Recensioni

Doom: The Dark Ages, la recensione: il souls dei boomer shooter?

Devo essere onesto, il sottogenere dei boomer shooter non è mai stato qualcosa di particolarmente affine ai miei gusti: sin dai tempi della prima Xbox ho sempre preferito modelli e strutture FPS che, pur rimanendo di stampo arcade, risultavano più calcolate e meno dinamiche, come Halo e Call of Duty.

Questa prospettiva, però, venne ampiamente alterata con il reboot di Doom del 2016, con Doom Eternal e con i due DLC di quest’ultimo, The Ancient Gods Parte 1 e Parte 2, del quale trovate le recensioni su queste pagine.

Quelli che attualmente ritengo i due grandi capolavori di ID Software mi fecero esplodere di divertimento e soddisfazione, facendomi passare decine e decine di ore a massacrare infinite orde di demoni a suon di pallottole, cazzotti e chi più ne ha più ne metta, al punto da rendere l’ultimo capitolo, chiamato Doom: The Dark Ages, una delle opere che più ho atteso nell’ultimo paio di anni.

Quindi, sono ritornato con estremo piacere nei panni del Doom Slayer, con la carica di un bambino al quale è stato appena regalato un nuovo giocattolo.

Ecco a voi la recensione di Doom: The Dark Ages.

Le origini della leggenda

Il tutto ha inizio sul pianeta Argent D’nur, luogo nel quale l’apocalittica guerra tra umani e demoni sembra imperviare da tempo immemore.

Le audaci sentinelle del Re Novak e del comandante Tirah si ritrovano all’improvviso schiacciati e pressati dalle infernali truppe del principe Ahzrak, determinato ad entrare in possesso del Cuore di Argent, un antico manufatto dai poteri talmente straordinari da trasformare chiunque ne entri in possesso in un dio.

Data la situazione critica sul campo di battaglia, il Re si ritroverà a chiedere aiuto al vescovo Kreed Maykr, in quanto in possesso di una formidabile arma anti-demone, un asso nella manica da tirar fuori nelle situazioni più disperate.

Ebbene, non si tratta di un qualche artefatto magico o di chissà quale spada leggendaria, bensì di qualcosa di ben più mostruoso e devastante: si fa chiamare lo Slayer, ed è una creatura semiumana corazzata ed armata fino ai denti dalle origini misteriose, il cui solo nome e la cui fama risultano talmente spaventosi da incutere timore non solo tra le linee nemiche, ma anche tra quelle alleate.

Grazie alle incredibili tecnologie aliene del suo popolo, Kreed riesce a “tenere in gabbia” lo Slayer tramite un dispositivo chiamato Tether, così da controllarne le volontà e sfruttarlo a suo piacimento.

Così, lo Slayer verrà sguinzagliato e teletrasportato dalla fluttuante astronave Maykr direttamente sul campo di battaglia: qui inizierà la nostra nuova epopea nei suoi imponenti panni.

In termini di pura collocazione temporale, Doom: The Dark Ages si pone come prequel agli eventi di Doom Eternal e del reboot del 2016, con l’intenzione di esplorare un po’ più a fondo il passato dello Slayer e raccontando, nel frattempo, un altro fondamentale segmento della guerra tra umani e demoni.

A differenza dei due capitoli usciti in precedenza, che non si perdevano in chiacchiere e preferivano dare una valenza narrativa alla lore più che agli eventi di gioco, in questo caso la prima cosa che salta all’occhio è la volontà da parte degli scrittori di dare maggiore enfasi all’esposizione diretta delle vicende, proponendo un maggior numero di eventi, colpi di scena, dialoghi e cutscene varie.

Nonostante vada notato ed apprezzato questo impegno, va detto che la trama di Doom: The Dark Ages non riesce in pressochè alcun caso a risultare effettivamente interessante o d’impatto.

Si nota sin da subito che questo mondo di gioco non si adatta quasi per nulla a quel genere di focus, al punto da fallire clamorosamente nel dare ai nuovi personaggi e, soprattutto, al nemico principale un carattere ed una personalità degni di nota, finendo per farli risultare delle semplici macchiette del tutto prive di profondità.

A ciò si aggiunge una mancanza di consistenza negli elementi di immersività narrativa, dalla regia delle cutscene alla scrittura dei dialoghi, che non riescono mai a farsi prendere troppo sul serio ma risultano, al contrario, degli intermezzi del tutto innecessari e, anzi, indesiderati.

Uno Slayer più in forma che mai

Le cose cambiano in maniera abbastanza drastica in tutti quei casi nel quale le vicende si concentrano sulle gesta dello Slayer: ebbene, la sua figura buca lo schermo ogni volta che appare, facendolo uscire vincente da ogni scena grazie alla sua sola presenza e al suo glaciale silenzio, in grado di riempire di tensione l’atmosfera molto di più di qualunque parola.

Basta un’azione qualsiasi, un passo, un movimento, un gesto o anche solo uno sguardo, così penetrante da trapassare l’elmetto, da far passare tutto il resto in secondo piano, riconquistandosi così in un batter d’occhio l’assoluta centralità delle attenzioni.

Anche a livello puramente visivo e di character design, questa nuova rivisitazione estetica dello Slayer è semplicemente spettacolare: lo scudo, il mantello in pelle e la mazza chiodata sprizzano medioevo da tutti i pori; ma non un medioevo qualsiasi, quello brutale e spietato, che esprime sangue, violenza e cattiveria.

A onor del vero, va detto che l’intera produzione punta verso quella direzione artistica specifica, dalle ambientazioni, alle creature, alle armi e all’aspetto costumistico generale, ma di ciò ve ne parlerò meglio in uno dei prossimi paragrafi.

Per concludere il discorso sulla componente narrativa, non posso sicuramente ritenermi chissà quanto stupito o coinvolto positivamente da questo nuovo approccio alla trama, in quanto si nota la mancanza di confidenza di ID Software con l’esposizione del racconto.

Al contempo, nonostante i suddetti sforzi, l’elemento di coinvolgimento principale è stato quell’inconfondibile stile tamarro e caciarone che “dirige” la regia ed il mood generale, ancora una volta di grande impatto e, soprattutto, profondamente rappresentativo della saga.

Un tripudio di mazzate (in tutti i sensi)

A livello di gameplay, Doom: The Dark Ages torna a riproporre quella formula da boomer shooter che tanto avevamo amato nei primi capitoli, ma con tutta una serie di differenze – anche abbastanza sostanziali – da renderlo in un certo senso una deviazione di percorso.

In tal senso, la grande novità principale introdotta in questo nuovo capitolo è rappresentata dallo scudo.

Con esso potremo fare praticamente di tutto, lanciarlo per falciare i nemici più semplici e stordire quelli più tosti, effettuare delle poderose cariche in grado di infliggere ingenti danni ad area ma anche, ovviamente, difenderci dagli attacchi nemici.

Se la mossa difensiva base è rappresentata dal semplice sollevamento dello scudo da usare come riparo, il suo vero, principale e fondamentale utilizzo risiede nel parry.

Tralasciando gli attacchi base, praticamente tutti i colpi nemici, sia quelli corpo a corpo che quelli dalla distanza, potranno essere di colore rosso o di colore verde.

Se primi dovranno essere obbligatoriamente parati con lo scudo alzato o deviati fisicamente, i secondi potranno essere parryati, non solo per evitare i danni ma anche e soprattutto per respingerli al mittente, ed effettuare, di conseguenza, un potente stordimento.

Questa meccanica risulta a dir poco preponderante nell’economia generale dei combattimenti, specialmente considerando la numerosa quantità dei nemici e l’alta frequenza dei loro attacchi: in molti casi, saremo persino costretti a ricorrere ad esso, in quanto sarà necessario per distruggere alcune corazze e rendere di conseguenza vulnerabile il bersaglio.

Ovviamente, non sarebbe Doom senza le armi da fuoco: durante l’avventura ne troveremo di molteplici, come fucili, pistole al plasma, lanciagranate, sparachiodi ecc., e avranno utilizzi e applicazioni specifiche.

Inoltre, ognuna di esse avrà una sua “versione alternativa”, che andrà a proporre modalità di fuoco, cadenza e caratteristiche varie leggermente diverse.

Ovviamente, toccherà a noi e a noi soltanto capire come sfruttarne le potenzialità contro le unità nemiche: queste ultime andranno a proporre un buon assortimento di demoni inediti per la saga – alcuni dei quali davvero coriacei – mentre altri, quelli storici come il Mancubus, il Revenant, il Cacodemon o l’Arachnotron sono stati leggermente rivisitati e avranno a loro disposizione nuove temibili mosse.

Alcune armi e modalità di fuoco saranno più efficaci contro alcuni di essi: giusto per fare qualche esempio, con il fucile al plasma potremo far “esplodere” gli scudi energetici, mentre con i colpi “pesanti” potremo indebolire le corazze dei nemici più resistenti fino a farle diventare incandescenti, per poi distruggerle del tutto tramite il lancio dello scudo.

A ciò si aggiunge l’attacco corpo a corpo “semplice”, anch’esso disponibile in tre versioni differenti, e sarà necessario per ripristinare le munizioni delle nostre armi.

Quindi, l’insieme di questi elementi e delle loro specialità creano un ciclo di gameplay ben definito, che, in base all’arena e al tipo di scontro che ci attende, ne definisce i ritmi ed il flusso dell’azione.

“La terra trema al suo passaggio!”

In tal senso però, Doom: The Dark Ages rinnega del tutto la spettacolare dinamicità di Doom Eternal in favore di un approccio più brutale, fisico e “con i piedi per terra”: ogni mossa e ogni movimento fanno sentire la pesantezza di uno Slayer che, rispetto alla rapida e leggiadra “farfalla” che era in Doom Eternal, sembra in tutto e per tutto un carro armato semovente.

Nonostante ciò, i combattimenti riescono comunque ad avere una loro “velocità”, i nemici saranno aggressivi e ci attaccheranno senza sosta, al punto da costringerci a muoverci e a difenderci con altrettanta rapidità.

Di conseguenza, anche le arene non avranno neanche lontanamente la strutturalità verticale di quelle di Doom Eternal, bensì saranno più ampie e “larghe” in termini di pura estensione.

Il risultato è sicuramente qualcosa di divertente, spettacolare ed ampiamente galvanizzante, da un lato per una componente shooting ancora una volta eccezionale e dall’altro per l’integrazione dello scudo, la quale multifunzione aggiunge un importante strato di profondità nella ciclicità delle azioni, e nel conseguente approccio al livello di sfida.

Tutto diventa ancor più esaltante una volta ottenute le Rune: si tratta di perk speciali relativi allo scudo, che, alla corretta esecuzione di un parry, attiveranno degli effetti unici particolarmente potenti, come una scarica elettrica in grado di stordire i nemici, un piccolo terremoto che fa danno ad area ecc., che rendono tutto ancor più concitato e caotico.

Non mancheranno, ovviamente, anche i potenziamenti relativi alle armi, ottenibili tramite tipologie di valute differenti da trovare esplorando le mappe di gioco (ben più ampie e strutturate che in passato), risolvendo qualche enigma ambientale e superando alcune sfide di combattimento specifiche.

Anch’essi, a modo loro, vanno a modificare leggermente l’approccio agli scontri, in quanto propongono modalità di attivazione ed utilizzo che ben si integrano con il flusso dell’azione.

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A proposito di quest’ultimo, un’altra interessante novità dell’opera risiede in tutta una serie di opzioni di personalizzazione della difficoltà, che permette di scegliere manualmente l’ampiezza della finestra del parry, la velocità generale degli scontri, la quantità di danni subiti/inflitti, il livello di automira ecc.

Scudo o non scudo? Questo è il dilemma

Da tutto ciò sorge però uno degli aspetti più controversi dell’intera produzione: la centralità dello scudo.

Non si può infatti negare che, per essere un boomer shooter (e non uno qualsiasi, ma Doom), l’idea di dare una valenza così primaria ad una meccanica corpo a corpo potrebbe sicuramente non andare a genio a tutti, in quanto rischia di toglierla a quello che dovrebbe essere il vero punto focale del gameplay, le sparatorie.

In tutta onestà, non riesco ad essere d’accordo con questa visione, per due fondamentali motivi.

Il primo riguarda il fatto che, diciamocelo onestamente, lo scudo funziona alla grande sotto praticamente ogni punto di vista: che sia per i metodi di utilizzo o per le sue implicazioni meccaniche, mi ha divertito talmente tanto che, se dovessi un giorno tornare su Doom Eternal, sarebbe senza dubbio la prima cosa a mancarmi, e che rimpiangerei alquanto.

In secondo luogo, Doom: The Dark Ages non è e non vuole essere il continuo della diretta linea evolutiva della saga, bensì assume quasi il ruolo di uno spin-off, un capitolo a sé stante che ha deciso di prendere una direzione un po’ diversa.

Con quest’ottica, trovo sia assolutamente lecito dare ad ID Software una libertà creativa maggiore, facendogli testare l’implementazione di nuove idee che, in un capitolo principale, avrebbero stonato.

Ad ogni modo, va detto che anche la suddetta meccanica presenta qualche magagna di sviluppo non indifferente.

Oltre ad una vistosa mancanza di precisione delle hitbox (sia dei colpi nemici che delle nostre parate), vi è un buco logico alquanto netto che ID Software non ha previsto.

Per compensare la “potenza” e gli effetti devastanti dello scudo, i designer hanno, come già detto in precedenza, spinto l’acceleratore sull’aggressività dei nemici, non solo rendendo veloci e pressanti quelli corpo a corpo ma anche dando ai colpi dalla distanza una disposizione da bullethell, in alcuni casi anche abbastanza spinta.

E’ vero, lo scudo ci protegge da alcuni di essi mentre ci permette di parryarne altri, ma la totale assenza di una qualsivoglia forma di schivata, dash o doppio salto, anche solo in forma ridotta, si fa sentire talmente tanto da rendere obiettivamente ingiusti certi gameover.

A peggiore la situazione ci pensa il fatto che molti di quei “proiettili” saranno anche a ricerca, di conseguenza, ci toccherà in alcuni casi “provare a scappare” da essi spostandoci grossolanamente di lato o cercando un riparo, cosa che, in un’alta percentuale di situazioni, ci porterà ad incastrarci nell’arena e a subire il danno in questione.

Inoltre, il fatto che quasi la totalità delle arene siano rappresentate da spazi ampi e con una quantità esigua di ripari (almeno, rispetto ai Doom precedenti) rende anche difficile – se non impossibile – studiarsi una qualche strategia di posizionamento che possa ovviare a tale problema.

Nel marasma generale e nella concitazione degli scontri, alcuni dei quali arrivano a durare anche 5-10 minuti, tale aspetto non può che generare grande frustrazione.

Mezzi in Doom: The Dark Ages? Non proprio

Questa scelta di gameplay risulta ancor più paradossale se paragonata ad un’altra, ben più specifica e bizzarra.

Per farla breve, durante l’avventura vi saranno alcune sequenze di gioco decisamente atipiche per un titolo come Doom: in alcune di esse, ci ritroveremo nei panni dello Slayer a comandare uno dei giganteschi mech delle Sentinelle, per penetrare con ancor più violenza e tamarraggine tra le linee nemiche.

In questo caso, dovremo attraversare un percorso lineare sconfiggendo i Titani, gli immensi demoni che ci capita a volte di scorgere nel background delle ambientazioni: per farlo, ricorreremo a meccaniche corpo a corpo estremamente basilari, che prevedono attacchi semplici, attacchi caricati ed esecuzioni.

A differenza dello Slayer però, il suddetto mech non avrà alcuno scudo e di conseguenza la domanda sorge spontanea: come si fa a contrastare le potenti mazzate di demoni alti 15 piani? Ebbene si, proprio con la schivata.

Similarmente al gameplay base, basterà deviare con il giusto tempismo gli “attacchi verdi” per caricare un formidabile colpo in grado di distruggere qualsiasi cosa.

Tali sezioni, a modo loro altamente spettacolari e sceniche, risultano fortemente guidate e hanno il solo scopo di variare un po’ l’esperienza spezzando i ritmi delle sparatorie classiche.

Ma oltre al mech, l’altro genere di fase d’intermezzo presente in Doom: The Dark Ages ci porterà a pilotare Serrat, un vero e proprio dragone cibernetico armato di mitragliatrice con il quale potremo spiccare il volo ed impegnarci in combattimenti, inseguimenti ed esplorazioni aeree.

Anche in questo caso ci toccherà raggiungere alcuni punti focali della mappa e distruggere torrette e navicelle varie, ma in che modo? Incredibile ma vero: schivando i colpi verdi e “aprendo” di conseguenza il loro punto debole.

Il sistema di combattimento proposto con Serrat è senza dubbio il punto più debole della produzione, in quanto gli scontri saranno esclusivamente relegati ad una forma di “lock” che porrà il drago di fronte al bersaglio, e ci porterà a dover deviare gli attacchi nemici in una delle quattro direzioni in un imbarazzantissimo quick time event che, senza esagerare, sembra appartenere ad un mobile game per bambini.

Oltre a ciò, queste sezioni hanno veramente poco altro da offrire, dato che nonostante vi sia qualche inseguimento e qualche segreto da scovare, non si può non notare una certa piattezza generale, che sia nelle meccaniche di gioco, nell’interattività ambientale ed in una libertà di movimento più fine a sè stessa che mai.

Il peccato principale e che in un certo senso il sistema di guida risulta a suo modo piacevole, così come l’idea di poter godere di quelle meravigliose ambientazioni da un punto di vista ampio come quello: per questo motivo, avrei preferito delle sequenze ancor più semplici e lineari, facendo da passaggio puramente registico da una missione/ambientazione all’altra.

Insomma, se l’aggiunta dello scudo al gameplay di base è stato un esperimento a mio avviso riuscito, mi viene letteralmente impossibile dire lo stesso delle sequenze con Serrat, mentre quelle a bordo del mech si salvano con qualche riserva.

Si tratta comunque di parti di gioco estremamente limitate in termini di longevità, che nell’arco complessivo della campagna vi occuperanno giusto qualche manciata di minuti, niente di più.

In definitiva, ho apprezzato enormemente la svolta che Doom: The Dark Ages ha deciso di dare al suo gameplay base nonostante qualche imprecisione e qualche idea non proprio azzeccatissima, mentre le altre novità, dalle mappe più ampie alle sequenze di intermezzo con il mech/Serrat sono un po’ in un limbo creativo e qualitativo; alcune funzionano e altre decisamente no, fine.

Una notevole bellezza visiva…

Visivamente parlando invece, Doom: The Dark Ages mostra ancora una volta i muscoli di un ID Tech sempre in forma: la prima cosa a spiccare è senza dubbio la qualità dei modelli di armi e nemici, che propongono un dettaglio grafico sempre più consistente e sono mossi da una fluidità ed una bellezza delle animazioni davvero encomiabile.

In tutto ciò si aggiungono tutta quella serie di effetti particellari e non che, non appena entra nel caos dell’azione, rendono il tutto altamente esplosivo e spettacolare, pur riuscendo sempre e comunque a mantenere una pulizia visiva ed una solidità di framerate notevoli.

Anche a livello estetico riesce a cavarsela decisamente bene: Doom: The Dark Ages spinge l’acceleratore su un’estetica più spiccatamente medievale, tra lugubri cittadine, villaggi in fiamme ed imponenti castelli, mantenendo sempre quel curioso mix tra componenti fantascientifiche (robot, armi ed armature tecnologiche) e di stampo “infernale” (teschi giganti, pentacoli nel cielo e composizioni organiche varie).

Seppur questo genere di ambientazioni fosse presente anche in Doom 2016 e Doom Eternal, nel caso di Doom: The Dark Ages gli art designer sono comunque riusciti ad inventarsi biomi ancora diversi, ancor più caratteristici e unici a modo loro, che vi lascio il piacere di scoprire da soli.

Ovviamente, in termini di pura resa visiva, tali scenari lasciano ancora una volta a bocca aperta: seppur non propongano chissà quale livello di microdettaglio ambientale, basterà guardarsi attorno per notare la generale bellezza dei cromatismi e dell’illuminazione, che si abbattono sulle mappe con una solennità quasi opprimente e riempiendole di un’atmosfera dark fantasy a dir poco meravigliosa.

…peccato per la colonna sonora!

Purtroppo, non si può dire lo stesso della componente sonora: se in termini di puro audio design il lavoro svolto è senza dubbio di buon livello, la soundtrack non riesce a stare al passo con quella dei capitoli precedenti, in quanto si sente, ahimè, la mancanza delle incredibili capacità di Mick Gordon, storico compositore della saga.

Seppur le tracce non riescono a proporre lo stesso “carattere musicale”, va comunque detto che seguono il ritmo dell’azione con la giusta intensità, con qualche picco interessante durante alcuni dei passaggi di trama principali.

Conclusioni

Doom: The Dark Ages interrompe la continuità della saga, proponendosi a conti fatti come una deviazione di percorso non solo in termini narrativi ma anche e soprattutto in quelli meccanici.

Se la trama e l’esposizione del racconto, però, ancora non convincono, l’inserimento dello scudo e la sua centralità mescolano le carte in tavola del gameplay, proponendo una tipologia di approccio alternativa ai cicli e ad i flussi di combattimento, che riescono ad esser altamente appaganti in un modo tutto loro.

La spiccata pesantezza e la brutale fisicità di uno Slayer più arrabbiato che mai completano il quadro di un’esperienza ancora una volta spettacolare, sfidante e densa di contenuto.

Purtroppo, ID Software ha osato un po’ troppo con le novità, aggiungendo tutta un’altra serie di inserimenti che fanno storcere il naso, specialmente pensando agli intermezzi con il drago, abbozzati e confezionati con una fretta ed una furia inaspettati.

Inoltre, la mancanza di Mick Gordon alla direzione della colonna sonora si fa sentire (in tutti i sensi), in quanto le tracce, seppur abbiano una loro dignità, non riescono ad esser dirompenti quanto quelle presenti in Doom 2016 e in Doom Eternal.

In definitiva, capisco la posizione di chi avrebbe preferito un Doom classico, ma onestamente parlando non la condivido: con Doom: The Dark Ages mi sono abbondantemente divertito, e spero che, in un futuro, possa arrivare un ipotetico secondo capitolo in grado di migliorare la formula ed aggiustare ciò che, ahimè, in questo caso non ha proprio funzionato.

Doom: The Dark Ages
GAMEPLAY E LONGEVITA'
9.2
COMPARTO GRAFICO E SONORO
8
COERENZA E CURA DEL DETTAGLIO
8.2
Voto Utenti0 Votes
0
Pros
Ancora una volta divertente e galvanizzante
Lo scudo funziona decisamente bene...
Comparto visivo ed estetico notevole
Cons
Trama e narrazione più che dimenticabili
...ma le altre novità decisamente meno
Colonna sonora non all'altezza
8.5
VOTO
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Mattia Mariano

Salve a tutti, sono Mattia, e da circa 18 anni ho un'intesa passione per il mondo dei videogiochi, e con essa mi porto dietro una forte propensione alla discussione e al dialogo il più discorsivo possibile riguardo questa incredibile arte.

Pubblicato da
Mattia Mariano
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