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Takopi’s Original Sin: il lungo cammino verso una comunicazione autentica (Seconda Parte)

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Takopi’s Original Sin: il lungo cammino verso una comunicazione autentica (Seconda Parte) 1

Se la Parte 1 ha messo a fuoco l’architettura produttiva, la Parte 2 scende di livello: qui osserviamo come l’idea diventa immagine. Dall’Happy Artist tentoten, che “accende” il punto di vista di Takopi con inserti da albo illustrato, al montaggio e alla musica che ribaltano la percezione (la “Primavera” di Vivaldi sul finale di #02), fino agli episodi guidati da Moaang, Irei, Oshima e l’ospite Mori: stacchi di stile, background animation “armata”, e una grammatica di contrasti che rende visibile la ciclicità della violenza e l’urgenza della comunicazione.

Seguiremo questo filo fino al reset finale: non una soluzione politica, ma un gesto narrativo che restituisce alle protagoniste la possibilità di intendersi davvero – e che rilegge persino i segnali tossici con un diverso orizzonte affettivo. È qui che Takopi mostra perché il suo ottimismo non è ingenuità, ma scelta di sguardo.

Riprendendo dalla Parte 1, un concetto cardine in Takopi, soprattutto all’inizio, è l’uso del contrasto. C’è uno scontro intrinseco tra una mascotte rosa spensierata e la crudezza degli eventi, e l’anime prova a sviluppare questa frizione oltre la portata del manga.

In questo senso, tentoten (10+10) e il suo ruolo di Happy Artist costituiscono un ulteriore punto d’interesse. La narrazione segue un gruppo di bambini ai quali, ognuno con una propria, amara declinazione di maltrattamento, è stata negata la gioia dell’infanzia. L’immaginazione prorompente che nasce da una mente incontaminata viene invece incarnata da Takopi, un alieno proveniente da una cultura talmente fondata su sentimenti positivi da non possedere neppure un vocabolario per la violenza. Di conseguenza, le scene filtrate dal suo punto di vista, i ricordi, le poche fughe solitarie verso il luogo d’origine, sono rese con uno stile del tutto diverso, affine a quello di un albo illustrato.

Per comporre questi elementi, tentoten ha curato un processo produttivo parallelo e solitario che ha portato a soluzioni visive più vicine a ciò che si vede nell’animazione non commerciale; non va dimenticato che era un animatore indipendente prima che CSM lo catapultasse alla fama, e che continua a operare in quell’ambito.

Guardando la serie insieme agli spettatori, Ponte ha ricordato la natura non cronologica con cui il ruolo di Happy Artist, esteso all’intera serie, ha preso forma. Pur intervenendo poco sulla distribuzione dei cut negli episodi non suoi, inizialmente aveva chiesto a tentoten di riservare un trattamento speciale a una scena cruciale con Takopi del quinto episodio.

Una volta vista all’opera, a Ponte il risultato è piaciuto così tanto da decidere di applicare retroattivamente questo approccio onnicomprensivo ogni volta che andava resa la visione del mondo di Takopi. Non era previsto all’origine, ma è stata una sterzata eccellente verso quello che è diventato uno dei pilastri dell’anime di Takopi.

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In queste fasi iniziali del racconto, il contrasto resta un’idea centrale. Una delle introduzioni più memorabili di questa frizione arriva proprio alla fine dell’episodio #02. Sebbene il calendario non consentisse di usare una colonna sonora cinematografica per l’intera serie, si è potuto applicare selettivamente quell’approccio quando il regista lo riteneva più opportuno, e comprensibilmente è accaduto in quella scena di chiusura.

Dopo aver visto Shizuka subire pesanti vessazioni per mano della compagna Marina, persino l’ottimismo travolgente di Takopi viene messo alla prova: non importa quanti gadget alla Doraemon utilizzi, quante volte provino a rifare gli eventi, la tragedia è sempre in agguato. Come contraltare dei momenti firmati Happy Artist, lo storyboard sfrutta la percezione soggettiva di Takopi per mostrare perché si sente spinto ad agire, e come ciò conduca all’omicidio accidentale di Marina.

Anche in una serie che sprofonda subito nel buio, questo diventa l’evento più scioccante visto fino a quel momento. Chiunque sarebbe travolto da sentimenti negativi, fatta eccezione per una persona: la bambina cui è stato sistematicamente negato un senso di normalità, per la quale la morte della sua spietata persecutrice è motivo di gioia.

Ed è qui che la musica assume un ruolo chiave. Ponte aveva chiesto in modo generico un brano “di sapore classico” per catturare questo scarto percettivo, ma è stato il sound director Jin Aketagawa a suggerire specificamente di (s)combinare la tragedia oggettiva con il sentimento di trionfo percepito da Shizuka usando la “Primavera” di Vivaldi.

Oltre all’impatto puro e semplice della scena, momenti come questo servono anche a sottolineare come i due protagonisti si rispecchino in modo affascinante: tanto Shizuka quanto Takopi sono, di fatto, “alieni” che non hanno sperimentato una pacifica convivenza umana; la tragedia, ovviamente, è che Shizuka avrebbe dovuto poter vivere un’esistenza tale da farle riconoscere che quello non era un evento positivo.

In parallelo a questi contrasti tonali, l’episodio ricorre deliberatamente a strappi stilistici per rendere visibili gli scarti di percezione. Ciò vale già per il primo episodio, ma la declinazione nel successivo è piuttosto diversa. Pur impiegando ancora il dettaglio più crudo per mostrare il lato cupo della storia, la messa in forma è sensibilmente distinta: linee molto più sottili, un character design che insinua molto di più rispetto all’esplicitezza di Nagahara. Non è un caso, bensì l’esito naturale del ruolo centrale di Moaang nell’episodio #02: storyboarder, regista e supervisore dell’animazione, la sua svolta verso un’animazione più naturalistica è un ottimo esempio di come l’impianto di Takopi offra ampio margine di pivot ai singoli artisti.

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Un cambio analogo lo si osserva nel terzo episodio, dove un altro autore assume un ruolo altrettanto centrale. Rispetto al lavoro precedente di Moaang non è certo così sfarzoso, ma le ragioni hanno ben poco a che vedere con le indubbie capacità di Eri Irei. Per cominciare, va ricordato che il team di regia di Takopi era ridotto: al netto degli assist, contava di fatto quattro membri affiancati a Ponte. Tra questi, la metà era composta da persone invitate attivamente dal team: in particolare Moaang e chi ha guidato il quinto episodio furono trattati come ospiti.

Per contro, gli altri due ottennero l’incarico in quanto dipendenti dello studio e in possesso della raffinatezza richiesta. Purtroppo, a Irei è stato assegnato un carico pesante con scarso margine di intervento, il che aiuta a spiegare perché la sua esperienza, in particolare, sia stata mentalmente logorante.

Questo, ancora una volta, non significa che l’episodio sia peggiore perché il suo regista ha faticato. Anzi: Irei somiglia in parte a Ponte nella capacità di eccellere con tanta naturalezza da far credere che il buon cinema “accada da sé”. Mentre la storia si apre agli altri bambini intorno a Shizuka, l’episodio illustra con grande efficacia queste nuove prospettive.

Attraverso i suoi storyboard, Irei ci mette nei panni di Naoki: nato in una famiglia che appare più stabile, ma chiaramente trascurato da una madre che fatica persino a riconoscerne la persona. Il tremolio della macchina da presa rispecchia la sua confusione quando inciampa in quell’uccisione accidentale, mentre transizioni e linguaggio del corpo ci permettono di comprendere quanto sia ricettivo alle, forse involontarie, manipolazioni di Shizuka.

Tra i due c’è una chimica tossica che non viene mai verbalizzata, innanzitutto perché lui non avrebbe nemmeno le parole per spiegare perché la sua mente infantile collega quelle due figure femminili della sua vita. E quando non puoi usare le parole, serve la finezza che la regia di Irei sa offrire in silenzio.

Accanto a questi scorci delle difficoltà quotidiane di Naoki, la scomparsa di Marina e la sua sostituzione con un polpo mutaforma offrono anche un assaggio concreto della vita di tutti i giorni in un’altra famiglia disfunzionale. Come praticamente ogni padre nella storia, anche il padre di Marina è assente; nel suo caso emotivamente, a differenza del padre di Shizuka, che ha abbandonato tutto fisicamente.

Gli storyboard di Irei lo comunicano oscurandone di continuo l’espressione, mentre Takopi nella forma di Marina interpreta tragicamente il conflitto domestico come vivacità, e non come violenza. Più ancora delle percosse che subisce quando la madre sfoga tutto sulla figlia, è la consapevolezza che quella era stata una famiglia felice a colpire la mente di Takopi. È significativo che la prima cosa a scomparire in quella casa sia proprio ciò di cui la serie ha più bisogno: una comunicazione autentica.

Il modo in cui Takopi scopre il loro passato, attraverso un environmental storytelling che non mostra solo fotografie, ma anche le decorazioni con cui Marina e sua madre abbellivano la casa, mette in luce un altro punto di forza dell’adattamento. Le parole di Ponte hanno attirato attenzione sul meticoloso lavoro di ricerca per individuare i colori in voga all’epoca nei materiali scolastici, ma questa mentalità va oltre quel singolo dettaglio. Il zaino viola di Marina richiama la sua stanza, il suo senso della moda sembra l’estensione naturale degli hobby condivisi con la madre, e si avverte una coerenza di particolari che consente di immaginare vite che trascendono i confini della storia.

Quando ciascun bambino rientra a casa, il loro status sociale si percepisce in modi più sfumati della semplice metratura dell’abitazione. In una serie così inclemente nel rappresentare l’abuso infantile, soprattutto con gli esempi più realistici e comuni di questo episodio, questa umanizzazione è essenziale.

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Quella stessa impostazione prosegue fino all’episodio #04, giustamente considerato uno dei vertici di una serie già di per sé notevole. Dire che fosse “impostato per riuscire” non è ingiusto: è probabilmente la catarsi più compiuta e autosufficiente prima del finale. Ciò detto, questo non deve farci perdere di vista quanto l’esecuzione sia eccezionale. Toya Oshima, altro pilastro di Enishiya, ha lasciato senza parole persino i suoi fan con il primo episodio da lui guidato come storyboarder e regista.

Pur essendo noto per un approccio espressionista all’animazione, coltivato alla scuola del maestro vivente Shinya Ohira, Oshima apre l’episodio in modo perfettamente clinico. Dopo la scoperta che il vero cadavere di Marina, nascosto dai ragazzi, è stato rinvenuto, lo shock iniziale di Naoki non è reso tramite le astrazioni che il regista adopera spesso, ma attraverso suono e jump cut che mostrano come nulla gli vada davvero a segno. Riorganizzando gli eventi affinché l’introduzione si chiuda con il fratello maggiore che lo scuote fuori da quello stordimento, l’episodio inizia già a preparare il climax in modo soddisfacente.

Quando si entra nel cuore dell’episodio, riaffiora il lato più spettacolare del regista, sempre però con grande pertinenza. C’è una conseguenza naturale dell’approccio tattile al disegno su cui non ci eravamo ancora soffermati: il rapporto diretto con l’uso della background animation fin dall’inizio. I cut a fuoco sui rodovetri (cel-forward) sono intrinsecamente più tangibili e si adattano perfettamente agli obiettivi di Takopi. Con la sua spiccata affinità per questi cut e per un segno ruvido in generale (menzione a parte per il direttore dell’animazione Hayate Nakamura, che preserva il fascino delle linee genga grezze), Oshima trova modi efficacissimi per “armare” le sequenze di background animation.

È questo il tipo di animazione che vediamo mentre Naoki viene di nuovo attratto dal magnetismo tossico di Shizuka; qualcosa che, da osservatore esterno, Takopi percepisce come un allontanarsi dei due nonostante la prossimità fisica. La background animation può incarnare l’angoscia di un genitore deluso che si avvicina e, con un pizzico di ondulazione “alla Ohira”, catturare un divario emotivo crescente e l’intero mondo interiore che crolla. Lo stesso dispositivo è usato nella relazione più interessante che l’episodio mette in scena, una delle pochissime dinamiche familiari sane in tutto Takopi: quella tra Naoki e il fratello maggiore Junya.

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Gli episodi precedenti avevano già offerto scorci di Junya come fratello prodigio, che suo malgrado tormenta Naoki a causa delle pretese materne di seguirne l’eccellenza. Grazie a quel leggero arretramento rispetto agli eventi che Ponte aveva scelto fin dall’inizio, si poteva intuire che Junya fosse un fratello maggiore straordinario, sinceramente premuroso verso Naoki; una presenza preziosa in una serie dove tanti bambini sono privati dell’affetto genitoriale, quell’amore che dovrebbe essere assolutamente incondizionato.

Come fa regolarmente, Hayate Nakamura ha anche animato in key un numero enorme di cut (116 in questo caso) oltre ai compiti di supervisione. Ogni volta che si parla di animatori con un equilibrio assurdo tra qualità e quantità, il suo dovrebbe essere tra i primi nomi a venire in mente, soprattutto considerando quanto il suo lavoro resti emotivo nonostante carichi simili.

Attraverso la regia dell’episodio #04, Oshima mette magistralmente in risalto quel divario. Il bagaglio emotivo di Naoki lo porta a leggere gli approcci del fratello come minacciosi, ma ci sono abbastanza momenti lucidi attorno a quelle sequenze soggettive da permettere allo spettatore di cogliere che le intenzioni di Junya sono buone.

Con una madre che lo ha completamente abbandonato, la persona capace di sfondare la visione disincantata che Naoki ha della propria vita, quella che lo spinge ad abbracciare una relazione tossica con Shizuka, è proprio Junya. Il fratellino lo percepisce come imponente e mostruoso quando gli si avvicina, ma quando la sua supplica infrange quegli incubi, a guardarlo dritto negli occhi, da pari, è un fratello maggiore premuroso.

Il modo in cui formula il suo aiuto è, ancora una volta, un rimando diretto al tema portante della serie: la comunicazione. Junya non conosce la verità su ciò in cui sia invischiato il fratello e, più di ogni altra cosa, lo implora d’ora in poi di parlare davvero con lui e ascoltarlo. Non risolverà tutto, ma è la base di quella felicità in cui Takopi crede.

Pur nella sua predilezione per l’astrazione, la messa in scena di Oshima è esplicita e rivolta verso l’esterno. È la norma in Takopi e rende ancor più interessante la scelta del team di affidare l’episodio #05 a un regista ospite per regia e storyboard. Hirotaka Mori è un nome spesso evidenziato nella scena, soprattutto in relazione al suo debutto alla direzione di serie con l’ottimo adattamento di Tengoku Daimakyo.

Ogni volta che si parla di Mori, una delle sue qualità più ammirate è la capacità di non esporre apertamente i dettagli più atroci dei temi cupi che gli vengono affidati, pur preservandone l’impatto. Questa mentalità non è estranea a Takopi, abbiamo già parlato di come Ponte e il suo mentore scelgano deliberatamente un piccolo passo indietro, ma l’elegante, non invasiva inquadratura di Mori è piuttosto diversa dalla violenza esplicita che caratterizza gran parte della serie.

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Così, nell’episodio #05, queste due tendenze si incontrano a metà. È subito evidente che l’approccio garbato di Mori non è necessariamente “sottile: una madre negligente è l’unica ad avere anche solo un tenue accesso alla luce, e i visual più speranzosi attorno a Shizuka coincidono con i suoi incontri con famiglie felici. La sua ricerca del padre (e del cane che rifiuta di credere morto) la conduce alla scoperta che lui si è costruito una nuova famiglia felice, senza posto per lei.

In momenti come questo, lo storyboard di Mori tende a voltare la macchina con grazia, lasciando spazio ai personaggi e mostrando comunque quanto basta per rendere chiari i sentimenti. Questo avviene ripetutamente tanto nelle scene più tragiche quanto nei momenti più quieti di vulnerabilità.

Tornando un attimo all’episodio #04, vale la pena evidenziare anche il climax roboante per i divertenti paralleli con il film Uma MusumeBeginning of a New Era di Ken Yamamoto. Scintille arcobaleno che volano mentre una mano si protende a schiacciare un fantasma che ostacolava la crescita spirituale: i fan di quel film dovrebbero trovare la scena molto familiare, tanto più che Shuu Sugita ha animato entrambe le sequenze.

Con Shizuka ormai sul punto di crollare, l’alieno eponimo ricorda finalmente il vero inizio della storia: il suo incontro con una Marina più grande, segnata nel corpo e nella mente dall’escalation della violenza domestica che abbiamo già visto. Un incontro fortuito con Naoki apre uno spiraglio verso un possibile futuro più luminoso, non solo come sostegno per lei, ma anche come tentativo di ricostruire quella famiglia tradizionale che sua madre, dopo il fallimento del matrimonio, ha finito per idolatrare ossessivamente.

Eppure, la ricomparsa di Shizuka, diventato a questo punto un manipolatore deliberato, porta a un’ulteriore spirale di abusi. Questo ottovolante di emozioni instabili usa il colore per rappresentare una verità amara: sebbene seguiamo la vicenda dal punto di vista di Marina, in una casa di un abusante è solo il sentimento di quest’ultimo a dettare l’atmosfera. Questa svolta al peggio si intreccia con il facsimile cinico di romanticismo attorno alle azioni di Shizuka, messo in scena con una sequenza straordinaria che mostra quanto Hirotaka Mori abbia assorbito da Toshimasa Ishii nelle loro collaborazioni.

Di norma, Mori saprebbe combinare momenti del genere con le sue inquadrature evocative per raccontare anche le storie più cupe. Ma ciò non basta per Takopi, una serie che si è posta l’obiettivo di scrutare da vicino la violenza nel suo aspetto peggiore.

Con l’escalation degli abusi, fino a quando Marina, nel difendersi, uccide accidentalmente la madre e poi toglie la vita a se stessa, le consuete allusioni del regista, da sole, non bastano; forse lo farebbero in un adattamento interamente guidato da lui, ma qui equivarrebbero a togliere il piede dall’acceleratore in una versione della storia che ci ha abituati a un ritmo imponente e scomodo. E così, Mori sterza verso un’inquadratura più viscerale ed esplicita che non lascia nessuno a proprio agio.

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Di per sé, catturare quel disagio è già cruciale. E, guardando alla narrazione nel suo insieme, questo è il momento giusto perché la serie sia il più diretta ed esplicita possibile. Lo status di Takopi, osservatore esterno ingenuo e benintenzionato di fronte alle sofferenze umane, consente di verbalizzare in modo naturale il messaggio sulla natura ciclica della violenza: per l’alieno si tratta di una scoperta, che per di più potrebbe perfino presentare, in modo straniante, come positiva.

Non è una conclusione rivoluzionaria; a essere sinceri, non è neppure nuova per la serie, dato che la si può dedurre fin dall’inizio. Eppure, come spesso accade in Takopi, c’è molta forza nei segni amari che compongono queste parole.

Si sarà notato che la madre di Marina segue schemi ricorrenti nella sua violenza fisica: tende a schiaffeggiarla ripetutamente, spesso dallo stesso lato del volto. Afferrarla per i capelli e minacciarla con oggetti appuntiti vicino al viso è un gesto che ha ripetuto così tante volte, in più linee temporali, da scatenare sempre una risposta traumatica.

Tornando al primo episodio con questo in mente, si coglie subito il modo specifico in cui inizia a colpire la persona che crede sia Shizuka, afferrandola per i capelli e minacciandola di pugnarla con una matita vicino al volto. Non a caso, quell’ultimo momento di violenza è stato curato da Danny Cho, direttore dell’animazione del quinto episodio che illumina le tendenze abusive ereditate di Marina.

Il suo stile è più morbido e gradevole rispetto a quanto la serie ci abitui, ma è nel suo elemento quando mette in scena questi momenti di cupa desolazione; al punto da aver scherzato su quanto rapidamente gli venga naturale disegnare una Shizuka minacciosa, perché “si ritrova sempre a curare le facce malvagie”.

La verità è che Danny Cho aveva già contribuito a Takopi, inclusa la gelida messa in scena del gesto estremo di Shizuka nel primo episodio, avvertenza di contenuto ovvia per chi volesse proseguire. Nonostante quella rotondità più “carina” del suo segno cui accennavamo, probabilmente legata all’esperienza in Doga Kobo, la sua affinità con questo tipo di materiale è evidente. E non sarebbe nemmeno la prima volta che ritrae una morte traumatica nel primo episodio di una serie destinata a perseguitarla per tutta la durata: sì, è stato lui a occuparsi anche degli ultimi momenti di Ai in Oshi no Ko.

Ovviamente non è solo Marina a restare intrappolata in un ciclo tossico. Shizuka è stata abbandonata dal padre e, mentre lavora come escort, la madre sembra preoccuparsi unicamente di sé. Cresce senza alcuna figura genitoriale minimamente positiva, e ciò che impara è usare la seduzione come strumento di manipolazione, come vediamo nel suo reincontro con Naoki.

Ancora una volta, è una dinamica già intravista da bambini, ma anni trascorsi in un ambiente simile l’hanno avvelenata ulteriormente. Persino il puro Takopi, nel tentativo di aiutare Marina, dimostra di aver “appreso” la violenza dall’esperienza negli angoli più bui della società umana.

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Tutti e tre conservano forme di gentilezza, che la serie tratteggia con la stessa cura dedicata alla crudeltà eredita. Pur essendo condivisa l’idea dell’intergenerazionalità dell’abuso, poche opere riescono a osservare i perpetratori senza distogliere lo sguardo e, insieme, a mostrare con precisione come quei tratti si manifestino nelle vittime.

In tutta franchezza, la maggior parte delle serie non vorrebbe nemmeno provarci: è più confortevole fingere che gli abusanti siano ontologicamente malvagi e le vittime, bene indiscutibile. Per quanto alcune componenti di Takopi siano improbabili, l’opera appare più sintonizzata sulla realtà degli esclusi rispetto alla norma, ed è per questo che sceglie di illustrare (senza la condanna ad personam) cosa significhi stare in fondo alla piramide della violenza.

Takopi non è qui per biasimare Shizuka e Marina per i loro atti, ma per invocare condizioni in cui i bambini non vengano spinti in posizioni simili; e, se accade, almeno possano contare su relazioni di sostegno, di qualunque tipo.

Qual è, allora, la “soluzione” proposta da Taizan? In termini di cambiamento strutturale traducibile in politiche concrete, nessuna. Il protagonista è un polpo la cui battuta più nota è che “non capisce (pi)”; non avrebbe potuto alchemizzare una panacea sociale per problemi che non abbiamo risolto nel mondo reale. Né avrebbe riflesso la violenza su altri personaggi, per quanto alcuni genitori lo chiedano, perché sarebbe stata una soddisfazione per i lettori più che per i personaggi. Al contrario, è l’idealismo dell’alieno a farsi canale di un unico desiderio: migliorare la comunicazione per, se non risolvere, almeno attenuare problemi di questo genere.

Con Ponte di nuovo in cabina di regia, è ciò che resta da illustrare nel finale. Dopo aver dato fondo alle energie negli episodi precedenti, la produzione arriva a questo punto con il necessario per tagliare il traguardo; a chiudere il cerchio ci pensano i fondamentali della messa in scena e l’interpretazione straordinaria di Reina Ueda nei panni di Shizuka.

Quando Takopi la affronta ancora, lei crolla: la crudeltà sopportata in silenzio, tutto ciò che un bambino dovrebbe dare per scontato e che lei non ha mai avuto. L’alieno non ha risposte alle sue domande su cosa avrebbe potuto fare diversamente, ma può chiedere scusa per non aver provato ad ascoltarla e promettere di farlo d’ora in avanti.

Per quanto toccante, specie con il montage dei loro momenti insieme che segue, Takopi si rende conto che Shizuka non è mai riuscita a sorridere davvero. L’episodio si apre con l’allusione a qualcosa che lei ha sempre desiderato, e Takopi capisce quale: un vero pari con cui comunicare alla pari. Così, con un’ultima magia “alla Doraemon” intrisa di sacrificio, resetta il mondo.

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Questa nuova timeline appare molto simile, ma il desiderio di Takopi è rimasto. Poiché è più disposto a confrontarsi con il fratello, Naoki imbocca una vita più sua, con qualcuno che lo sostiene davvero. Le famiglie delle due ragazze non si sono certo “aggiustate” per magia, ma proprio quando Marina sta per scatenare di nuovo la violenza su Shizuka, un suo disegno distratto di uno strano polpo finisce per deviare entrambe.

Può sembrare un dettaglio minore, ma le relazioni umane non si fondano tutte su imprese monumentali che rivelano il nostro carattere. Più spesso, è un’esperienza condivisa del tutto arbitraria a creare un legame. Meno stressato dai risultati scolastici, Naoki si è ritrovato a fare più amicizie semplicemente dicendo di avere una PS4. Un alieno rotondo che nessuna delle due conosce, ma che a entrambe risulta familiare, può, col tempo e con l’atteggiamento giusto, spostare una relazione abusante verso un rapporto in cui ciascuna diventa il sostegno di cui l’altra ha bisogno.

Si arriva così all’epilogo, con un accenno alle loro vite da liceali. Entrambe portano ancora il peso di nuclei familiari problematici, come chiarisce la cicatrice che riappare sul volto di Marina. Ma ora che hanno qualcuno con cui possono essere franche e che comprende appieno le loro difficoltà, l’atmosfera intorno a loro è completamente diversa.

Persino tratti che un tempo erano segnali di una genitorialità tossica vengono riletti. L’inquadratura sulle unghie di Shizuka e il modo in cui interrompe la conversazione perché vuole comprare del make-up rimandano alla madre; ma, ora che è legata a Marina, diventano un ulteriore punto di contatto tra loro, del resto, da bambina Marina era piuttosto civettuola.

C’è un nucleo riconoscibile in questi personaggi e, purtroppo, anche problemi ancora riconoscibili. Ma Takopi vuole farci credere che andrà tutto bene, e anch’io voglio crederci. Voglio anche credere che sia un yuri anime, e, per fortuna, è facile: è un dato di fatto.

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Iniziò tutto all'età di tre anni, quando per la prima volta trovai il coraggio di premere il pulsante di accensione di quella "catapecchia" che, un tempo, era il "non plus ultra" della tecnologia. Era il mio tutto: la mia attrezzatura nell'esplorazione di antiche tombe dimenticate nei panni di un'atletica archeologa, la mia auto tra le strade di San Francisco e Miami nei panni di un ex pilota di auto da corsa diventato poliziotto, fino ad essere la mia cara Normandy a spasso tra le stelle della Via Lattea. Questi viaggi, che non dimenticherò mai, mi hanno reso, grazie ai loro valori e messaggi intrinseci, la persona passionale, curiosa e caparbia che sono oggi. La scrittura è il mio unico strumento per trasmettere i principi positivi che questo percorso infinito mi ha lasciato, e questo "Spazio" è l'Infinito che mi permette di condividerli. Ti andrebbe di proseguire questo cammino insieme? E ricorda: "la meta è partire" (Giuseppe Ungaretti).

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