Con Il Processo ai Chicago 7 ci troviamo davanti ad un’opera di narrativa che racconta un fatto realmente accaduto, poco conosciuto, ma che ha avuto una grande importanza e un significativo impatto storico, legale e politico. Si tratta indubbiamente di uno dei film più interessanti e meglio riusciti del 2020, almeno finora, ed è soddisfacente vederlo distribuito da Netflix, che ancora oggi ha fama di sfornare prodotti main-stream o mediocri ma che, ogni tanto, riesce a donare delle vere e proprie perle.
Il Processo ai Chicago 7 ricorda in parte la serie, sempre targata Netflix, When They See Us, sia per gli elementi storici/politici, sia per l’ingiusto modo in cui è stato portato avanti un processo. Forse, anche l’opera in questione avrebbe avuto un maggior rilievo se fosse stata rilasciata in formato seriale ma, visto il prodotto finale, non possiamo lamentarci.
Ci troviamo a Chicago nel 1969, l’anno delle proteste giovanili, della Guerra del Vietnam, dei movimenti pacifisti e delle repressioni repubblicane. Nixon si sta sostituendo a Johnson e il suo procuratore sta procedendo una campagna diffamatoria contro i movimenti di protesta. Un gruppo di persone, tra i quali attivisti pacifisti, hippie e un leader delle Pantere Nere, viene processato per aver scatenato una rivolta contro le forze dell’ordine cittadine e aver causato numerosi feriti.
Tra di loro spiccano il radicale e pacifico Tom Hayden, il caotico e sarcastico Abbie Hoffman e la Pantera Nera Bobby Seale, il quale sembra trovarsi quasi per sbaglio in quell’aula di tribunale. A scontrarsi saranno gli avvocati Richard Schultz e William Kunstler, in un rito giudiziario che nasconde più di quanto sembra.
Sono numerosi gli aspetti che fanno risplendere questo film, cosa incoraggiante se si nota che si tratta soltanto del secondo lungometraggio diretto da Aaron Sorkin (dopo Molly’s Game). Non dimentichiamoci, però, che egli è stato già scrittore della serie TV West Wing e di film come Codice d’Onore, The Social Network, e Steve Jobs. La sua esperienza di scrittore di opere trattanti di politica, società e attualità lo hanno ottimamente temprato nella creazione di questo suo primo film storico e secondo courtroom drama.
Primo pregio fra tutti è la caratterizzazione dei personaggi: chiunque, dagli Chicago 7 agli avvocati, dal giudice ai testimoni, ha una distinta personalità, un proprio modo di fare e di parlare. Il modo in cui interagiscono tra di loro, battibeccano, concordano e discordano aumenta il loro sviluppo caratteriale. Ognuno ha partecipato e reagito in modo diverso alla vicenda e ognuno ha la possibilità di portare alla luce le diverse sfaccettature del fatto in questione, il che favorisce sia maggiore realismo sia maggiore coinvolgimento drammatico dello spettatore.
Tutto ciò è favorito anche dalla maestosa performance degli attori, primo fra tutti Eddie Redmayne che interpreta, in una delle sue performance migliori e più realistiche, un pacato ma deciso Tom Hayden, forse il vero e proprio protagonista emotivo della vicenda. Abbiamo, poi, Sacha Baron Cohen che sorprende con l’interpretazione più seria della sua carriera. Il suo personaggio è un hippie sarcastico e tagliente ma che non manca di regalarci momenti coscenziosi e capaci anche di suscitare riflessioni, senza alcuna flessione artificiosa. Poi troviamo Joseph Gordon-Levitt, sempre col suo sguardo calmo ma che lascia trasparire una grande intelligenza, e soprattutto Frank Langella il quale risulta quasi odioso, ovviamente in senso buono.
Come non nominare poi Mark Rylance, che con molte probabilità riceverà una nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista nel ruolo dell’avvocato difensore di Tom e dei suoi colleghi. Ma anche il carismatico Yahya Abdul-Mateen II nel ruolo del leader delle Pantere Nere e il breve ma importante cameo di Michael Keaton. E questo solo per elencare i personaggi principali: vi è un cast di personaggi secondari ma non di minor importanza sia nella storia sia nel processo. Niente viene lasciato al caso, nessun personaggio è inutile, ognuno è un tassello in questo enorme puzzle legale.
In secondo luogo, la struttura e il montaggio. Il Processo ai Chicago 7 si sviluppa su due timeline: il suddetto processo e i moti che hanno portato ad esso. Lo scaltro utilizzo dei flashback mostrati mentre il processo è in atto aiuta a comprendere meglio le dinamiche dell’accaduto. Il pacing rapido delle sequenze in cui ci viene spiegato cos’è successo nei giorni precedenti, i dialoghi incrociati e la perfetta coincisione tra tempo presente e passato non sembrano per nulla fuori luogo e, anzi, aiuta a rendere la vicenda più documentaristica.
Delle frasi iniziate nel processo verranno terminate nel flashback e delle domande troveranno risposta allo stesso modo. Un metodo semplice ma efficace per annodare le due storie e che ci dona una visione a 360 gradi di ciò che è realmente successo, almeno dagli occhi di chi ha vissuto l’esperienza.
Sulla regia di Aaron Sorkin non c’è molto da dire: abbonda di primi piani durante il processo e di campi larghi attraverso il punto di vista dei testimoni dell’evento e degli interrogati nei flashback, una buona trovata capace di rendere gli spettatori più partecipi nella vicenda. Non sarà ai livelli di uno Scorsese o di un Fincher, col quale Sorkin, ricordiamo, ha già lavorato, ma si nota come sia riuscito a prendere spunto dai suoi colleghi e di come dimostri di sapersi destreggiare in solitario.
Collegandosi al primo punto, sono encomiabili la complessità e lo sviluppo dei personaggi, così come dell’intera vicenda che ha portato i Chicago 7 a ritrovarsi in aula. Ma una storia così ben sviluppata non si ridurrà ad artificiosi semplicismi: è un intricamento di fatti assai problematico, che s’impegna equamente a narrare una vicenda e a insegnare una morale.
L’intero film non narra una lotta tra bianco e nero, tra repubblicani cattivi e pacifisti buoni, vittime di un sistema oppressivo: ognuno ha delle motivazioni personali per cui sta compiendo e ha compiuto determinate azioni e, molte volte, anche i sette imputati si ritroveranno ad ammettere colpe o a nascondere segreti.
La zona grigia che permea il film fa comprendere che è una storia più complessa di quanto sembri. Come dice il personaggio di Cohen “questo è un processo politico” ed è ovvio che il punto di vista dei giudici e della giuria sia più orientato verso l’ala destra, ma non si nascondono mai i difetti anche dell’altra parte. Altra frase del suddetto personaggio, “non si può fare una rivoluzione senza rompere qualche bicchiere”, ci rimanda anche alle rivolte che si sono scatenate in America negli ultimi mesi.
Se si deve cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe dire che Il Processo ai Chicago 7, in certe scene, si perde nel romanzare i fatti accaduti, rendendoli più “hollywoodiani”, ma è un difetto comprensibile, se si vuole raccontare una storia così intricata. Collegandosi alla complessità, si sarebbe potuta allungare di più la storia, approfondendo di più l’ingarbugliata questione politica di quegli anni, trasformando il prodotto in una miniserie. Ciò avrebbe forse reso il prodotto più documentaristico, ma sarebbe fluito con molta più facilità.
Nel complesso, Il Processo ai Chicago 7 è un ottimo film con qualche piccolo difetto, ma da vedere assolutamente e che, molto probabilmente, troveremo nei prossimi Oscar. Un applauso a Netflix che è stato capace di offrirci un buon prodotto e un altro esempio di come anche il formato streaming sia in grado di competere con le sale.
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