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Higurashi e la decostruzione di un genere, Parte 1

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Higurashi e la decostruzione di un genere, Parte 1 1

Ormai lo sappiamo, i confini tra videogioco e film sono sempre più sottili: le produzioni Tripla A tendono sempre di più a ricercare il fotorealismo, il dettaglio grafico e la spettacolarità, a scapito di quei dettagli che dovrebbero in teoria caratterizzare il mezzo videoludico. Sembra diventato quasi impossibile raccontare una grande storia con mezzi esigui, una falsa verità che invece altri lidi come indie e produzioni minori hanno più volte smentito; una storia non deve necessariamente munirsi di budget stellari per raccontare qualcosa di valido.

Tra le centinaia di generi nei quali il videogioco moderno prospera, ne esiste uno che dimostra in maniera perfetta questo teorema e che in realtà non assomiglia alle produzioni cinematografiche ma bensì rappresenta l’anello di congiunzione con il medium letterario: la visual novel. Un genere spesso estremamente statico, che in molti reputano noioso, ma che ha più volte dimostrato quanto sia facile raccontare una grande storia. Non servono budget stellari e assetti tecnici da capogiro, ma bastano le idee.

higurashi

E di idee brillanti lo scrittore della visual novel Higurashi (nome completo Higurashi no Naku Koro ni), Ryukishi07, ne ha davvero tante. Talmente tante che Konami lo ha addirittura scelto per dare nuova vita a Silent Hill, mettendolo al timone del prossimo capitolo principale. Serviva qualcuno che “conosce bene l’horror giapponese”. Chi meglio di colui che ne ha prodotto uno dei principali esponenti?

Oggi sono qui per parlarvi dei primi 3 capitoli di Higurashi, il cosiddetto “Question Arc”, discutendone attraverso gli occhi di chi si sta addentrando nell’universo narrativo di Ryukishi per la prima volta. Tra decostruzione del genere della visual novel, momenti di pura genialità horror e atmosfere indimenticabili, è il momento di fare i nostri primi passi nel misterioso villaggio di Hinamizawa. Non parleremo del quarto capitolo, Himatsubushi, essendo estremamente corto e ben più improntato alla lore del mondo di Higurashi rispetto agli altri, che possono essere analizzati sotto più punti di vista.

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Attenzione, la lettura di questo articolo è sconsigliata a chi ha intenzione di leggere i primi 4 capitoli della visual novel di Higurashi, perché gli spoiler saranno tantissimi e molto netti. Inoltre, le tematiche che andremo ad affrontare sono particolarmente cruente.

L’anime, sebbene sia discretamente fedele al prodotto originale, è per forza di cose un qualcosa di strutturalmente diverso, perciò oggi prenderemo in esame solo la visual novel pubblicata nel lontano 2002 ed edita, nel corso degli anni, in tantissimi altri formati, anche grazie ad una fenomenale community di modder come la 07th-Mod.

Onikakushi, mentire è sempre possibile

È il 1983, e il giovane Keiichi Maebara vive in spensieratezza le sue prime settimane a Hinamizawa, minuscolo villaggio giapponese nel quale si è trasferito da poco con la famiglia. Frequenta una curiosa scuola, l’unica presente nel paesino, in cui studentesse e studenti di tutte le età vengono istruiti assieme nella stessa aula, e in cui la convivialità e la semplicità tipica della vita di campagna la fanno da padrone.

Facciamo la conoscenza di Rena, una ragazza dolcissima ma un po’ svampita, di Mion, una vera e propria forza della natura, di Satoko, una piccola furfantella amante degli scherzi, e di Rika, un’adorabile ragazzina con però più di qualche asso nella manica. Queste sono le compagne con le quali Keiichi passa giornate indimenticabili, e Higurashi sembra essere solo una semplice e banale storia slice of life.

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Il giocatore sa di trovarsi di fronte ad un horror, ma le prime ore di Onikakushi sono così tediose e ripetitive che quasi inizia a credere di star seriamente leggendo la storia, verosimile e pacata, di un gruppo di amici che cerca disperatamente di passare il proprio tempo in un villaggio che sembra essersi fermato nel tempo. Il giocatore sa che da qualche parte sta per andare tutto in frantumi. Lo sa. E quest’attesa lo snerva, perché l’agognato momento sembra non riesca mai ad arrivare.

Ed è proprio qui la prima magia che permette ad Higurashi di essere così magnetico: l’impazienza. Se inizialmente troverete gli scambi allegri di questo curioso gruppo di amici simpatici e sopportabili, ben presto comincerete a chiedervi se non si stia esagerando un po’. Hinamizawa è un paesino tremendamente fiacco, quasi immobile, che ingloba nella sua placidità tutti coloro che vi abitano. Ci si diverte, si passeggia nella natura, si respira un’aria frizzante e campagnola.

Se giocate a Higurashi con la 07th-Mod, e selezionate i suggestivi background originali, questa sensazione è ancora più forte: gli sprite e il testo si sovrappongono sopra a delle foto reali, fortemente modificate per potergli conferire una sorta di effetto blur. Ci si sente parte di questo paesino, che nella realtà si chiama Shirakawa-go, grazie anche alle magnifiche OST (anch’esse estremamente personalizzabili con la 07th-Mod), tanto semplici quanto atmosferiche.

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Il giocatore comincia ad associare con disarmante naturalezza gli sfondi alle location del gioco: il tragitto tra la casa di Keiichi e la scuola, tra Hinamizawa e il vicino centro urbano, tra la scuola e il santuario della città, e così via, proprio come siamo soliti fare nella vita vera. Higurashi ci insegna a conoscere non solo i personaggi, ma il villaggio stesso, che sembra a sua volta vivo ed interattivo.

Mano a mano che si va avanti, questa idilliaca realtà comincia però a scricchiolare: lentamente, ma inesorabilmente, proprio come la storia stessa di Hinamizawa. I giochi del gruppo di amici cominciano a diventare gradualmente più violenti, i dialoghi cominciano ad includere delle espressioni chiaramente fuori luogo, i segreti cominciano a venire molto timidamente a galla.

Con tono scherzoso, Keiichi comincia a parlare di “smembramenti”, di una quotidianità che vorrebbe “non cambiasse mai”, di cose che danno a queste scene così frivole e innocue un’altra prospettiva: qualcosa sta inquietantemente cambiando. Un esempio di foreshadowing da manuale, proprio perché è repentino; pare che da un momento all’altro inizino a succedere cose strane, e vengano dette cose che sembrano essere state spinte da un qualcosa di superiore e di imperscrutabile. Tutto comincia a quadrare quando Keiichi scopre che a Hinamizawa si è consumato un omicidio rivoltante, immondo, legato ad un progetto per la costruzione di una diga.

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I dettagli della vicenda, così come la consapevolezza che nel suo nuovo vicinato si sia consumato un atto così disdicevole, rendono Keiichi incredibilmente sospettoso delle sue amicizie. Ogni domanda riguardo l’omicidio viene snobbata da Mion e Rena, che sembrano quasi volerlo ignorare di proposito: cosa significa tutto questo? Cosa può pensare il giocatore di due personaggi che adesso cercano in tutti i modi di dissimulare un qualcosa di così atroce? Le convinzioni del lettore, che adesso sembra quasi rimpiangere quei momenti così noiosi ma spensierati di inizio capitolo, vengono smontate pezzo per pezzo.

Questa decostruzione non vive di scene particolarmente cruente e violente, ma si nutre dello stato mentale di Keiichi, che col passare del tempo diventa irriconoscibile. La sensazione che si prova durante la lettura di Onikakushi è indescrivibile: in moltissime scene avevo letteralmente paura di scorrere il testo del gioco. Non perché mi aspettassi chissà quali scene jumpscare, totalmente assenti, ma perché sentivo il peso di un’aria che si faceva sempre più aspra.

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Sentivo il peso di un costante e inesorabile senso di alienazione, il peso di doversi confrontare con delle persone che stanno deliberatamente mentendo e con le quali Keiichi dovrà passare svariate ore a scuola facendo finta di niente. Quando Keiichi scopre da Ooishi, detective della zona, che tutte le sue amiche sono in qualche modo collegate ad una serie di disumani omicidi che tormenta Hinamizawa da svariati anni, e che proprio in occasione del recente Festival del Watanagashi, molto atteso dalla comunità locale, se ne sia consumato un altro dai contorni nauseanti, le cose prendono una piega ancora più usurante per la sua salute mentale.

Anche Keiichi comincia a mentire. Non dice nulla dei suoi contatti con Ooishi, della sua sempre più insopportabile condizione, della distruzione della quotidianità alla quale anche i giocatori si stavano abituando. Nel bene o nel male, sta facendo lo stesso gioco delle sue amiche. Ci possiamo fidare di lui, dunque? Se la prerogativa per potersi fidare di Mion e Rena viene meno nel momento in cui iniziano a mentire, possiamo dire lo stesso di Keiichi? Se è vero che i misteriosi omicidi di Hinamizawa sono terrificanti, è anche vero che non possiamo effettivamente essere certi che Keiichi non stia cominciando ad immaginare cose che il giocatore prende per reali.

Se Keiichi è in grado di mentire e di tenere nascoste le cose come le sue amiche, di cos’altro potrebbe essere capace? Cosa sta realmente accadendo nelle pieghe della sua psiche? Gli incontri con Rena e Mion diventano carichi di tensione: le scene sono sempre più insopportabili, inquietanti, logoranti, e diventa imprevedibile capire che cosa possa succedere dopo e, soprattutto, dove finisce il campo della realtà e dove inizia quello del delirio di Keiichi, sempre più incapace di razionalizzare la sua situazione.

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Non è difficile capire che la decostruzione non avviene solo in merito a ciò che il giocatore pensava di sapere su Hinamizawa, ma anche in merito all’identità di Keiichi. In una scena terrificante, la migliore del capitolo, una Rena irriconoscibile e quasi mostruosa urla improvvisamente a Keiichi con un tono demoniaco, accusandolo di essere a sua volta menzognero: possiamo veramente dire che non è così? Keiichi sta mentendo. È un dato di fatto. Il segreto che nasconde è meno grave di quello che stanno nascondendo le sue amiche, ma è pur sempre un segreto. Tra amici dovrebbero esserci segreti? Dov’è finita quella spensierata vita di campagna che tanto sembrava annoiarci e che ora quasi desideriamo nuovamente?

Questo è forse uno dei picchi più alti mai toccati dal genere delle visual novel horror. Gli altri capitoli sono altrettanto validi, ma il lavoro che fa Onikakushi è semplicemente magistrale nell’apparecchiare la contorta trama del resto della novel; è palese come Hinamizawa sia un posto indecifrabile, fermo nel tempo, in cui aleggia un qualche mistero che spinge i personaggi ad agire in un certo modo non appena il vaso di Pandora viene aperto.

Non capita spesso di sentirsi spaventati ed intimoriti da un gioco così statico, ma Higurashi ci riesce alla perfezione, instillando un viscerale terrore in attesa di sapere che cosa succederà dopo. Una sorta di analisi del senso di alienazione che tante volte proviamo, incapaci ormai di fidarci dei nostri simili, il tutto mentre respiriamo l’aria di un paesino apparentemente tranquillo che, di punto in bianco, diventa acida e viscosa.

Watanagashi, il peso della tradizione e delle apparenze

Un’altra brillante idea di Higurashi è quella di ricominciare da capo quando il giocatore meno se lo aspetta. La prima domanda che, tendenzialmente, ci si fa alla fine di Onikakushi è una sola: adesso cosa succede, dopo un capitolo in cui sembra già accadere di tutto? La risposta è semplice: le stesse cose. La narrazione torna indietro nel tempo, e veniamo nuovamente catapultati nei giorni che anticipano il festival del Watanagashi, quando tutto sembra ancora normale. Siamo in una realtà alternativa o qualcosa di ben più oscuro?

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Watanagashi si apre con un copione assolutamente diverso nel concatenarsi degli eventi ma simile nelle atmosfere: Keiichi è felice, Hinamizawa è un posto tranquillo e le giornate scorrono senza troppi problemi. Il tutto inizia con un torneo di giochi da tavolo organizzato da Mion, che improvvisamente torna ad essere la solare e vulcanica ragazza che sembrava, ormai, destinata a rimanere solo un ricordo. Questo torneo rimane senza vincitore, ma il gestore del locale decide comunque di dare un “premio di consolazione”, un pupazzo, a tutti: Keiichi sceglie di regalarlo a Rena e non a Mion, che reputa “troppo poco femminile”. Il disastro inizia qui.

A differenza di Onikakushi, dove ci si sente semplicemente vittime del flusso flemmatico degli eventi, qui l’antefatto è palese: sebbene il giocatore sappia che non ci si possa fidare di nessuna delle due, Keiichi non dovrebbe esserne ancora al corrente, quindi perché questa dichiarazione potenzialmente offensiva? Una cosa apparentemente minuscola che in realtà inizia già a muovere gli ingranaggi che porteranno all’ennesimo stallo psicologicamente insopportabile.

Casualmente, nei giorni successivi, Keiichi fa la conoscenza di Shion: una ragazza incredibilmente simile a Mion, anzi, quasi identica, che lavora come cameriera in un ristorante di un centro abitato vicino a Hinamizawa. Credendo di trovarsi al cospetto di Mion, Keiichi scopre ben presto che Shion esiste davvero, che le due ragazze dai capelli verdognoli sono gemelle e che è ancora più scherzosa di Mion. Le risate finiscono qui, e il ciclo di terrore tipico di Higurashi ricomincia.

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Nel giorno del Watanagashi scopriamo il passato oscuro di Hinamizawa, e di quanto le apparenze possono ingannare: con il favore delle tenebre e del trambusto generato dalle celebrazioni Keiichi, Shion, Tomitake e Takano, i due personaggi che nello scorso capitolo rivelano al protagonista l’omicidio della diga e il misterioso folklore del villaggio, si intrufolano nel magazzino rituale del tempio locale. Non trovano solo oggetti cerimoniali e polvere, no. Trovano ben altro.

Trovano lame contorte e rivoltanti, precisi strumenti di tortura, l’odore stantio di una stanza che doveva rimanere chiusa; il tutto si intreccia con la storia di Hinamizawa. Un villaggio che, un tempo, si chiamava Onigafuchi e che, secondo la tradizione, era popolato dai demoni. Hinamizawa ha ancora a cuore la sua inquietante divinità protettrice, Oyashiro-sama, la cui maledizione sembrerebbe essere la causa degli omicidi e delle sparizioni che ogni anno avvengono nella zona: il villaggio ha dunque dei nemici, identificati nelle entità straniere o esterne che possano turbare la sua pacifica esistenza.

Un tradizionalismo forte, dalle sfumature isolazioniste, che diventa immediatamente il doppio binario sul quale viaggiano i tantissimi misteri del gioco: Hinamizawa cerca di eliminare attivamente ciò che percepisce come diverso. Se la maledizione fosse solo una copertura? E se questo forsennato bigottismo fosse ciò permette agli abitanti di coprirsi a vicenda, e di perpetrare crimini atroci che vengono invece enigmaticamente attribuiti ad un qualcosa di divino, come Oyashiro-sama? Possiamo davvero fidarci di una singola persona di Hinamizawa?

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Quando il lettore fa questa realizzazione sente sempre più intensamente la paranoia che si cementifica nella sua psiche, in maniera più consolidata rispetto al pur spaventoso primo capitolo: diventa sospettoso di qualunque cosa legga e veda, proprio come Keiichi, che rimane però estremamente dubbio a sua volta andando avanti con la lettura. Insomma, non esiste un punto di riferimento, una cosa inaudita in una forma narrativa, quella della visual novel, che vive di testi e supposizioni fatte dal protagonista, che appare però sempre più inaffidabile.

Ancora una volta, il Festival è l’inizio della psicosi: Takano e Tomitake muoiono in circostanze rivoltanti, e a queste tragedie si aggiungono ulteriori sparizioni che coinvolgono il circolo più vicino a Keiichi. Il protagonista confessa a Rika di essere entrato nel magazzino sacro, la ragazzina sparisce poco dopo assieme a Satoko, e Keiichi cade in un vortice di disperazione: il culmine è la scomparsa di Shion, con la quale condivideva il trauma di aver scoperto qualcosa di terrificante. È lui la chiave di tutto? Ha attirato su di lui e sulle sue amicizie l’ira della maledizione di Oyashiro-sama per aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere? Ma soprattutto, che cos’è questa maledizione? Esiste veramente?

Ben presto, tutti i dubbi iniziano a convergere su Mion: Ooishi torna in scena, informando nuovamente Keiichi dei misteri di Hinamizawa. Stavolta ad essere dipinta come la cattiva è solo Mion, che attraverso la sua famiglia – i Sonozaki – esercita un potere quasi dittatoriale sulla zona. Mion che si comporta stranamente, nasconde qualcosa di grosso; sembra quasi posseduta da un mostro quando Keiichi si mette alla ricerca di Rika. Riesce addirittura a fingersi Shion per ben due giorni dopo averla rapita, lasciandosi andare in una risata demoniaca, che mai avremmo potuto immaginare, non appena viene scoperta.

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In una delle scene più emozionanti di Higurashi, Mion confessa tutto: il suo coinvolgimento negli omicidi e nelle sparizioni, la sua brutalità che la logora, la sua disperazione che la imprigiona. Non può fare altro, è un demone; la sua è una storia fatta di tradizionalismo, di compiti che la sua famiglia ha addossato a lei per pura legge di discendenza. Mion deve proseguire quello che i Sonozaki, una cellula della Yakuza, fanno da sempre, ovvero l’eliminazione dei nemici di Hinamizawa e la prosecuzione della sua sanguinaria storia, fin dai tempi in cui si chiamava Onigafuchi, l’abisso dei demoni.

Certo, non ci viene chiesto di diventare dei sanguinari assassini come nel caso di Mion, ma quante volte abbiamo dovuto far valere le nostre volontà contro quelle dei nostri genitori? Quante volte abbiamo dovuto spiegare il perché delle nostre scelte a persone che sono sempre pronte ad imporre la loro visione e a scegliere il nostro futuro? Non è difficile immaginare che in molti si siano potuti rispecchiare nella storia di una ragazza che si ritrova costretta a dover fare un qualcosa solo perché “lo vuole la famiglia”.

C’è quello studente di giurisprudenza che mai avrebbe voluto imparare a memoria il codice civile, e che si ritrova costretto a farlo perché “lo vuole papà”, oppure c’è quest’altra ragazza non amante dello studio e che vorrebbe subito mettersi in gioco lavorando, costretta però a proseguire gli studi. Ripeto, la casistica di Mion è ben più brutale, ma la sofferenza è simile, ed è l’ennesimo grande colpo di Ryukishi che assottiglia le linee tra finzione e realtà. Higurashi è una storia brutale, che racconta tanto di noi.

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Onikakushi racconta la nostra irrequietezza esistenziale e il terrore che la distruzione di una routine causa, Watanagashi racconta le nostre lotte contro le pressioni sociali di chi ci vorrebbe imporre il volere di altri, e il peso che la tradizione può avere. A mente fredda, e cioè dopo aver completamente assorbito la paura di una prima e superficiale lettura, Higurashi appare come una brillante e sottile critica e analisi sociale verso numerosissimi aspetti della società giapponese.

Il cerchio sembra chiudersi quando Keiichi, alla fine di Watanagashi, vede Mion fuori da casa sua. Una cosa che non sarebbe dovuta essere possibile, perché la ragazza stava scappando dalla polizia dopo un ultimo, drammatico raptus di violenza: sceglie di dargli quel maledetto pupazzo di inizio capitolo, una delle cause del deterioramento della sua salute mentale. Sceglie di fidarsi di una dichiarata serial killer, e ne paga le conseguenze. Viene accoltellato, quasi a morte.

In ospedale, Ooishi gli chiede come sia possibile il suo racconto: il corpo senza vita della latitante, infatti, era stato già ritrovato, e la morte sarebbe avvenuta prima dell’accoltellamento di Keiichi. Il capitolo si chiude così, con una realtà sempre più paradossale, sempre più misteriosa, nella quale diventa virtualmente impossibile discernere la realtà dei fatti dai deliri del protagonista e degli altri personaggi, il vero filo conduttore di Higurashi.

Tatarigoroshi, l’oggettivazione di un trauma

Il capitolo più pesante e duro da leggere è sicuramente Tatarigoroshi, incentrato su Satoko. Anche qui, la narrazione torna indietro; i drammi, però, iniziano ben prima del festival. La ragazzina, il cui fratello e i genitori sono scomparsi gli anni precedenti, trova in Keiichi una figura fraterna.

I due legano come mai avevano fatto prima d’ora negli altri capitoli, perché Keiichi apprende da Rika quando sia stato doloroso per Satoko crescere senza alcuna figura familiare, in particolare senza un fratello, e questo lo porta a sviluppare una sorta di affetto difficile da descrivere, quasi come se si volesse sostituire a suo fratello. Satoko lo nota, e sembra stare al gioco; il bellissimo e fragile castello di carte dura però molto poco.

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Giunge voce, infatti, che uno zio di Satoko particolarmente violento e abusivo sia tornato a Hinamizawa, e che abbia forzatamente costretto la nipote a vivere in casa con lui come una schiava. Satoko comincia a non venire a scuola, e Keiichi sembra impazzire nella consapevolezza di non poter aiutare la sua sorellina acquisita; questo perché Satoko l’anno precedente era stata già vittima – assieme al fratello – di abusi domestici da parte di un’altra zia, e la scorsa denuncia alle autorità competenti era andata nel vuoto a causa delle numerosissime prassi previste dalla legislazione giapponese in merito.

Il contesto della madre di Satoko e il suo patrigno, morti in un incidente che gli abitanti ricollegano alla maledizione di Oyashiro-sama a causa del loro supporto al progetto della diga, è quello in cui iniziano i problemi di natura psicologica per Satoko; la ragazzina odiava particolarmente il suo patrigno, e inscenò una serie di presunti abusi al solo fine di separarsene. Sebbene non siano avvenuti, non è da sottovalutare la sottile critica che il gioco pone all’usanza fin troppo comune nel mondo orientale e occidentale di piazzare i figli a destra e a sinistra – anche in famiglie allargate non pienamente riconosciute come le proprie – senza fermarsi e domandarsi se al bambino vada effettivamente bene.

Non ci si è chiesti perché Satoko abbia sentito il bisogno di mentire per allontanarsi dal patrigno, ma si è solo osservato il fatto che questi abusi non siano mai accaduti, senza pensare che forse qualcosa di malato nel rapporto familiare di Satoko c’era eccome. La bimba diventa un oggetto, perché dopo la morte della madre e del patrigno viene affidata agli zii, che a differenza del patrigno sono fortemente violenti e abusivi: Tatarigoroshi ruota proprio attorno alla oggettificazione di un trauma, quello di Satoko, che viene vista più per ciò che ha fatto e ciò che fa piuttosto che per la sua anima fortemente provata.

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A riprova di ciò c’è una realtà che Keiichi apprende, e che sciocca fortemente anche il lettore: se la prima denuncia di abusi da parte di Satoko era un atto di ritorsione contro il patrigno, ciò significa che la seconda denuncia che Satoko fa nei confronti della zia l’anno successivo va a vuoto proprio perché le autorità sospettano di una ragazzina che ha precedentemente osato fingere senza che nessuno se ne chiedesse il motivo, e di conseguenza una terza denuncia nei confronti dello zio appena tornato sarebbe ancora più inutile.

Questo è il dramma che ingloba Tatarigoroshi, che dispera in maniera molto più cruenta rispetto al resto di Higurashi. La pigrizia istituzionale e l’oggettificazione di Satoko non rendono possibile un intervento per vie legali, perché il sistema è fatto appositamente per proteggere i nuclei familiari difettosi come quello di Satoko, che viene ridicolizzata e che si ritrova costretta a dover scontare la pena di un errore fatto, forse, non poi così casualmente.

Il capitolo mette in mostra in maniera magistrale quanto distruttivo e doloroso sia essere un bambino senza alcun potere e senza alcuna possibilità di ribellarsi ad un sistema che protegge in maniera così ferrea gli abusi su minori. Se è vero che Satoko la prima volta ha mentito, come è possibile che per la denuncia successiva le autorità abbiano ritenuto ragionevole non ascoltare una presunta menzognera, e piuttosto fidarsi di un presunto abusatore? Com’è possibile prendere le difese di una persona che ha potenzialmente abusato di una bambina, piuttosto che quelle di una bambina che ha potenzialmente solo detto una bugia?

Per l’ennesima volta, però, tocca farsi una domanda: possiamo fidarci di Keiichi? Sebbene stavolta non stia mentendo come in Onikakushi e non stia dando prova di una serie di facoltà cognitive compromesse come in Watanagashi, il protagonista fa qualcosa di ben peggiore; è a sua volta tremendamente strumentalizzante nei confronti di Satoko stessa. Questo perché nella sua disperazione è estremamente superficiale nel ricercare un approccio plausibile per salvare Satoko; insomma, sembra quasi voler fare la figura dell’eroe, seppur inconsciamente.

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Si palesa fin da subito il fatto che Keiichi creda fermamente all’esistenza di una soluzione unica e immediata, prendendo sottogamba le implicazioni legali, morali ed etiche di un caso di abusi su minore. Propone di farla fuggire dallo zio e di accoglierla in casa sua, si arrabbia brutalmente con le sue amiche quando queste si dimostrano più esitanti rispetto alla sua precipitosità, diventa tremendamente irascibile: anche Keiichi non fa altro che vedere Satoko per ciò che fa, per le sue assenze, per i suoi atteggiamenti palesemente turbati dalla sua condizione.

Keiichi idealizza Satoko come la semplice vittima perfetta, in balia di una forza maggiore che è sufficiente rimuovere per tornare felici e contenti. Non considera il fatto che questi abusi lasceranno, con tutte le probabilità, una ferita inguaribile nel cuore di Satoko, non considera la sofferenza eterna che una situazione del genere può causare. Non basta “rimuovere il dente cariato” come sostiene Keiichi, non basta allontanare Satoko dalla natura materiale degli abusi. Satoko soffrirà forse per sempre, è presa in giro da un sistema fallato e ha subito una quantità di abusi talmente elevata da impedirle un normale funzionamento da essere umano.

Questo diventa bruscamente chiaro quando, in una delle poche volte che Satoko va a scuola, reagisce in modo violento e malato ad una carezza di Keiichi. Non esistono parole adatte per descrivere il pietoso spettacolo che si para di fronte agli occhi del giocatore, e non esiste niente di più disturbante in tutto Higurashi: Satoko impazzisce, smette di comportarsi razionalmente e diventa incontrollabile tra urla, pianti e sofferenze fisiche e psichiche, una scena che pone un serio interrogativo sulle possibilità che la ragazzina ha di potersi anche solo riprendere da un trauma simile nel corso della sua vita.

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Keiichi è uno spettatore. Prova a razionalizzare la cosa, ma non ci riesce: viene sgridato da una Rena indemoniata, che sembra essere tornata quella di Onikakushi. Lo critica bestialmente per essere così ingenuo. Keiichi, alla fine della fiera, è un privilegiato; vive in una grande casa, i suoi genitori sono dei borghesi e si trova in un ambiente sano. Non riesce fisicamente a vedere oltre l’abuso, oltre l’idealizzazione di una vittima. Non è solo un problema di rimuovere lo zio o di sostentare Satoko economicamente, ma è anche e soprattutto una questione di cura, di affetto, di premura.

Satoko deve guarire da un trauma generazionale, e non può farlo in poco tempo. Keiichi fa tremendamente fatica a capirlo: tutti cercano di dirgli che sì, la situazione è dannatamente complicata e che no, essere avventati non è soluzione. A Keiichi non interessa, e anzi diventa sempre più scontroso con le sue amiche e chi lo circonda. Vuole fare l’eroe, e invece fa la figura del cattivo. Non considera Satoko nella dimensione di essere umano, ma solo in quella di bambina abusata. L’incapacità di introiettare tutto questo porta ad un epilogo drammatico.

Sceglie di uccidere lo zio di Satoko. Lo fa con una tale lucidità mentale da instillare nel lettore una sorta di angoscia nei suoi confronti: architetta il piano, pensa a centinaia di variabili, si muove come un serial killer. È lui il personaggio da temere in Tatarigoroshi. Non è lo zio di Satoko, pur sempre un uomo spregevole, e non è certamente la maledizione di Oyashiro-sama. È lui, in tutta la sua visione oggettivante del dramma di Satoko e nella sua reiterata freddezza da killer spietato.

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La sua panoramica malata della situazione si sublima nel momento in cui si autoconvince che uccidere lo zio sia la soluzione più rapida per risolvere i problemi della sua amica. Keiichi gli fracassa le ossa con una mazza da baseball, agendo come una macchina costruita per uccidere. La sua incapacità di razionalizzare la storia di Satoko lo porta a macchiarsi del crimine più atroce, con il quale gli uomini cercano di equipararsi ad un dio, e cioè l’omicidio. La vittima è sì un reietto della società, ma le conseguenze del gesto si vedono dopo.

Questa storpiatura della sua psiche è per estensione una delle tante cause che l’atto criminoso può avere nella realtà; non è così comune vivere la formazione di un pensiero omicida in prima persona con la stessa introspezione di questo capitolo. Una riflessione irrazionale, un connubio di presunzione e convinzione di poter essere perdonati perché “il fine giustifica i mezzi”, una forza disumana che sembra irrorare i nervi e i muscoli del corpo umano quando una mente corrotta sceglie di togliere la vita ad un altro essere umano.

È questa mente corrotta che porta Keiichi a credere di aver fatto la cosa giusta, e che contemporaneamente lo lancia in una serie di maledizioni verso le più disparate persone, colpevoli solo di aver incrociato il suo sguardo. Prega per la morte di Takano, che teme possa essere una possibile testimone del suo crimine, prega per la morte di Ooishi, che in questo capitolo è suo nemico e che sospetta fortemente di lui, e prega per la morte di Irie, un medico della zona al quale confessa tutto.

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Muoiono tutti subito dopo le sue maledizioni, in circostanze misteriose; una serie di coincidenze, che però Keiichi vede come un risultato dei suoi desideri. Il suo spirito è ormai turbato dalla sete di sangue. Non pensa neanche per un secondo che le morti di tutte queste persone possano essere una semplice coincidenza: è convinto di averle uccise lui con le sue esecrazioni. Keiichi, ormai, si considera solo nella sua entità di omicida, e si esamina come una divinità con il portentoso potere di decidere chi far morire.

Diventano vere, dunque, tutte le considerazioni fatte su come sia un narratore clamorosamente sospetto e poco attendibile. Se prima questa inaffidabilità passava per l’incertezza di ciò che Keiichi vedeva e raccontava, adesso passa per la paura che il lettore ha di lui. Le sue amiche ricordano chiaramente di averlo visto al Festival la sera in cui si suppone sia stato perpetrato l’omicidio, mentre Satoko sostiene che suo zio sia ancora vivo e che non si sia mai allontanato dalla loro abitazione. Chi sta dicendo la verità e chi no?

Dal punto di vista del lettore la realtà è solo una: Keiichi ha ucciso lo zio di Satoko. Punto. Lo ha letto. Si è calato nella sua psiche, nei suoi deliri, nelle sue violente maledizioni che sembrano avverarsi, e non può più fidarsi di lui per nessun motivo al mondo. Tutto quello che sostengono gli altri personaggi ai nostri occhi non ha più senso, perché possiamo solo analizzare le azioni di Keiichi.

Questo drammatico capitolo termina quando Keiichi dice tutto a Satoko: una serie di fraintendimenti porta la ragazzina ad essere terrorizzata dalla persona che ha davanti, perché vede solo un assassino spietato, e nella sua testa l’immaginario di “fratello acquisito” va in frantumi. Keiichi ora è isolato, e la persona che ha ciecamente e superficialmente cercato di aiutare lo ripudia. Satoko è una ragazzina malata, turbata, e nonostante tutto Keiichi era ciecamente convinto di poterla aiutare da solo trasformandosi in un killer, senza dar peso al contorno della situazione.

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Dopo una trafila di scene disturbanti, difficili da guardare e particolarmente impattanti, la vera identità di Keiichi viene a galla: la sua sete di sangue è più viva che mai. È bastato un solo crimine per trasformarlo in una persona capace di pensare quasi esclusivamente alla morte: dopo le tante maledizioni lanciate a destra e a manca, l’oggetto del suo fatale vaticinio diventa Hinamizawa intera. Sviene e si sveglia giorni dopo, scoprendo che il villaggio è stato inghiottito da alcune nubi tossiche provenienti dal sottosuolo, e che l’intera popolazione è stata sterminata in quello che è noto come “Il Grande Disastro di Hinamizawa”.

Tatarigoroshi capovolge, magistralmente, l’ordine di Higurashi; adesso il lettore si immedesima in colui che viene considerato come il cattivo, e non vede l’ora che il capitolo finisca non perché sia fatto male, ma perché seguire una vicenda del genere attraverso i suoi occhi è inaspettatamente complesso. La superficialità di Keiichi lo porta alla catastrofe, lo porta a collegare le morti ed il disastro di Hinamizawa alle sue maledizioni, un peso insostenibile per la sua mente che ben presto si sgretola, portandolo ad essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico.

Un capolavoro narrativo

Higurashi è capace di raccontare una storia complessa, intricata e intellegibile con una lucidità incredibile, muovendosi lungo due binari: la decostruzione del medium della visual novel e la critica sociale. Ryukishi sembra giostrarsi in maniera pazzesca tra tematiche pesanti, anzi pesantissime, senza mostrare un briciolo di pietà, e forse è proprio questo il motivo dietro la qualità ed il successo di Higurashi.

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Le domande che i primi capitoli di Higurashi lasciano sono tantissime, così come le analisi che è possibile estrarre da un prodotto così stratificato. Le risposte ci attendono nella seconda parte dell’opera, gli Answer Arcs, i quali – se vorrete – analizzeremo di nuovo su queste pagine. Fino ad allora, però, ricordatevi sempre che a Hinamizawa non ci si può fidare di nessuno.

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Higurashi e la decostruzione di un genere, Parte 1 6

Eterno amante di astronomia e di videogiochi, Matteo è cresciuto con un gamepad in una mano e con una carta celeste nell'altra. Cerca sempre di scoprire cose nuove su di lui e sui suoi gusti esplorando decine di generi. Con gli anni ha riscoperto anche una forte passione per la letteratura, la musica, la tecnologia e per la cultura orientale, in particolar modo cinese, oggetto del suo percorso di studi in Lingue e Letterature. Trova sempre un legame tra quello che interessi così diversi riescono a raccontare, nella maniera più personale possibile.

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