Crisi economica, crisi sociale, crisi dei manga (1990 – 2011) La bolla economica degli anni ’80 che portò il Giappone a imporsi come potenza economica e mediatica scoppiò definitivamente nel 1990, epoca in cui il paese entrò in una profonda crisi nella quale versa ancora oggi. La borsa crollò, i disoccupati aumentarono drasticamente, i primi ministri si alternarono come come i turni di una partita di Uno. Ciliegina sulla torna, l’indice di natalità calò inesorabilmente, rendendo il Giappone un paese sempre più vecchio e il pubblico di lettori di manga sempre più risicato. Ciò portò a un affossamento delle vendite che privò di un terzo la cifra record di oltre un miliardo di tankobon venduti nel 1994, grazie soprattutto al successo di Dragon Ball Z e Slam Dunk , entrambi manga di punta di Shonen Jump . Tuttavia, la crisi contribuì ad allontanare i giapponesi dall’illusione che il modello capitalista degli anni ’80 fosse perfetto. La società non era più vista come un sistema ottimale in cui i cittadini dovevano inserirsi perfettamente come ingranaggi. I suoi obblighi e costrizioni, inclusa la pressante divisione gerarchica, cominciarono a essere viste in malo modo. I salaryman , ossia gli impiegati d’azienda, prima eletti a simbolo dell’uomo giapponese di successo, persero molto del loro prestigio in favore della persecuzione di obiettivi assai più individualisti. Dopotutto, se lo sgobbare 12 ore al giorno sotto il regime dittatoriale di un capoufficio ottantenne aveva portato ugualmente alla crisi economica, forse non ne valeva così tanto la pena. Dato che gli impieghi standard vennero classificati come fallimentari, la società decise di investire sull’emergente industria dell’intrattenimento , considerata l’ideale per incanalare la disillusione e la voglia di distinguersi dei nuovi lavoratori giapponesi. A beneficiarne fu ovviamente il mercato dei manga, ormai affermati capisaldi dell’intrattenimento nipponico, ma questo portò anche a una crescente attenzione della censura nei loro confronti .
Per godere di tanta attenzione da parte della popolazione e del governo, i manga dovevano essere rispettabili , anche e soprattutto per non macchiare la legittimità di chi ci lavorava. Gli editori, per tutelarsi, decisero quindi di uniformare la produzione e i contenuti dei fumetti , in modo tale che non risultassero problematici e venissero contrassegnati come nocivi. Ne conseguì un ribaltamento totale delle dinamiche produttive dei manga: gli autori divennero a tutti gli effetti il tramite con cui gli editori poterono riproporre forme di narrazione sicure , e non più dei creativi capaci di esprimersi attraverso un media. Il nazionalismo conservatore si insidiò prepotentemente nei manga attraverso l’elogio di elementi culturali accuratamente selezionati: le forze armate, il cui potenziamento fu fortemente voluto dalla destra del periodo (e anche attuale); la vita campestre, considerata l’anima del vero Giappone; e l’odio nei confronti del partito liberal-democratico, considerato il responsabile dello scoppio della bolla economica. Manga simbolo di questo odio fu Sanctuary (1990), scritto da Shō Fumimura (nome d’arte di Yoshiyuki Okamura , noto anche come Buronson ), già co-creatore di Hokuto no Ken , e disegnato da Ryōichi Ikegami . Il fumetto narra l’ascesa di un giovane homo novus della politica conservatrice giapponese che arriva a scalarne i ranghi contro gli avversari del partito liberale, descritti come vecchi machiavellici e colpevoli di aver portato alla deriva dei valori tradizionali. Shō Fumimura era però un autore di vecchio stampo e le sue convinzioni conservatrici erano ravvisabili già in Hokuto no Ken . I temi di Sanctuary erano quindi tutta farina del suo sacco, e non frutto di imposizioni degli editor (i quali, sia chiaro, non ebbero nulla da ridire).
La situazione era ben diversa per i mangaka che avevano esordito negli stessi anni ’90. La mancanza di temi forti di cui parlare, la disillusione dovuta alla crisi e il paragone con i capisaldi che li avevano preceduti diedero vita alla corrente di autori nota come Generazione Otaku . A differenza dei loro predecessori, che traevano spunto dall’attualità o dalle mode del momento, i membri della Generazione Otaku attingevano ai manga letti durante l’infanzia , dando vita a opere composte in tutto e per tutto di frammenti della cultura pop che li aveva cresciuti. Questi autori, noti anche come “generazione dei copioni”, avrebbero contato tra le loro fila Yoshihiro Togashi (Yu degli spettri , Hunter X Hunter ), Masashi Kishimoto (Naruto ), Nobuhiro Watsuki (Kenshin – Samurai vagabondo ) e Eiichirō Oda (One Piece ), i quali non fecero altro che migliorare la già rodata formula del Dragon Ball di Akira Toriyama. Ci fu però un’altra corrente di mangaka che si rivelò assai più capace di raccontare il Giappone della crisi economica, narrando storie di disadattati alla perenne ricerca di un posto nel mondo. Leader indiscussi di questa corrente furono Tōru Fujisawa (Shonan junai gumi , GTO ) e Takehiko Inoue , autore del già citato Slam Dunk .
Eikichi Onizuka , protagonista di SJG e GTO (ex-mototeppista che inizia una carriera da insegnante per conquistare giovani studentesse, salvo poi innamorarsi del mestiere), e Hanamichi Sakuragi , protagonista di Slam Dunk (ex-teppista che inizia a giocare a basket per conquistare una ragazza, salvo poi innamorarsi dello sport) rappresentano perfettamente l’archetipo del giovane senza prospettive che trova la felicità attraverso il conformismo . A differenza dei battle shōnen , in cui i lettori si identificavano nei grandi sogni dei protagonisti, nei manga della corrente disillusoria si immedesimano nella loro mancanza . Né Hanamichi né Onizuka vogliono inizialmente giocare a basket o insegnare e percorrono quelle strade per motivi futili (guarda caso, entrambi per conquistare una/le ragazza/e). Esse però finiscono inevitabilmente per ricondurli sulla retta via, in quanto latrici dei valori tradizionali di cui sopra, ovviamente sotto l’attenta supervisione di anziani saggi (il coach Anzai per Hanamichi, la preside Sakurai per Onizuka). Per loro la felicità è riuscire a sopravvivere all’interno di un sistema che li ha rigettati in quanto inadeguati, ma non perché il sistema fosse ingiusto, come nei manga degli anni ’70. La colpa è al 100% dei giovani insofferenti, rendendo evidente un messaggio paternalistico e geriatrico nascosto dietro personaggi carismatici e sopra le righe . Lo stesso Onizuka non cambia mai lo status quo, sono i suoi studenti a cambiare , interrompendo attività peccaminose come avere rapporti sessuali prematrimoniali o smettere di fumare. Lui altro non è che un Dodò dell’albero azzurro che ti avverte di non mangiare schifezze, ma imbellettato secondo i gusti dei giovani anni ’90 affinché non risulti troppo palese. In pratica, è un Pucci dei Simpson che ce l’ha fatta . Gli anni ’90 segnarono l’ascesa di un’altra branca del fumetto giapponese, le autoproduzioni o dōjinshi , che divennero una realtà parallela assai affermata – grazie soprattutto alle parodie pornografiche e non di manga mainstream di grande successo – e resero il Comiket la più grande fiera di fumetti autoprodotti del mondo con ben 510.000 visitatori nel 2008 . Inoltre, queste ebbero un impatto importante sulla diffusione dei manga online , segnando insieme ai tankōbon il declino delle riviste a fumetti dopo il picco raggiunto nel 1995, in cui la tiratura di Shōnen Jump arrivò a 6,53 milioni di copie . Inizialmente guardato con sospetto e osteggiato dagli editor conservatori, il fenomeno delle scanlation (scansioni di interi capitoli di manga tradotti e diffusi online illegalmente) contribuì enormemente alla diffusione dei fumetti nipponici oltre i confini nazionali, formando tra il 2006 e il 2010 un’intera generazione di lettori esteri ignota in patria . Ignari dell’interesse oltreoceano per i loro prodotti, gli editori di manga si arrabattarono per contenere la flessione di vendite, cercando ossessivamente nuove formule che potessero attirare il pubblico al di fuori dei battle shōnen , ma senza rinunciare al bieco politically correct (quello vero) imposto dalle autorità conservatrici, il quale avrebbe necessitato di almeno altri 10 anni per essere quantomeno incrinato. Serie come Death Note (2003) di Tsugumi Ōba e Takeshi Obata , che pure si discostavano dalla formula classica di Shōnen Jump , soffrirono enormemente questo dissidio editoriale. Il protagonista, Light Yagami , è un sociopatico che si fa beffe delle autorità, e il suo destino non poteva che culminare con la sua disfatta, in quanto contrario al buon costume giapponese. Anche per questo gli ultimi quattro volumi appaiono decisamente forzati rispetto all’andamento della serie fino a quel momento , rendendo evidente la mano degli editor desiderosi di massimizzarne il successo.
Quella del prolungamento eccessivo delle pubblicazioni è un’altra tendenza del fumetto giapponese che denota una forte fragilità di un mercato immenso e stratificato. Essa è figlia della paura di perdere un introito sicuro, a sua volta frutto dell’incapacità di dare voce a idee convincenti che però non destino troppo scalpore . Ad oggi, è evidente come questa paura caratterizzi gran parte della attuale produzione mainstream, basti pensare all’incessante prosecuzione di One Piece di Eiichirō Oda, divenuto il fumetto più venduto di tutti i tempi, o Detective Conan di Gōshō Aoyama, considerato dai suoi lettori alla stregua della nostrana Settimana Enigmistica . Senza contare i sequel e spin-off di opere già ampiamente concluse, come Boruto e Dragon Ball Super . Se ancora pensiamo ai fumetti giapponesi come inarrivabili dal punto di vista dell’influenza e delle vendite, è solo perché non ci accorgiamo della crescita esponenziale di altri mercati , come quello dei webtoon coreani , i quali da anni si impegnano a rimpiazzarli nella cultura popolare alla stregua di come loro hanno fatto con i fumetti europei e statunitensi. E con una tale staticità di pensiero, è probabile che, in un futuro troppo remoto, ci riescano ampiamente.
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