo uscì, colpi così duramente il pubblico dell’epoca che venne pesantemente censurato nella versione per il mercato occidentale.
Nel 1999, tre anni dopo l’uscita di Resident Evil, arrivò in esclusiva per PlayStation un nuovo titolo che sarebbe divenuto culto per i fan del genere survival horror. Sviluppato dell’allora sconosciuto Team Silent e pubblicato da Konami, Silent Hill si poneva l’obiettivo di far provare nuovamente quel terrore viscerale ai videogiocatori.
Grazie alle nuove tecnologie, Silent Hill si presentava con una visuale in terza persona e ambientazioni completamente tridimensionali. Come per il gioco di Capcom, anche il Team Silent sfruttò a proprio favore le limitazioni tecniche imposte dalla macchina. L’iconica nebbia in cui è avvolta la cittadina statunitense infatti venne utilizzata per ridurre al minimo i modelli ambientali da processare. Con questo espediente, il titolo di Konami poneva il giocatore sotto una costante pressione psicologica, poiché nella nebbia si annidavano creature ed abomini degni di un racconto di H.P. Lovecraft.
Ripercorrendo le vicende legate ad Harry Mason e alla sua disperata ricerca della figlia adottiva, il giocatore avanzava inconsapevole del fatto che ogni sua azione lo avrebbe portato ad uno dei cinque finali disponibili.
La presenza continua ed opprimente di questa nebbia, di una trama dalle tinte marcatamente dark e di momenti di puro terrore psicologico, permisero a Silent Hill di discostarsi dai titoli survival horror usciti in precedenza andandosi a porre come innovatore del genere horror.
Era il 2006 quando Elecrtonic Arts ci presentò (tramite uno dei trailer d’annuncio più disturbanti mai prodotti) Dead Space e il suo protagonista Isaac Clarke, meccanico specialista incaricato di recarsi sulla USG Ishimura per verificarne la situazione.
Il titolo survival horror sviluppato dai talentosi ragazzi di Visceral Games sfruttava l’ambientazione in maniera magistrale, gli angusti corridoi illuminati dalle luci neon intermittenti ricolmi di cadaveri dell’equipaggio facevano provare un costante senso di oppressione al giocatore.
L’assenza di un HUD visibile a schermo contribuiva ad immergere in maniera completa, la vita viene indicata da una barra situata sulla schiena del protagonista, le munizioni delle armi, invece, sono conteggiate in ologrammi facenti parti dell’arma stessa, visibili in fase di mira. L’iconica arma della serie ricavata da uno strumento minerario permise agli sviluppatori di introdurre la meccanica dello smembramento, l’unico modo per fermare definitivamente i necromorfi.
La lentezza complessiva dei movimenti di Isaac unita alla sensazione di pesantezza data dalla tuta protettiva, contribuivano a far sentire il giocatore perennemente indifeso rispetto agli abomini presenti sul cracker planetario. Anche il sonoro giocava un ruolo fondamentale a mantenere un livello costante di ansia, per tutta l’avventura infatti il protagonista non dice nemmeno una parola e il silenzio dello spazio viene squarciato da orridi lamenti…
Sebbene già titoli come il primo Dead Space o Alan Wake presentassero meccaniche più action rispetto alle vecchie glorie, con il passare del tempo quest’impronta divenne troppo preponderante. Per rendere più accessibili i giochi horror, le software house virarono verso una deriva nettamente action andando a snaturare quelle che erano le peculiarità del genere.
Uno degli esempi più lampanti di tale operazione fu la saga dei Resident Evil che da iniziatrice del genere si ridusse ad uno sparatutto in terza persona. Di questo fenomeno ne soffriva già Resident Evil 4, ma divenne realmente visibile nei capitoli 5 e 6. I non-morti che prima ci terrorizzavano, riempiendo di incubi i nostri sogni, ora erano dei semplici ammassi di carne su cui il giocatore faceva piovere proiettili.
Anche la saga horror fantascientifica ideata da Visceral Games subì pesanti cambiamenti già dal secondo capitolo. Malgrado Dead Space 2 presentasse alcune meccaniche innovative ed estremamente interessanti (come ad esempio le sequenze a gravità zero), il team di sviluppo decise di velocizzare notevolmente i movimenti di Isaac (che ora poteva addirittura voltarsi rapidamente di 180°).
Nemmeno The Sprawl, stazione spaziale sulla quale il nostro protagonista si risveglia dopo i fatti di Dead Space, sebbene fosse ottimamente caratterizzata riusciva a trasmettere lo stesso senso di continua oppressione che si avvertiva nei corridoi della Ishimura. Con il terzo capitolo della saga si raggiunse un punto di non ritorno, l’aggiunta di una componente multiplayer locale e un totale cambio di ambientazione segnarono la definitiva svolta action della serie e la sua inevitabile conclusione.
Peggiore fu ciò che il destino aveva in serbo per la saga dei Silent Hill; dopo un primo capitolo eccezionale ed un secondo che reggeva benissimo il confronto, introducendo inoltre una delle figure emblematiche della serie e del genere, Konami decise di sfruttarne il successo producendo una serie di sequel e spin-off di qualità sempre più bassa.
Questa situazione raggiunse il suo culmine nel 2014 quando Konami decise di cancellare il progetto denominato P.T. in sviluppo presso la divisione Kojima Productions. Purtroppo tutti siamo a conoscenza di quello che successe in seguito, i rapporti tra Konami e Kojima (già incrinati dalle tensioni in seguito a Metal Gear Solid V) terminarono bruscamente e la serie Silent Hill venne messa definitivamente in pausa.
Solo nel corso degli ultimi anni la situazione è migliorata per i giochi survival horror grazie a nuove IP come Outlast o Alien Isolation, quest’ultimo riuscendo in maniera impeccabile a trasportare il giocatore all’interno del mondo mostrato nella pellicola di Ridley Scott.
Anche Capcom, a seguito di una pesante riorganizzazione interna, ha contribuito in maniera importante al ritorno del genere horror. Dopo diverse remasterd in HD dei primi capitoli la software house nipponica rilasciò Resident Evil VII, nuovo capitolo che riprendeva l’anima dei primi titoli aggiornandola al 2017. Nonostante la scelta di adottare una visuale in prima persona, Resident Evil VII venne accolto in maniera estremamente positiva da critica e pubblico.
Cos’hanno questi titoli in comune e perché stanno riportando in auge il genere horror?
Come dicevano prima, i pionieri immergevano il giocatore in un costante stato di ansia, meccanica che ritroviamo anche nei nuovi titoli citati. Per esempio, in Outlast, l’ansia viene generata dall’ignoto e dal presentimento che il giocatore possa imbattersi in qualcosa semplicemente procedendo.
A questo va ad aggiungersi lo stato di inferiorità nei confronti del nemico di turno: l’assenza di meccaniche prettamente action, ma anzi la continua ricerca di una zona che possa far tirare un respiro di sollievo da nemici che non possono essere abbattuti, crea nel videogiocatore quel sentimento che ad oggi si era andato a perdere.
È quindi arrivato il momento di tirare un respiro di sollievo e preservare la nostra ansia per le nostre sessioni horror: la situazione attuale nel genere degli horror-games sembra essersi stabilizzata. Alcune tecnologie che stiamo imparando a conoscere, come i visori VR, si sposano perfettamente con titoli come Resident Evil VII, immergendo in maniera completa il giocatore al loro interno.
Nonostante questo però, credo possa essere fatto ancora di meglio. Vorrei il ritorno di più titoli capaci di tenermi lo stomaco stretto in una pressa senza dover ricorrere eccessivamente a jumpscare o all’eccessiva violenza ma solamente grazie ad una paura costante ed opprimente.
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