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La monografia di M. Night Shyamalan – Parte 1: Il periodo d’oro

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La monografia di M. Night Shyamalan - Parte 1: Il periodo d'oro 1

M. Night Shyamalan. Un nome di un regista che ormai tutti conoscono senza essere dei grandi cinefili, famoso per il suggestivo stile narrativo dove niente è mai quello che sembra e in cui fino alla fine può esserci un’ultima sorpresa capace di creare finali a effetto in grado di ribaltare completamente l’intera lettura del film. Allo stesso tempo un uomo spesso vituperato per una capacità di sceneggiatura non sempre ritenuta all’altezza delle aspettative.

Un regista che ha affrontato molti alti e bassi, ma che ancora oggi suscita un discreto fascino, complice il fatto di aver regalato, soprattutto a inizio carriera, piccoli capolavori che in poco tempo sono diventati dei cult moderni del mondo della settima arte, non tanto per i famosi “twist ending”, diventati quasi un marchio di fabbrica nella filmografia di Shyamalan (ma anche un’arma a doppio taglio, come vedremo in seguito), quanto per la capacità di trattare temi misteriosi e suggestivi come la spiritualità, la religione o la fede, nel senso più astratto del termine, muovendosi sempre sul sottile confine tra reale e soprannaturale.

Con l’imminente uscita del suo nuovo film, Remain, prevista per il 2026, la redazione di SpaceNerd ci tiene a riscoprire insieme a voi l’intera filmografia di questo regista amato ma controverso, analizzando i film che lo hanno portato nell’Olimpo di Hollywood e quelli che, invece, lo hanno affossato, fino ad arrivare alle uscite più recenti.

Mettetevi comodi e rilassatevi: il nostro viaggio sta per cominciare.

I primi passi di Shyamalan: Praying with Anger e Ad occhi aperti

Pur essendo, all’apparenza, due film molto diversi tra loro, le prime due pellicole della carriera di Shyamalan presentano numerose caratteristiche in comune. Se il suo esordio cinematografico, Praying with Anger, racconta la storia di un giovane indiano che, dopo aver trascorso gran parte della sua vita negli Stati Uniti, fa ritorno in India, Ad occhi aperti è un racconto di formazione che narra l’esperienza di un bambino il quale, dopo la perdita del nonno a cui era profondamente legato, cerca di comprenderne la scomparsa attraverso la religione.

Sulla carta sembrerebbero due storie agli antipodi, ma il messaggio di fondo resta il medesimo: un tentativo di comprendere meglio sé stessi e il mondo circostante attraverso la spiritualità, indiana nel primo caso, cristiana nel secondo.

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La differenza sostanziale risiede nel modo in cui queste vicende vengono raccontate. In Praying with Anger, lo stile, seppur più acerbo e amatoriale, risulta comunque più diretto e personale; non a caso il protagonista è interpretato dallo stesso Shyamalan, quasi a voler sottolineare la sua immedesimazione nel conflitto culturale tra i due mondi in cui è cresciuto. Ad occhi aperti, al contrario, si presenta in apparenza più conforme al classico film hollywoodiano per famiglie degli anni Novanta. Tuttavia, anche in questo caso, cominciano a emergere i primi indizi dello stile narrativo del regista.

Il film si chiude infatti con quello che può essere considerato il primo vero colpo di scena nella filmografia di Shyamalan: se per tutta la durata della pellicola il bambino protagonista è alla ricerca di Dio, desideroso di sapere se il nonno sia effettivamente andato in Paradiso, la risposta gli viene infine fornita da un altro bambino, rimasto fino ad allora in secondo piano, che si rivela , o almeno lascia intendere di essere, proprio Dio.

Non si tratta certo del più riuscito dei finali a sorpresa, ma è comunque sufficiente a far notare Shyamalan alle grandi produzioni, che da lì in poi inizieranno a proporgli collaborazioni, contribuendo gradualmente alla costruzione del suo successo.

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Il sesto senso – Vedo la gente morta

È con l’uscita de Il sesto senso che Shyamalan viene improvvisamente proiettato verso il successo: una regia carica di tensione, un cast ridotto ma affiatato e una trama inquietante sono gli elementi che hanno reso il terzo film di Shyamalan uno degli horror più celebri e acclamati del nuovo millennio.

Nonostante la paura e l’orrore, Shyamalan riesce a costruire attorno alla storia un legame toccante tra uno psicologo infantile segnato dalla propria carriera e un bambino estremamente sensibile, dotato della singolare capacità di vedere e comunicare con i morti, rapporto che dà vita a momenti di profonda umanità che alleggeriscono la costante tensione del film.

Come accennato in precedenza, il cast, seppur ristretto, è di altissimo livello. In particolare Haley Joel Osment offre un’interpretazione straordinaria nonostante la giovane età, incarnando un bambino costretto a crescere troppo in fretta a causa del proprio dono, ma profondamente spaventato dal mondo paranormale che non riesce a comprendere.

Il vero motivo per cui il film è rimasto impresso nell’immaginario collettivo è però, senza dubbio, il colpo di scena finale. Da allora, nel bene o nel male, il twist è diventato quasi una costante nella filmografia di Shyamalan. Sorprendentemente, però, questo espediente narrativo rende ancora più godibile la visione del film anche a posteriori. Certo, oggi è quasi impossibile non conoscerlo (grazie, Scrubs!), ma in ogni caso noi non lo riveleremo: dopotutto, il teatro insegna che bisogna rispettare i segreti di un buon prestigiatore.

Sebbene il colpo di scena sia l’aspetto più noto del film, Il sesto senso possiede molte altre qualità, come una sceneggiatura solida e una scrittura dei personaggi profonda e curata, in particolare nella dolce alchimia che si crea tra i due protagonisti, l’uno praticamente indispensabile all’altro.

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Unbreakable: predestinazione e responsabilità

Dopo Il sesto senso, nella filmografia di Shyamalan spicca un altro grande capolavoro, forse persino il più riuscito del regista: Unbreakable – Il predestinato.

Dopo essersi cimentato con l’horror, Shyamalan affronta il genere supereroistico, non adattando un fumetto esistente, ma costruendo una riflessione originale sul fumetto come mezzo di comunicazione. Una scelta audace, considerando che all’epoca il genere era ancora agli albori e Hollywood lo considerava poco redditizio. L’intento del regista è chiaro: dare dignità al genere dei supereroi, dimostrando quanto questi personaggi siano radicati nella cultura pop e nel nostro immaginario collettivo.

La premessa del film è semplice ma potente: David Dunn (Bruce Willis), un uomo apparentemente ordinario, senza particolari talenti o ambizioni, sopravvive miracolosamente a un terribile incidente ferroviario. È l’unico superstite, e da quel momento in quanto scopre di avere poteri sovrumani che lo rendono invulnerabile.

Potrebbe sembrare la classica storia di origini di un supereroe, ma Unbreakable segue un approccio diverso. Il protagonista non abbraccia subito la propria natura: al contrario, è trascinato in un percorso di introspezione, in cui le sue relazioni cambiano, anche a causa delle aspettative che gli altri iniziano a proiettare su di lui. È un viaggio esistenziale, prima ancora che un’evoluzione eroica.

Con Unbreakable, Shyamalan vuole dimostrare che i fumetti non sono semplici passatempo per ragazzi, ma un linguaggio simbolico capace di veicolare significati profondi, e che merita di essere preso sul serio.

Anche la regia contribuisce a rafforzare questa visione autoriale: molte inquadrature ricalcano la composizione delle vignette, e l’uso sapiente del piano sequenza dà fluidità alla narrazione, costringendo lo spettatore a osservare ogni dettaglio. Emblematica, in tal senso, è la scena iniziale prima dell’incidente ferroviario, girata con una soggettiva che fa sembrare allo spettatore di stare osservando di nascosto, con gli occhi di un bambino curioso, un uomo che tiene un segreto dentro di sé.

La sceneggiatura è altrettanto interessante: i personaggi sono scritti in modo profondo e umano, ma allo stesso tempo risultano a tratti didascalici, quasi come se fossero consapevoli di vivere all’interno di una narrazione fumettistica.

Unbreakable è quindi la storia di un uomo che deve accettare la propria identità in un mondo che prende spunto dai fumetti, ma non si limita a replicarne le dinamiche. Non è un cinecomic, ma un dramma esistenziale che utilizza i superpoteri come metafora.

Persino il climax del film, con il confronto tra David e il personaggio interpretato da Samuel L. Jackson, non è una lotta tra bene e male, ma la dolorosa presa di coscienza di due uomini che cercano disperatamente di capire qual è il loro posto nel mondo.

L’unica pecca del film è solo quella di essere uscito subito dopo il grandioso successo de Il sesto senso, motivo per cui ha sempre vissuto sotto l’ombra della sua popolarità, ma sotto molti aspetti, Unbreakable è forse il film che più si avvicina ai temi e al pensiero di Shyamalan. Se potete quindi, recuperatelo il prima possibile, non ve ne pentirete.

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Signs: tra fede e fantascienza

Dopo l’horror e il cinecomic, Shyamalan passa ancora una volta a un altro genere: la fantascienza. Una sfida impegnativa, considerato il cambio di registro e il fatto che, dopo Il sesto senso e Unbreakable, il regista si trovava all’apice della sua carriera, dove anche un piccolo passo falso poteva risultare fatale.

Non a caso, il successo del film fu più contenuto rispetto alle opere precedenti, complice anche la caratterizzazione all’apparenza poco accattivante dei personaggi principali: una famiglia disfunzionale, composta da una figlia affetta da disturbo ossessivo-compulsivo, un figlio asmatico, uno zio (interpretato da Joaquin Phoenix) piuttosto immaturo e un padre (Mel Gibson) incapace di gestire la propria vita e la famiglia. In questo contesto, un’invasione aliena non fa che peggiorare la situazione.

Anche in questo film la religione torna a occupare un ruolo centrale. Il padre è un ex pastore che ha perso la fede in seguito alla morte della moglie, ma sarà proprio l’invasione aliena a spingerlo a ristabilire il suo rapporto con Dio e con i suoi cari.

Il titolo Signs ha infatti un doppio significato: da un lato rimanda ai segni lasciati dagli alieni, come i cerchi nel grano, dall’altro ai piccoli segnali che indicano la presenza di una forza superiore che guida e protegge nei momenti di difficoltà. I “segni” rappresentano quindi il vero nucleo tematico del film: solo attraverso di essi, e quindi attraverso un atto di fede, si possono affrontare e superare le prove della vita.

Anche lo spettatore è invitato a notare questi segnali, disseminati lungo tutto il film. Si scopre infatti che il punto debole degli alieni è l’acqua, elemento che viene costantemente inquadrato, anche grazie al disturbo della figlia, che lascia bicchieri d’acqua sparsi per la casa.

Come già accennato, la critica non fu particolarmente benevola nei confronti del film. Anzi, alcuni considerarono Signs l’inizio del declino di Shyamalan, a causa di una trama ritenuta più ingenua rispetto ai suoi lavori precedenti. Una delle obiezioni più frequenti era la presunta incoerenza della scelta degli alieni di invadere un pianeta composto in gran parte proprio dal loro punto debole. Tuttavia, questa critica appare piuttosto debole: molti film di fantascienza mostrano esseri provenienti da altri mondi che si trovano ad affrontare ambienti ostili, e potrebbe essere il caso anche di questi alieni.

In ogni caso, la minaccia extraterrestre resta in secondo piano rispetto al vero fulcro narrativo: il percorso del protagonista verso il recupero della fede e la riconquista della propria centralità nel nucleo familiare.

Signs rappresenta un momento di svolta nella carriera di Shyamalan. Fu il primo film a non ottenere un’accoglienza entusiastica, suscitando in Hollywood il timore che il talento del giovane regista fosse stato sopravvalutato. Una sfiducia che influenzerà in modo significativo il suo rapporto con la critica e l’industria cinematografica negli anni successivi.

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The Village: un piccolo capolavoro sottovalutato

Dopo l’insuccesso di Signs, Shyamalan finì nel mirino della critica, e il suo film successivo, The Village, fu accolto con grande scetticismo. Il film ricevette una reazione negativa, tanto da essere considerato da molti l’inizio del declino del regista. In realtà, The Village è un’opera spesso fraintesa, che meriterebbe una rilettura più attenta.

Uno dei problemi principali legati alla ricezione del film fu il modo in cui venne promosso: il pubblico si aspettava un nuovo horror sulla scia de Il sesto senso. Sebbene la paura sia un tema centrale della narrazione, The Village non si può considerare un horror tradizionale.

Il punto di forza del film risiede nell’immersività dell’ambientazione, sospesa tra il fiabesco e il realismo: un piccolo villaggio isolato, apparentemente del XIX secolo, abitato da una comunità che vive nel terrore di misteriose creature sovrannaturali che si aggirano nei boschi circostanti.

Le stranezze non si fermano qui. Gli abitanti del villaggio seguono regole rigide, mostrano comportamenti insoliti e nutrono un’inspiegabile paura per il colore rosso. È la paura infatti l’elemento che unisce la comunità: un timore profondo verso il mondo esterno, alimentato dalla leggenda deimostri del bosco, che diventa il pretesto per l’isolamento e il controllo.

C’è tuttavia chi non ci sta a queste regole: da un lato c’è Lucius, un giovane introverso e riflessivo che desidera esplorare il mondo esterno, dall’altro Ivy, una ragazza cieca ma determinata e vivace, la cui cecità e fede la rendono capace di affrontare l’ignoto con una forza che sorprende.

Il cast è di altissimo livello, in particolare Joaquin Phoenix e Bryce Dallas Howard, che vestono rispettivamente i panni di Lucius e Ivy, la cui storia d’amore rappresenta uno dei punti focali ed emotivi del film.

Anche qui il film si chiude con un colpo di scena (che non riveliamo, per non rovinare l’esperienza a chi non ha visto il film), ma stavolta il finale è stato accusato di aver compromesso la coerenza della storia. In realtà, si integra perfettamente con i temi centrali del film: i segreti, le verità nascoste, il potere della paura e la manipolazione della realtà. Come accade ne Il sesto senso, una seconda visione del film, alla luce del finale, permette di coglierne sfumature e significati più profondi.

Probabilmente, The Village era un film non adatto al pubblico dell’epoca. Se fosse stato realizzato oggi, magari con una produzione più autoriale come quelle della A24, sarebbe potuto diventare un successo sia di critica che di pubblico.

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Verso il periodo buio

Questa prima parte del nostro viaggio nella filmografia di M. Night Shyamalan ci ha permesso di osservare da vicino i primi passi di un autore che, pur tra incertezze e intuizioni geniali, ha saputo imporsi nel panorama cinematografico con una voce unica e riconoscibile.

Dai temi spirituali dei suoi esordi alla raffinatezza narrativa de Il sesto senso, passando per l’ambizione autoriale di Unbreakable e le sperimentazioni emotive di Signs e The Village, emerge un filo rosso che attraversa tutta la sua opera: la ricerca di senso in un mondo apparentemente privo di certezze. Tra fede, paura, destino e libero arbitrio, Shyamalan continua a interrogarci su ciò che vediamo e su ciò che scegliamo di credere.

Nella prossima parte del nostro speciale, esploreremo il periodo più controverso della sua carriera, dove si annoverano i suoi flop più clamorosi, per capire se e come la sua visione sia riuscita a sopravvivere alle critiche e all’industria cinematografica. Perché, come ci ha insegnato lui stesso, a volte basta solo cambiare prospettiva per scoprire che la verità era sotto i nostri occhi fin dall’inizio.

Alla prossima puntata!

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Giornalista freelance e articolista a tempo perso, penso che anche i film, fumetti e videogiochi hanno qualcosa da raccontare se si scava un pò più in fondo e non ci si ferma alla semplice copertina.

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