Come ormai è chiaro, quando un titolo viene analizzato, valutato e giudicato, devono essere considerati vari fattori, che possono arrivare dal gameplay alla qualità della narrazione, dal comparto tecnico alla longevità e così via. Al contempo però, va anche considerato il genere videoludico al quale tale titolo appartiene, in quanto in base ad esso determinati aspetti possono avere più o meno importanza: per fare un esempio, non ha alcun senso valutare il comparto narrativo di un Rainbow Six Siege, essendo quest’ultimo esclusivamente multiplayer, bensì si presta più attenzione al bilanciamento generale del gameplay.
Quindi, ogni videogioco pone i suoi punti forti su aspetti che non sono quasi mai sempre gli stessi: l’elemento che prenderemo oggi in considerazione riguarda il semplice concetto di esplorazione nella sua forma più tecnica e “osservativa” possibile, escludendo quindi l’applicazione di esso in ambienti completamente open world inteso come “visita dell’intera mappa di gioco”.
In particolare, nei videogiochi Immersive sim e in quelli stealth (che spesso sono gli stessi) il Level Design ha un’importanza prettamente primaria (Dishonored, Deus Ex, Hitman ecc…), che è direttamente integrati nel gameplay, in quanto l’esplorazione delle aree e lo studio delle mosse successive da compiere rappresentano una strategia propositivamente vincente per il superamento del livello.
Sempre al di fuori del mondo open world, esiste l’esplorazione “alla souls like”, dove il mondo di gioco è si liberamente esplorabile, ma volto alla semplice raccolta di oggetti, risorse, equipaggiamenti e armi che potranno essere utili per l’avventura, oltre che scoprire intere aree e boss fight secondarie (sistema adottato anche se in modo più aperto dal più recente God of War).
La domanda alla quale proveremo a rispondere oggi è: fino a che punto, a livello videoludico, sono preferibili mappe enormi, piene di aree secondarie da esplorare e dal design complesso rispetto ad un livello che presenta varie deviazioni ma dal design complessivamente lineare?
La risposta potrebbe sembrare ovvia: un titolo che propone più libertà di movimento, d’azione e di esplorazione dovrebbe a rigor di logica offrire automaticamente più contenuto rispetto ad uno che lo fa in maniera più limitata, ma la cosa va analizzata per gradi.
Quando esplosero i primi titoli open world, vi era l’idea per il quale un videogioco che presentava una mappa più grande rispetto ad un altro, era in automatico un titolo migliore; concetto di partenza chiaramente sbagliato, ma che all’epoca, essendo questo un nuovo genere che rivoluzionò la concezione di “libertà d’azione”, era giustificabile il fatto che un mondo potesse stupire per la sua enormità.
Con il passare del tempo, insieme al continuo ingigantimento delle mappe di gioco, gli sviluppatori hanno puntato chiaramente all’immedesimazione in questi ambienti, andando a creare meccaniche open world di ogni tipo: da elementi gestionali al concetto di “karma”, da un sistema di “sblocco” di determinate aree grazie a varie attività secondarie alla suddivisione di tale mappa per “livello dei nemici” ecc…ma al contempo, altri sviluppatori puntavano al creare videogiochi la quale struttura della campagna era lineare (a mo di “lista di missioni da completare in ordine”), ma che presentavano un level design talmente articolato e complesso da rendere le missioni un letterale parco giochi dell’esplorazione; il che andò benissimo, fin quando non iniziarono a produrre titoli fin troppo ricercati sotto questo punto di vista: un titolo come Dishonored La Morte dell’Esterno contiene poche missioni, le quali presentano tutte una quantità veramente notevole di passaggi sotterranei e sopraelevati, strade lineari, percorsi laterali che si intrecciano tra gli edifici, ma al contempo, molte vie sono bloccate da tante porte chiuse a chiave, cancelli chiusi dall’altro lato, sbloccabili trovando oggetti, attivando leve e pulsanti in giro per la mappa.
Il problema è che se da un lato tutto ciò denota uno studio davvero certosino e quasi malato della mappa da parte degli sviluppatori, dall’altra può capitare che il giocatore si ritrovi a dover esplorare forzatamente, in situazioni nel quale potrebbe tranquillamente non servire farlo, contro la sua volontà.
Il lavoro di un level designer quindi è quello di indurre il giocatore ad esplorare non solo per “proseguire la missione”, ma anche per imparare la tridimensionalità e la planimetria della mappa, affinchè possa muoversi in essa conoscendo quali movimenti fare, e quali invece sarebbero avventati, e qui entra a far parte un altro concetto molto importante, quello dei Punti di riferimento.
Nonostante il fatto che questo potrebbe essere applicato anche a Dishonored, torniamo all’opera di Myazaki sopracitata: in ogni suo capitolo, Dark Souls offre continuamente scenari che si estendono intricatamente sia in orizzontale che in verticale, con il rischio che il giocatore si perda in modo difficilmente recuperabile, in un ambiente, tra le altre cose, fortemente ostile. Ma i level designer di From Software sono sempre stati in grado di far sì che anche nella mappa più labirintica il giocatore possa in qualche modo capire per lo meno dove si trova, e lo fa grazie ai Punti di riferimento: ponti, cancelli, lanterne, alberi particolari, rovine, edifici, colonne e tantissimi altri elementi dello scenario, persino la presenza di determinati nemici e il loro specifico posizionamento possono aiutare il giocatore ad orientarsi.
Andando più nel profondo, il primo capitolo di questo saga presenta uno dei migliori esempi di level design che il mondo dei videogiochi abbia mai visto, in quanto molte delle aree presenti nel gioco sono interconnesse tra di loro: conseguentemente una volta che viene compreso il come queste aree sono connesse, e il come si sbloccano tali passaggi, Lordran diventa veramente un piacere da esplorare in ogni suo angolo, più e più volte, anche e soprattutto per backtracking, andando a scoprire quanto il mondo di gioco sia zeppo di aree, scorciatoie, segreti.
Nonostante ciò, Lordran non è un luogo poi eccessivamente grande, esteso o complesso, anzi, la genialità di Myazaki è stata espressa proprio “nel piccolo”, e passare da un’area ricollegandosi con un’altra esplorata ore e ore di gioco prima, per poi capire che in realtà tali aree non sono assolutamente distanti è una sensazione unica, e senza prezzo; inoltre lo sblocco di tali aree non richiede nemmeno un’esplorazione malata, basta sempre e solo una chiave (che nella maggior parte dei casi si trova in bauli non così nascosti) o al massimo in una leva da tirare, senza l’assurda ricercatezza nel voler costringere ad ogni costo il giocatore ad esplorare come accade nell’ultimo capitolo di Dishonored.
Tutto ciò è volto al far comprendere il come mai non c’è bisogno di esagerare nè con l’ampiezza di una mappa in termini di “estensione”, e nemmeno di complessità strutturale della stessa: studiare un level design non è Mai semplice, e Dishonored rimane comunque uno degli esponenti tra i giochi che fanno di questo aspetto uno dei più importanti.
In fin dei conti, è facile comprendere come anche sotto questi punti di vista, “il troppo stroppia”.
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