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Vanillaware, creatori di capolavori sconosciuti

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Vanillaware

“Vanillaware? Vanilla… ware? Cos’è Vanillaware?”.

Tu, sì, tu che dietro allo schermo stai leggendo questo articolo, proprio tu. So che queste sono state le tue prime parole quando hai letto il titolo dell’articolo. Beh, non che sia sorprendente, i giochi della software house giapponese, benché negli anni hanno praticamente sempre ottenuto grande apprezzamento dalla critica specializzata, difficilmente sono stati posti sotto riflettori del pubblico casual (e spesso nemmeno di quello così tanto casual).

Sono giochi che, per conoscerli, devi essenzialmente essere parte di una di due categorie: o un fan degli action 2D, o un weeb (magari alcuni di voi preferirebbero il termine “otaku”, ma quel termine qui è bandito, arrangiatevi).

Bene, io non ero un fan degli action 2D, ma ero un weeb. Grazie ai Vanillaware adesso sono anche un fan degli action 2D. Con questo articolo, l’obiettivo è far conoscere anche ai lettori di SpaceNerd la storia di una delle migliori software house degli ultimi 15 anni, indagare i perché e i percome i loro giochi sono diventati un vero e proprio culto per una nicchia di appassionati, con uno sguardo sul futuro della casa che, proprio alla fine dell’anno scorso, ha rilasciato quello che potrebbe essere considerato il suo progetto più ambizioso.

Gli esordi fallimentari

La storia del fondatore di Vanillaware, George Kamitani, inizia molto prima dell’apertura dello studio stesso. Kamitani infatti iniziò a lavorare nell’industria videoludica già negli anni ’80, compiendo vari lavori per diverse compagnie del settore, la più rilevante di esse sicuramente Capcom. Abbandonata Capcom, Kamitani unì le forze con un suo vecchio amico per creare un gioco “life-sim”(pensate ad Animal Crossing), intitolato Princess Crown. Questo almeno era il piano originale.

Dopo aver ricevuto diversi “no” dai publisher ai quali fu proposto, arrivò il turno di SEGA, il cui rappresentante chiese se il titolo appartenesse al genere RPG (il più popolare in Giappone), poiché il Saturn (O Genesis, che dir si voglia) non poteva vantarsi di una grande offerta nel genere, rispetto alla concorrente PlayStation, che poteva contare, tra gli altri, sui due franchise RPG più famosi in Giappone, Final Fantasy e Dragon Quest. Kamitani, per evitare l’ennesimo rifiuto, rispose di sì, e cambiò gli aspetti da life simulator del gioco per farlo così diventare un RPG a tutti gli effetti.

Lo sviluppo del gioco, iniziato nel 1995, fu tutt’altro che rose e fiori; la compagnia di Kamitani andò in bancarotta l’anno successivo e SEGA si rifiutò di garantirgli fondi per proseguire lo sviluppo del gioco. Fortunatamente, un amico di Kamitani, impiegato di SEGA, lo mise in contatto con Atlus, la quale approvò il progetto e decise di assumere tutti gli sviluppatori originali. Il progetto continuò nelle mani di Atlus Kansai, un team composto da sei persone. No, non mi sono sbagliato col numero, erano proprio sei persone. Sega si occupò della pubblicazione del titolo, con il quale Kamitani ambiva a “creare un gioco come Dragon Quest, con uno stile grafico ispirato a Alice in Wonderland“. Il gioco però non era un JRPG tradizionale, bensì un misto di elementi RPG e action 2D, con un combattimento che, per quanto acerbo, getta le basi per quello che sarà il futuro stile dei giochi Vanillaware.

Uscito finalmente nel Novembre del 1997, Princess Crown fu un completo fiasco commerciale, rilasciato su un Saturn ormai morente e pronto a dare il cambio al Dreamcast, il clamoroso insuccesso del gioco cancellò tutti i piani per un seguito (che Kamitani stava iniziando a progettare proprio in quel periodo, e sarebbe dovuto essere un gioco 3D per la futura console SEGA), bloccando una possibile versione occidentale e portando alla chiusura di Atlus Kansai. Nonostante ciò, Atlus decise di farne comunque un remake per PSP nel 2005, che ottenne un discreto successo; questa versione del gioco è stata riproposta di recente su PlayStation 4, come bonus per il preordine dell’ultimo gioco di Vanillaware.

Dopo il fallimento di Princess Crown, Kamitani passò diversi anni ad occuparsi di compiti di minore importanza, spesso con risultati insoddisfacenti, presso Sony, ma durante questi anni avvenne l’incontro più importante della sua carriera. Egli infatti conobbe l’artista Shigatake, con il quale stringerà una fruttuosa collaborazione: in tutte le produzioni Vanillaware (o quasi tutte), Shigatake assumerà il ruolo di artista principale, conferendo ai giochi della software house uno stile inconfondibile. E quando Kamitani fu assunto da Enix (ancor prima dell’unione con Square, nel 2002) per lavorare sull’MMORPG Fantasy Earth: Zero, egli coinvolse anche Shigatake, che diede al progetto un primo esempio, ancora acerbo, di quello che diventerà lo stile della futura Vanillaware.

Proprio durante lo sviluppo del suddetto MMO, Kamitani creò Puraguru, la proto-Vanillaware, che all’epoca contava solo tre impiegati: Kamitani stesso, Shigatake e il programmatore Kentaro Ohnishi. Nel mentre, grazie all’arrivo di Kamitani, che assunse il ruolo di director, ebbe un completo cambio di rotta: il setting fu cambiato (originariamente il gioco avrebbe dovuto trattare una guerra tra umani e vampiri), rendendolo un fantasy più tradizionale, in accordo con i gusti di Kamitani(che a quanto pare ha una fissa per le principesse), e il suo sviluppo iniziò a richiedere sempre più risorse, diventando a tutti gli effetti un progetto di primaria importanza all’interno dei piani della neonata Square Enix.

Ma lo sviluppo del gioco, ancora una volta, fu costellato di problemi, che, in ultima analisi, convinsero Square a togliere il progetto dalle mani di Kamitani. Kamitani, frustrato e stressato dal vedere il suo gioco affidato a un altro dopo tutti gli sforzi riposti in esso, affermerà più volte in seguito che Square gli rubò (in senso figurato, ovviamente) il progetto. Ma dopo tanti anni di fallimenti, commerciali e non, il vento stava per cominciare a cambiare a direzione…

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Siamo nell’autunno del 2004. Kamitani, rimasto senza progetto a cui lavorare, decide di trasferire la compagnia da Tokyo a Osaka, e di cambiarle nome, da Puraguru a Vanillaware. Un nome con una genesi molto particolare: l’obiettivo della neonata compagnia di Kamitani era quello di “trovare una stabilità come quella del gelato alla vaniglia“. Stabilità, quella che Kamitani, nel suo decennio da sviluppatore, non aveva mai raggiunto.

Al team si aggiunsero altre sette persone, e iniziarono i lavori sul primo gioco della nuova compagnia, il primo su PlayStation 2, quello che poi sarebbe divenuto Odin Sphere. Inizialmente, Kamitani era indeciso sul da farsi col nuovo progetto: avrebbe voluto creare un gioco sulla scia di Princess Crown, ma non era sicuro sul come procedere. Sarebbe stato meglio un sequel o un successore spirituale? Alla fine, anche per aver vita più facile con i publisher, si optò per la seconda scelta.

Ma, nonostante la voglia di riscatto e il talento indiscutibile all’interno del team, Kamitani portava sulle spalle un peso non indifferente: il fallimento di Princess Crown, condito dalla cacciata di Square-Enix, non gli aveva esattamente garantito la migliore delle reputazioni. Fu solamente grazie ai suoi agganci in Atlus che Kamitani e i suoi ricevettero i fondi e un publisher per terminare lo sviluppo del gioco, superando l’iniziale avversità della software house, probabilmente ancora scottata dal fallimento di Princess Crown (di cui, tra l’altro, in questo periodo stava producendo il remake per PSP). Ma Odin Sphere non era destinato a fare la stessa fine di quest’ultimo, ma ad un futuro decisamente più roseo.

Per quanto dal punto di vista del gameplay il gioco rappresenti più una riproposizione che un’evoluzione del primo gioco di Kamitani, trattandosi sempre di un misto tra action 2D e JRPG ambientato in un mondo fantasy ispirato alla mitologia Norenna, dove i punti esperienza però non vengono guadagnati uccidendo le orde di nemici che il gioco ci pone contro, bensì mangiando cibo o raccogliendo i fozoni droppati dai nemici, potenziando così la Psilite (l’arma dei nostri protagonisti, ndr). Il combat system del gioco è legato sia agli attacchi base, che alle spell; la barra della stamina risulta però essere un peso per i personaggi, interrompendo combo a causa della “stanchezza” e dovendo fermarsi prima di poter riprendere ad attaccare.

Questi elementi sono state le principali criticità del gioco, ma del resto lo stesso Kamitani ha ammesso che il focus dello sviluppo di Odin Sphere non fu il gameplay, ma la trama; una trama che, insieme alla narrazione e al riuscitissimo setting (senza dimenticare la colonna sonora, composta da Hitoshi Sakamoto, uno dei più proficui compositori videoludici giapponesi), riescono a coinvolgere il giocatore e ad appassionarlo alle vicende dei cinque protagonisti e dei numerosi – e carismatici – personaggi secondari e alla storia di quel mondo martoriato da conflitti, con un triste destino già scritto e in attesa di compiersi.

Lo sviluppo di Odin Sphere terminò nel 2006, ma Atlus decise di rinviarne l’uscita più volte, per evitare la sovrapposizione con i suoi altri titoli in uscita quell’anno (e in particolare Persona 3), rimandando l’uscita del gioco al 2007. Nel frattempo Vanillaware, che non poteva proporre altri titoli ad Atlus, in quanto quest’ultima si era riservata il diritto di scegliere se continuare la collaborazione dopo essersi accertata delle vendite del gioco, fu contatta da Nippon Ichi Software. Kamitani si incontrò con l’allora presidente Sohei Shinkawa, il quale, folgorato dal genio di Kamitani, gli propose di lavorare a un progetto insieme, garantendo piena libertà creativa alla software house.

Fu così che iniziarono gli sforzi congiunti di Vanillaware e Nippon Ichi sul nuovo titolo. Un gioco che rappresenta un vero unicum, non solo tra le produzioni Vanillaware, ma anche tra i videogiochi in generale. Basti pensare che, pur essendo de facto il secondo titolo ad essere sviluppato da Vanillaware, è stato il primo ad essere rilasciato sul mercato, proprio a causa dei continui rimandi di Odin Sphere. Anche il genere di appartenenza è abbastanza curioso. Il titolo in questione, che risponde al nome di GrimGrimoire, è l’unico (o meglio, lo era fino all’anno scorso) gioco Vanillaware a non presentare una forte componente RPG, trattandosi di un RTS (Real Time Strategy, o strategico in tempo reale per i non anglofoni, ndr) in 2D su PlayStation 2. Una scelta a dir poco peculiare, in quanto gli RTS non sono un genere di giochi che si presta particolarmente bene alle console e sono in genere relegati al PC.

Per ovviare ai problemi dovuti alla difficile gestione delle armate con un controller, il gioco presenta un tasto di pausa, così da spostare e riorganizzare le armate più semplicemente e non perdere di vista l’andamento della battaglia. Del resto, nonostante la principale fonte di ispirazione di Kamitani fosse Starcraft (gioco molto popolare nello staff di Vanillaware all’epoca), il gioco non presenta una modalità multigiocatore, che sarebbe risultata ingiocabile su console, ma solamente una campagna singleplayer.

Per quanto riguarda il setting del gioco si tratta, ancora una volta, di un mondo fantasy, stavolta ispirato non alla mitologia nordeuropea, ma a due opere molto popolari in Giappone negli anni 2000. Da un lato abbiamo Harry Potter, che non credo abbia bisogno di presentazioni, dall’altro abbiamo un gioco del 1997 mai uscito in occidente, Atelier Marie: The Alchemist of Salburg; da entrambi Kamitani ha preso ispirazione sia per la protagonista, un’apprendista strega che all’inizio del gioco è appena arrivata alla scuola di magia, che per alcune nozioni alchemiche.

Il gioco, ultimato tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, uscì il 12 aprile in Giappone e, nonostante un discreto responso da parte della critica, si rivelò un insuccesso commerciale. Ancora una volta, Kamitani e i suoi hanno fallito. Kamitani, sull’orlo della bancarotta nonostante l’appoggio economico di Nippon Ichi, fu costretto a chiedere un prestito di 20 milioni di yen (all’incirca 170 mila euro) per salvare la compagnia.

Ma non tutto era perduto. Atlus si era finalmente decisa a rilasciare Odin Sphere, con data fissata al 17 maggio 2007. Il gioco fu, per le aspettative, un clamoroso successo, vendendo più del triplo di quanto fatto da GrimGrimoire nella sua prima settimana, e, per la fine dell’anno aveva venduto poco meno di 100 mila copie nel solo Giappone (NB: all’epoca i giochi vendevano molto meno e Odin Sphere era considerato un progetto “minore”). Il successo del gioco però non si fermò in Giappone: rilasciato in America solamente 5 giorni dopo che in Giappone (un evento molto raro per l’epoca), il gioco arrivò al top delle classifiche di vendita nelle sue prime due settimane dall’uscita, e fu lodato dalla critica per la trama e la localizzazione particolarmente curata.

L’incredibile successo del gioco spinse Square Enix a prendersi carico della versione Europea (la quale presenta una traduzione italiana di buona fattura). Ma la storia dello studio, tra successo e fallimento, era appena iniziata.

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Tra oriente e occidente

Ce l’avevano fatta. Kamitani e i suoi, con Odin Sphere, avevano finalmente creato un gioco di successo internazionale. Grazie a questo risvolto inatteso, lo sviluppatore riuscì non solo a ripagare il debito, ma anche a concedere dei bonus al team per il lavoro svolto, a programmare l’espansione dello studio, e a iniziare i lavori sul nuovo titolo dello studio, Muramasa: The Demon Blade per Wii. Un gioco che Kamitani aveva iniziato a progettare già durante lo sviluppo di Odin Sphere, e per il quale dovette richiedere l’appoggio del terzo publisher diverso su tre giochi (l’idea fu proposta alle software house sul finire del 2006, impedendo quindi a Kamitani di tornare da Atlus). Dopo un rifiuto da parte di Capcom, il progetto fu approvato da Marvelous Entertainment, che, a detta di Kamitani “salvò Vanillaware dal fallimento” a causa della mancanza di fondi dovuta ai continui rimandi di Odin Sphere.

Ritornando sul percorso tracciato da Princess Crown e Odin Sphere, Muramasa si poneva l’obiettivo di essere il passo successivo nell’evoluzione del gameplay degli action 2D Vanillaware, andando a riprendere lo stile di combattimento di Princess Crown e Odin Sphere, ma con numerosi miglioramenti e accorgimenti per rendere l’esperienza di gioco ancor più ricca e variegata. E quale miglior modo di farlo se non con un cambiamento di setting, ambientando il gioco in un mondo con cui gli sviluppatori erano più familiari? Via l’ispirazione nord europea, benvenuto folklore giapponese. Fate, gnomi, elfi, Odino lasciano spazio a ninja, demoni, kitsune e samurai.

Come lascia intendere il titolo del gioco, uno degli elementi principali di esso sono proprio le blade, le spade del leggendario Sengo Muramasa, un fabbro giapponese realmente vissuto tra il XIV e il XVI secolo, che si narra fossero maledette e intrise di poteri demoniaci. Al di là della veridicità delle storie che circondano questo enigmatico personaggio, è innegabile che siano state proprio esse a ispirare Kamitani e il suo team. Le spade, che si dividono in due tipologie, le veloci blade, ottime per combo estese, e le long blade, potenti ma lente, rappresentano l’unica arma presente nel gioco, sacrificando quindi la diversità fornita dai 5 personaggi con caratteristiche uniche di Odin Sphere.

Ma le spade non sono due, cinque e nemmeno dieci: sono 108, ognuna con un diverso set di abilità e una special, rendendo il gameplay estremamente vario, e fornendo alternative in base al playstyle del giocatore dall’altra parte dello schermo. Il giocatore può infatti portare tre spade contemporaneamente, cambiando tra l’una e l’altra a piacimento durante la battaglia, così da evitare di rimanere sprovvisto di arma nel caso una delle lame venga rese temporaneamente inutilizzabile dagli attacchi e dalle parate nemiche.

Rispetto a Odin Sphere però non cambiano solo i combattimenti: vengono aggiunte sezioni platform e aree sviluppate in verticale che fungono da tramite tra i combattimenti, così da garantire al giocatore un ritmo più rilassato. Per quanto riguarda la trama invece, sono presenti due protagonisti, ognuno con la propria storia. In questo caso le campagne, pur avendo i loro punti di contatto e essendo tra di loro complementari, godono di maggiore autonomia l’una dall’altra e, prese singolarmente, sono assolutamente comprensibili nella loro interezza.

Il gioco, che passò fasi molto complicate durante il suo sviluppo, uscì in Giappone il 9 aprile 2009, ricevendo, come già successo con Odin Sphere, un buon responso dalla critica e dal pubblico, e molti negozi si trovarono sold out durante le prime due settimane dall’uscita, superando le aspettative di sviluppatore e publisher. Alla release americana, l’8 settembre, il gioco riscontrò altrettanto successo da critica e pubblico, e Ignition Entertainment, che si occupò della pubblicazione del titolo, affermò che il gioco aveva raggiunto le loro aspettative di vendita durante il primo mese di commercializzazione. La versione europea, pubblicata da Rising Star Games, fu rilasciata il 6 novembre, comprendente anche in questo caso una discreta traduzione italiana, ma il gioco nel vecchio continente passò estremamente in sordina, ricevendo pochissima attenzione, nonostante le lodi della stampa specializzata.

La collaborazione tra Vanillaware e Marvelous continuò tuttavia anche per il prossimo gioco della software house, Grand Knights History per PSP, il primo titolo della compagnia in cui Kamitani non assunse il ruolo di director, che fu assegnato a Tomohiko Deguchi. Rilasciato nel 2011 esclusivamente in Giappone (versioni occidentali, inizialmente programmate, furono cancellate quando i lavori per il gioco successivo della compagnia si intensificarono, fino ad assorbire tutti i fondi disponibili), il gioco si presentava come un misto tra un RPG e uno strategico, con una griglia di combattimento visualizzata dal lato dello schermo. Il setting del titolo ritornava al fantasy, stavolta ispirato all’Europa medievale, ponendo il giocatore al comando di un gruppo di 4 soldati (customizzabili con 3 classi diverse) di uno dei 3 regni in guerra per la supremazia nell’immaginario continente di Rystia.

Il gioco disponeva di un’enorme varietà di skill ed equipaggiamenti con cui personalizzare i propri personaggi, oltre a una modalità online per sfidare i team dei giocatori delle altre fazioni; le peculiari caratteristiche del titolo lo resero molto apprezzato dai giocatori e dalla critica giapponese, tanto da venir considerato ancora oggi una vera e propria gemma nascosta della PSP. L’apprezzamento per il titolo spingeranno Deguchi, distaccatosi da Vanillaware per unirsi a Monochrome Corporation, a crearne nel 2015 un seguito spirituale, Grand Kingdom, arrivato anche in Europa per PlayStation 4 e PS Vita.

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Resurrezione

Prima di andare avanti bisogna chiarire che, nonostante dal punto di vista commerciale Muramasa non fosse stato un successo, Vanillaware non si trovava in uno stato di crisi, anzi; una volta completato lo sviluppo del titolo per Wii, furono avviati contemporaneamente due nuovi progetti: mentre un team più piccolo lavorava su Grand Knights History, il grosso del team di sviluppo si preparava al grande salto in alta definizione, con quello che sarebbe diventato il titolo più famoso della compagnia: Dragon’s Crown.

Riutilizzando il concept (modificato) del primissimo sequel pensato per Princess Crown, Kamitani propose il progetto di un beat’em up RPG a più publishers; per prima ci fu Capcom, per la quale lo stesso director aveva lavorato, quindici anni prima, al titolo che più fortemente aveva influenzato il gameplay del concept di Dragon’s Crown: Dungeons & Dragons: Tower of Doom. Nonostante una buona reazione da parte dei piani alti della compagnia di Osaka, il concept fu successivamente respinto in quanto Capcom non pensava “potesse vendere bene quanto Monster Hunter”.

Il publisher successivo contattato da Kamitani fu UTV Ignition Entertainment, con il quale Vanillaware aveva già collaborato per la versione americana di Muramasa. Kamitani riuscì a convincere Ignition della bontà del progetto, garantendogli i fondi necessari per iniziare lo sviluppo del nuovo titolo; dal canto suo, il publisher richiese che il progetto presentasse una forte componente multiplayer cooperativa, portando allo spostamento del titolo su PlayStation 3 e PS Vita, così da poter sfruttare le migliori infrastrutture online delle console Sony, e la possibilità di giocare in crossplatform tra le due console.

Il progetto inizio così il suo sviluppo, sotto l’attento occhio di Kamitani, con la piena collaborazione di Ignition anche sul piano della creazione del gioco, non limitandosi quindi al ruolo di mero publisher, ma divenendo effettivamente co-sviluppatore del titolo. La situazione però degenerò rapidamente, e nel 2011 Ignition fu costretta ad abbandonare il progetto a causa di una situazione finanziaria critica, costringendo Vanillaware e Kamitani a rifugiarsi da una vecchia: fu infatti Atlus a salvare il titolo, che in quel momento era in una fase dello sviluppo già avanzata, fornendo i fondi necessari e il supporto di una parte del team Persona (che in quel periodo stava ultimando i lavori su Catherine). Lo sviluppo del gioco, minacciato sul finire del suo ciclo dalla bancarotta di Index Corporation, proprietaria di Atlus prima di Sega, terminò nel 2013.

Fissata l’uscita al 25 luglio, nella sede di Vanillaware si attendeva solo di sapere se il risultato di tanti sforzi fosse stato ripagato. Del resto Dragon’s Crown era non solo il loro nuovo titolo, ma anche quello che aveva richiesto più sforzi economici, con un budget pari a un milione di dollari (inferiore ad alcuni crowdfunding dei giorni nostri, ndr), per non parlare del ciclo di sviluppo durato ben quattro anni. Quattro lunghissimi, interminabili anni di fatiche, che hanno portato Kamitani e i suoi allo stremo.

Fortunatamente, almeno questa volta, la storia ha un lieto fine. Dragon’s Crown infatti riuscì a vendere più di 300 mila copie nella prima settimana di vendita, affermandosi come successo clamoroso, grazie anche alle lodi della stampa specializzata, che ne apprezzò il gameplay, il quale, facendo leva sul fattore nostalgia e amalgamando elementi presi da titoli quali  Golden Axe e Diablo (oltre il già citato Tower of Doom), dava linfa vitale a un genere che nel XXI secolo era a tutti gli effetti morto.

Non mancarono le critiche, rivolte in questo caso sia al design dei personaggi femminili, ritenuto inadeguato dalla stampa occidentale, ma anche ad aspetti quali la ripetitività e la trama del titolo, probabilmente la più debole tra tutti i titoli della compagnia. Il gioco si confermò un successo anche in occidente, arrivando a vendere, per la fine dell’anno, 800 mila copie in tutto il mondo (e sforando un milione nel 2017).

Prima di passare allo sviluppo del titolo successivo, gli sviluppatori decisero di continuare ad espandere il mondo di Dragon’s Crown attraverso contenuti aggiuntivi; inizialmente programmati come vere e proprie espansioni DLC, queste furono in seguito scartate e ridotte a dei più contenuti aggiornamenti gratuiti, tra cui il tanto cercato crossplatform, oltre che aggiunte come nuove e quest e alcuni elementi di gameplay lasciati fuori dalla release originale. Finito a tutti gli effetti il ciclo di sviluppo alla fine dell’anno, era arrivato il momento per Kamitani e soci di prendersi una pausa… o forse no?

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Remasterstation

Beh, come avrete ormai capito, Kamitani non è proprio il tipo di persona che tra un lavoro e l’altro si prende una pausa, e anzi di solito tende a iniziare i lavori sul suo progetto successivo ancor prima di finire quello precedente. È questo il caso anche per il successivo titolo Vanillaware, di cui però non è ancora il momento di parlare. Prima infatti di investigare le meraviglie di ciò che ci attenderà più in là nel corso di quest’anno, dobbiamo ripercorrere i passi della software house nel periodo che va dalla fine dello sviluppo di Dragon’s Crown e i giorni nostri, quasi 6 anni tra il gennaio del 2014 e il novembre 2019 durante i quale non è stato rilasciato nessun titolo nuovo, ma ben 3 rifacimenti di giochi precedenti, uno dei quali probabilmente il punto più alto di Vanillaware nella sua, ormai quasi ventennale, storia. Andiamo, come sempre, con ordine.

Nello stesso periodo in cui veniva ultimato Dragon’s Crown (tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013), un team secondario si occupava della conversione di Muramasa per PS Vita. Pongo la vostra attenzione sul termine conversione: il titolo risulta essere, dal punto di vista contenutistico, un mero porting dell’originale, con zero novità in termini di gameplay e di storia. Questo ha portato a non poche critiche dalla parte della stampa specializzata, che, pur apprezzando la cura impiegata nel comparto grafico, ha generalmente consigliato a chi aveva già giocato l’originale di saltare il titolo.

In realtà di contenuti aggiuntivi per Muramasa Rebirth (questo il titolo ufficiale del gioco) ne avremo visti, nella forma di quattro DLC contenenti le Genroku Legends ambientate nello stesso universo di gioco; esse presentano minimi punti di contatto con la trama principale, ma la novità viene apportata nel gameplay: le spade vengono seppellite per lasciare spazio ad artigli, kunai, zappe, bamboo usati come lance, e altre trovate decisamente assurde. I quattro protagonisti possiedono ognuno 3 tipologie di armi diverse, per un totale di 12 (wow 3×4), introducendo nuovi approcci di combattimento non presenti nel gioco base.

Dopo Muramasa, fu il turno del primo gioco di Vanillaware ad essere rimasterizzato sulle console in HD, più precisamente PlayStation 4, PS Vita e PlayStation 3. Anche se rimasterizzazione è un termine che a Odin Sphere Leifthrasir non rende onore, perché, seppur dal punto di vista della trama non ci siano sostanziali aggiunte rispetto alla versione del 2006, dal punto di vista del combat system è stato fatto un lavoro enorme, rendendo gli scontri più fluidi grazie alle modifiche apportate alla barra della stamina, non più impiegata per gli attacchi standard (eccezion fatta per un personaggio), ma per utilizzare nuovi e devastanti attacchi speciali, che si affiancano alle spell, per rendere le combo possibili ancora più lunghe e spettacolari. Sono stati inoltre aggiunti la parata e la possibilità di schivare gli attacchi dei nemici, aumentando così le opzioni difensive del giocatore.

I miglioramenti apportati non si fermano però al combat system: un’altra importante modifica viene attuata infatti alle caratteristiche RPG e al leveling. Sono state infatti eliminate le due barre dell’esperienza presenti nell’originale, sostituendole con un un’unica barra che, al passaggio di livello, determina l’aumento di tutte le statistiche dei personaggi; in questa nuova versione, essa viene avanzata esclusivamente mangiando oppure sconfiggendo i nemici, come da tradizione del genere RPG. Da Muramasa tornano invece le sezioni platform, che conferiscono al gioco un tocco esplorativo che non guasta mai; oltre a queste, l’aggiunta di nuove aree, nemici e miniboss, il rifacimento dell’inventario e del sistema della Psilite, e nuovi testi volti ad approfondire l’universo del gioco sono la ciliegina sulla torta di uno dei migliori Remake dell’attuale generazione.

Il team, guidato da Ohnishi alla prima esperienza da director, cercò di svecchiare il titolo rendendolo più simile a Muramasa e Dragon’s Crown, centrando pienamente l’obiettivo e ottenendo le lodi della stampa e dei giocatori di tutto il mondo. Il titolo, rilasciato il 7 gennaio 2016 in Giappone dopo circa due anni di sviluppo, fu accolto al lancio da un successo moderato, non incredibile come le 300 mila copie di Dragon’s Crown, raggiungendo la cifra di 95 mila copie distribuite tra tutte le versioni (circa il doppio di quanto fece la versione originale).

Ultima vi fu la remastered di Dragon’s Crown, al secolo Dragon’s Crown Pro. Uscito in esclusiva su PlayStation 4 l’8 febbraio 2018 in Giappone e il 25 maggio dello stesso anno in Europa e Nord America, le modifiche di questa versione sono quasi tutte di stampo tecnico, tra le quali spicca il supporto al 4K (oltre all’aggiunta della localizzazione italiana). Ulteriori aggiunte sono state soundtrack inedite e la possibilità di selezionare sia il doppiaggio giapponese che quello inglese. Archiviati i lavori su Dragon’s Crown Pro, la software house si preparò ad entrare nell’ultima fase dello sviluppo del loro nuovo gioco, ormai in lavorazione per ben 5 anni, e che avrebbe richiesto un altro anno e mezzo prima di poter vedere la luce in formato giocabile.Vanillaware, creatori di capolavori sconosciuti 6

Ambizione e futuro

Mi permetto una doverosa premessa: in quanto l’ultimo titolo Vanillaware ancora manca di un’uscita occidentale, tenderò ad essere ancor più vago ed evitare qualsiasi dettaglio che potrebbe essere considerato spoiler.

È il 2013, i lavori su Dragon’s Crown sono appena finiti e Kamitani sta cercando ispirazioni per il nuovo titolo. Ha già deciso di accantonare, finalmente, il setting fantasy per lavorare su una science fiction ambientata negli anni ’80. Originariamente il gioco avrebbe dovuto essere un progetto di caratura minore, così da permettere a Vanillaware di staccare dopo gli sforzi fatti nello sviluppo di Dragon’s Crown, per poi progressivamente diventare il gioco con il ciclo di sviluppo più lungo di quelli creati dalla software house fin’ora.

La prima idea per il progetto fu quella di creare un setting e dei personaggi ispirati ai manga shojo, ma ponendoli in un contesto futuristico, nel quale i protagonisti si sarebbero ritrovati al comando di mecha. Il titolo, che risponde al nome di 13 Sentinels: Aegis Rim, approvato da Atlus, fu inizialmente proposto a un’altra compagnia, con il rilascio programmato nel solo Giappone, un budget ridotto e una linea di giocattoli ispirati alla serie; fu proprio quando il progetto venne presentato ad Atlus che, mantenendo intatta l’idea di Kamitani e abbandonando i piani per la linea di giocattoli, il progetto assunse una caratura più importante.

Il gioco mirava adesso ad essere un titolo di più ampio respiro, volendo incontrare i favori di una più grande fetta di pubblico. La trama fu scritta per la prima volta interamente da Kamitani, che la rimaneggiò più volte nel corso dello sviluppo, aggiungendo per esempio più personaggi (i protagonisti, tredici nella versione finale, erano solamente sette nella prima fase di sviluppo) e modificando alcuni elementi della trama così da toccare più periodi storici.

Per quanto riguarda il gameplay, l’intenzione di Kamitani era di creare una sorta di seguito spirituale per GrimGrimoire, al quale quindi si ispirò per le fasi strategiche, questa volta visualizzate dall’alto, a cui aggiunse elementi da tower defense e delle fasi adventure (che ricordano molta da vicino le  visual novel) per venire incontro ai gusti dei giocatori giapponesi.

Lo sviluppo del gioco fu sensibilmente più lungo di quanto atteso dalle software house, portando a numerosi ritardi nella pubblicazione: inizialmente annunciato al Tokyo Game Show 2015 con release ufficiale nel 2018, il gioco fu rimandato più volte fino a giungere alla data ufficiale del 30 ottobre. All’uscita, il titolo fu accolto, da un’approvazione unanime della stampa specializzata, ottenendo i premi per la miglior storia e per il miglior adventure ai Famitsu Dengeki Awards, venendo nominato anche nelle categorie Game of the Year, miglior grafica e miglior nuova ip, mentre Kamitani ha ricevuto la nomination come most valuable creator. Fu proprio questo successo di critica a spingere le vendite del gioco, inizialmente non brillanti, che hanno di recente sorpassato le 130 mila unità. Nonostante una release occidentale sia programmata per l’anno corrente, nessuna novità è stata annunciata da Atlus a riguardo, probabilmente frenata anche a causa della pandemia.

Siamo ormai giunti ai giorni nostri, e non ci resta molto di cui parlare. Chi di voi ha letto attentamente fin’ora, probabilmente si aspetterà che Vanillaware stia già lavorando a un nuovo titolo. Ed effettivamente è proprio così, un nuovo titolo, di cui per il momento esiste solo un teaser di 20 secondi (manca persino di nome) rilasciato insieme alla demo di 13 Sentinels il 14 marzo 2019. Il video mostra un probabile ritorno al fantasy di ispirazione europea, con un’armata di cavalieri in un bosco e un castello su una collina nello sfondo (potrebbe essere la versione Vanillaware di un successore di Grand Knights History?). Comunque vada, la certezza è una sola: Vanillaware e Kamitani non deluderanno, ancora una volta, i fan in attesa in tutto il mondo.

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Conclusioni

Voglio ringraziare tutti i lettori che sono giunti fin qui leggendo tutto l’articolo, di certo non un’impresa facile, me ne rendo conto io stesso. Nonostante ciò, devo dire che purtroppo sono stato costretto a non soffermarmi su alcune caratteristiche dei giochi trattati, come ad esempio l’alchimia in GrimGrimoire ed Odin Sphere, le ispirazioni teatrali ritrovabili in quest’ultimo e in Muramasa, oltre alla simbologia e al folklore giapponese, come i titoli del passato hanno influenzato Dragon’s Crown e molto di quello che riguarda 13 Sentinels.

Questi contenuti vanno oltre lo scopo dell’articolo in questione, che cerca di fornire un’infarinatura generale sui giochi di Vanillaware e su Kamitani, e potrebbero probabilmente essere tematiche di articoli incentrati unicamente su di essi. Sono infatti sicuro che molte delle persone che si troveranno a leggere questo articolo avranno raramente sentito parlare della software house, rendendolo quindi un buon punto di partenza per un primo approccio ai giochi della software house con mano propria.

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Vanillaware, creatori di capolavori sconosciuti 7

Nato praticamente con il pad in mano, ho iniziato a giocare sin dalla primissima età. Crescendo però è stata la Nintendo a dettare legge nella mia vita videoludica, per poi riavvicinarmi al multipiattaforma solamente con la PS4. Nonostante la propensione per il mondo del gaming, non disdegno altre forme di intrattenimento quali fumetti, cinema o serie TV.

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