Quante volte è capitato di sentire discussioni sulla longevità di un gioco, anche di giochi in uscita? Le stesse case di sviluppo e i distributori nelle interviste cercano spesso di spingere sul pedale della longevità.
E quanti sono quelli che chiedono garanzie di minimo cinquanta, settanta o anche cento ore di gioco prima di decidere se comprare un titolo o meno?
Il problema di questo ragionamento è che valutare un gioco in base alla sua longevità è come ordinare in un ristorante in base alle dimensioni del piatto. La longevità non è un indicatore per esprimere se un titolo sarà interessante, non dice se divertirà o annoierà. Che succede se poi, dopo aver speso 80 euro per un titolo che promette cento ore di intrattenimento, ci si accorge che già dopo cinque non ci viene trasmesso nulla?
Ci sono molti modi per modulare la durata in un videogame. Si possono inserire oggetti collezionabili per far raggiungere il 100%, sfruttare la mappa integrando fasi di back tracking, inserire missioni secondarie, programmare finali alternativi, impostare diversi livelli di difficoltà, offrire modalità multiplayer e molto altro. Inoltre, da quando la velocità della connessione internet permette la trasmissione di grandi quantità di dati e la distribuzione post-acquisto di aggiornamenti e contenuti aggiuntivi, si è sviluppato un nuovo modo di usufruire dei giochi che influenza in maniera radicale la longevità: il Game as a Service (GaaS).
Il concetto di GaaS permette all’industria di generare profitti sul lungo periodo, attraverso la vendita di contenuti aggiuntivi o abbonamenti per l’accesso a campagne multiplayer. Di fatto, si rilascia una prima versione del gioco con una campagna iniziale che può essere successivamente espansa o alla quale si possono far seguire campagne successive. I multiplayer offrono molteplici modalità, sia competitive che cooperative, e una longevità virtualmente infinita, finchè durano la voglia di sfida dei giocatori e la volontà del distributore di mantenere i server attivi.
Uno degli svantaggi di questo approccio è che se contestualmente all’ambiente multiplayer online non viene strutturata anche una buona campagna single player, il gioco in pratica muore definitivamente allo spegnimento dei server di gioco, come è successo ad esempio con Evolve.
Il modello Gaas ha poi generato un sottoprodotto, il Free to Play (o Free to Start) e una sua declinazione che per il sottoscritto è l’anticamera della ludopatia e che risponde al nome di Pay to Win. Il Free to Play è la dose buona che lo spacciatore ti regala per farti entrare nel giro e che ti spingerà in seguito a venderti la macchina e spolpare compulsivamente la pensione della nonna pur di comprare la skin a forma di cetriolo per l’arma automatica del tuo personaggio. Questo perchè sebbene molte funzioni del gioco siano disponibili gratuitamente, per altre è necessario pagare, dato che generalmente questo intero business model è sostenuto grazie alle microtransazioni.
Se da una parte però ci sono quelli che battono cassa vendendo migliorie estetiche ed accessori, dall’altra ci sono giochi che dietro pagamento offrono upgrade necessari a continuare il gioco, o perlomeno a continuarlo senza dover attendere o spendere decine di ore nel mondo di gioco. Si possono anche proporre upgrade in grado di dare un drastico vantaggio sugli avversari nelle partite multiplayer. In questi casi si parla di Pay to Win.
Altro caso problematico del modello Free to Play riguarda quei giochi che fanno uso di loot-box o di gacha. Con le loot box il giocatore compra un pacchetto di elementi di gioco casuali che potrebbe contenere qualcosa di utile o raro, sistema paragonabile a quello delle buste di carte collezionabili; i gacha vendono al giocatore un numero di tentativi (come i tiri di leva o i giri dei tamburi nelle slot machine) per ottenere un elemento utile o raro. Queste strategie fanno uso degli stessi rinforzi positivi che sono la chiave di ogni gioco d’azzardo. Piccole saltuarie vincite in mezzo a perdite quasi costanti.
La parte peggiore è che, al contrario delle slot machine, questi giochi possono essere distribuiti a persone di ogni età.
Pay to Win, loot-box e gacha sono meccaniche che aumentano la longevità in maniera artefatta e in molti casi addirittura dannosa, dato che, anziché migliorare l’esperienza dell’utente all’interno del gioco per intrattenerlo in maniera più o meno edificante, fanno leva sui meccanismi della dipendenza per creare assuefazione, in certi casi a livello patologico.
La cosa assurda è che spesso questi giochi non hanno nemmeno granchè di divertente o interessante, perchè sono basati prevalentemente su meccaniche poco intelligenti e gameplay loop estremamente ripetitivi. Per questo dico che il modello Free to Play non sarebbe di per sé un problema (perlomeno non lo sarebbe se la struttura stessa del mercato non lo spingesse a generare dipendenza nell’utente) ma non ho mai visto un gioco di questo tipo che avesse un’idea divertente alla base e non fosse solo uno stratagemma commerciale per raccogliere denaro a strascico.
E per tutti quei titoli che invece vengono progettati per essere completi al day one? Badate bene, con questo parlo di giochi completi, ma non nel senso che debbano essere perfetti. Oggigiorno è un bene che gli sviluppatori possano risolvere dei bug o magari ricalibrare la difficoltà se necessario dopo il rilascio, ma il gioco in sé è composto da una singola campagna.
Al massimo si può assistere al rilascio di alcuni DLC che la approfondiscono o aggiungono un pezzo alla storia e che generalmente vengono venduti separatamente. In questo caso si parla di espansioni e di solito sono casi una tantum anzichè serie di contenuti aggiuntivi, con il team di sviluppo che passa invece alla creazione di un titolo differente. Little Nightmares è un esempio che ha fatto uso di questa tipologia di contenuto scaricabile.
Questo è il modello più classico per la progettazione e pubblicazione di un’opera videoludica e si potrebbero fare centinaia o migliaia di esempi. Ed è proprio per questa categoria che diventa ancora più importante una buona gestione della longevità. Perchè nell’ambito di un titolo aggiornato periodicamente con nuovi contenuti, se una campagna non ti è piaciuta, puoi sempre attendere la successiva e di solito gli sviluppatori, che avranno tenuto d’occhio i pareri del pubblico, potranno correggere il tiro.
Ma se il gameplay loop di un gioco story driven non ha mordente, o le quest secondarie di un titolo open world sono molto ripetitive, si rischia di trovarsi di fronte ad un flop.
Il primo esempio che viene in mente è un qualsiasi Grand Theft Auto. L’idea alla base è semplice: il giocatore impersona un malavitoso che deve portare a termine una serie di missioni criminali per completare la storia principale, muovendosi all’interno di un mondo aperto. Ad aumentare le ore di gioco, un corollario di oggetti da collezionare, missioni secondarie e attività accessorie.
Quello di GTA è l’esempio di un titolo single player realizzato davvero bene e questo grazie ad una mappa sempre dettagliata e particolare, trama e personaggi interessanti, meccaniche di gioco coinvolgenti e missioni memorabili. Anche le missioni secondarie sono sempre pensate con molta attenzione ai dettagli e difficilmente portano alla noia.
Diverso da quello che succede per esempio con Starfield, l’ultima grande release di Bethesda. Starfield ha infatti ricevuto critiche non sempre positive, nonostante tutti gli anni serviti a svilupparlo, le premesse e le promesse fatte.
Credo che Starfield sia proprio l’esempio di un titolo che ha deluso le aspettative per via della volontà di aumentare la longevità in maniera forzosa. Sì, è vero, in Starfield ci sono un sacco di cose da fare, ma sul giocatore poche di quelle cose hanno realmente presa. Ci si è concentrati molto sul creare una mappa vastissima che però è poco esplorabile e perlopiù presenta missioni secondarie che si possono riassumere in 3 tipologie ripetute all’infinito.
Avrebbe pagato molto di più addensare il tutto all’interno del sistema solare, dare maggiore spazio al free roaming sui singoli pianeti e dedicare più risorse alla main quest e alle secondarie. Nonostante Starfield faccia meno uso di contenuto generato proceduralmente rispetto a No Man’s Sky, mi riesce difficile pensare che in futuro mantenga coinvolta in maniera così assidua una community al pari di quella che invece continua ad esplorare il titolo di Hello Games.
Nemmeno il proposito di Bethesda di creare uno “Skyrim ambientato nello spazio” mi sembra si sia realizzato, complice anche un sistema di crescita del personaggio più complicato che poco ha a che vedere con l’ultima iterazione della serie The Elder Scrolls. Quindi in questo caso il tentativo di avere un gioco artificiosamente lungo ha sortito solamente l’effetto contrario, perché, per quanto mi riguarda, non l’ho più retto dopo nemmeno una decina di ore.
Oppure prendiamo ad esempio gli Assassin’s Creed: serie benedetta di Ubisoft che l’ha tirata fuori dal cilindro ormai 16 anni fa come evoluzione delle meccaniche innovative presentate da Prince of Persia: the Sands of Time. Nel tempo, diversi sono stati gli espedienti introdotti per rendere i titoli sempre più time consuming, ma almeno fino a Syndicate compreso, le attività che la serie proponeva sono state più o meno sempre dello stesso tipo. Quest principale, quest secondarie e collezionabili, principalmente. Il tutto incentrato su un intreccio narrativo composto da una storyline ambientata in tempi odierni e una in tempi antichi che si alternano.
L’epoca post Syndicate presenta un cambio di rotta. Ubisoft decide di riformare la serie e abbandona alcune meccaniche classiche della serie, cercando di aumentare la longevità strutturando i titoli più come giochi di ruolo openworld, riducendo le meccaniche action stealth e spingendo maggiormente sull’esplorazione della mappa. In questo articolo di qualche anno fa, fino all’epoca di Origins e Odyssey, parlavamo già di come Ubisoft avesse snaturato l’essenza della saga, inserendo elementi ottimi per un qualsiasi GDR, ma che mal si conciliavano con una serie di videogame fortemente basati sulla narrazione e che parlavano di assassini.
Tanto per fare un esempio, basare gli scontri su un confronto matematico tra statistiche e livelli, spesso rendeva difficili se non impossibili i colpi mortali, finanche a permettere di sopravvere ad un nemico pugnalato alla testa. Una meccanica molto poco Assassin che ha finito per stroncare la parte stealth.
Quello tra Syndicate e Origins è stato un passaggio abbastanza radicale che aveva come obiettivo proprio quello di aumentare la longevità e che, insieme agli svariati DLC rilasciati per molti giochi appartenenti ad entrambe le fasi, dimostra come Ubisoft prenda quello del tempo speso dal giocatore sui propri titoli come un elemento importante da massimizzare. E con Ubisoft anche la maggior parte dei grandi sviluppatori e distributori.
Questi sono solo alcuni dei tanti esempi possibili che illustrano come i videogame impieghino delle soluzioni utili a mantenere alto l’interesse del giocatore nel tempo.
I Game as a Service sono invece intrinsecamente molto longevi, dato che il supporto è continuato nel tempo, al punto da farmi chiedere se nel caso dei GaaS si possa ancora parlare di longevità. Forse sarebbe più corretto fare riferimento alla longevità della singola campagna rilasciata.
Se prendiamo l’esempio di Destiny, ci troviamo di fronte ad un FPS che è stato capace di mantenersi vivo per 10 anni, grazie ad elementi RPG e interazioni sia PvE (Player vs Environment) che PvP (Player vs Player). In questo caso ci si muove all’interno di un universo fantascientifico condiviso con altri utenti, che offre la possibilità al giocatore di far crescere il proprio personaggio e fargli attraversare storie sempre diverse.
Questo mi sembra l’unico modello immaginabile per poter aver un GaaS veramente efficace e che mantenga un appeal duraturo nel tempo senza far ricorso pesantemente a meccaniche multiplayer. Non è un caso se al centro di tutto ci siano storie avvincenti che ci coinvolgano e personaggi interessanti con cui empatizzare.
Differente è il caso dei simulatori di guida, la cui longevità deve molto all’esperienza multiplayer competitiva. I giochi offrono molteplici tracciati e condizioni ambientali in cui giocatori da tutto il mondo possono sfidarsi.
Un caso molto ben riuscito è quello di Forza Motorsport, visto che, oltre ad un multiplayer online con eventi gara in real time, offre anche una solida campagna single player. Nel caso di Forza si sono spese molte risorse per dare varietà ad un gameplay che avrebbe facilmente potuto essere molto banale e ripetitivo.
Questi sono due esempi di come la longevità si estende in maniera funzionale. Il giocatore ha effettivamente qualcosa di nuovo da fare. Altri giochi invece puntano su migliorie estetiche come obiettivo. Call of Duty per esempio, oltre al core competitivo, permette di guadagnare o acquistare crediti in game per accedere a nuove skin per armi e personaggi, aggiunte costantemente tramite update.
Personalmente trovo questa tecnica poco interessante e particolarmente noiosa. Non posso escludere che sia per via della mia avversione verso gli FPS competitivi. Mi rendo conto che molti trovino grande soddisfazione nel battere qualcun altro e possano trovare attrattivo replicare le stesse meccaniche migliaia di volte in totale assenza di una storia, ma non è decisamente il mio caso. Ad ogni modo, nemmeno essere l’equivalente digitale di una fashion victim sembra essere molto nelle mie corde, ma probabilmente questa è questione di gusti.
Ciononostante, in tutti questi casi la possibilità di un supporto continuativo mantiene vivo l’interesse della community di riferimento e permette a sviluppatori e distributori di avere introiti in maniera differita rispetto al singolo acquisto, proprio grazie ad una sorta di longevità dilatata nel tempo. Un caso un po’ anomalo è quello di No Man’s Sky, dato che per questo titolo gli sviluppatori continuano ad offrire aggiornamenti e nuove funzionalità in maniera totalmente gratuita per chi ha acquistato il gioco. In questo, Hello Games sembra volersi sostentare grazie ai possibili nuovi utenti anziché alla community già esistente e come dicevo si dimostra essere un po’ un caso particolare del modello Game as a Service.
Quello della longevità è un fattore che industria e pubblico tengono molto in considerazione per progettare o acquistare un titolo, sintomo che anche nel settore dei videogiochi si è fatta strada la filosofia del quantity over quality. Sia da una parte che dall’altra si accetta tacitamente che un gioco più lungo sia migliore di un gioco più corto.
Nella promozione di un gioco si fa spesso leva su questa difficoltà del pubblico di discriminare tra lunghezza e qualità, cosa che generalmente gioca a favore delle vendite, dato che la qualità di un titolo dipende sia da una produzione ben fatta che dalle buone idee. Ma a differenza di tecnologie e tecniche produttive, le buone idee non si possono comprare.
Per sviluppatori e distributori è invece molto più semplice controllare elementi replicabili e misurabili come la dimensione della mappa, il numero di missioni secondarie o di oggetti collezionabili. Si investe su fattori che si suppone più prevedibilmente produrranno delle buone vendite e si evita di rischiare scommettendo su un’idea nuova, originale e quindi potenzialmente fallimentare.
Questo purtroppo è un sistema che inevitabilmente spinge mercato mainstream e produzioni con alti budget verso un certo appiattimento creativo. Sempre più giochi vengono replicati con la convinzione che, se ha funzionato una volta, funzionerà ancora per una copia dell’originale ma lunga il doppio.
D’altro canto, svariati studi indipendenti con scarsissime risorse hanno sfornato capolavori basati prevalentemente su delle idee brillanti. Titoli che in molti casi sono brevi se non brevissimi, ma che hanno folgorato pubblico e critica.
Il caso di GTA dimostra che anche studi enormi e produzione con budget stratosferici possono creare opere pregevoli, ma dietro un titolo di successo c’è sempre un team di professionisti focalizzati sul proprio pubblico di riferimento e sul veicolare un intrattenimento sano, originale e innovativo attraverso il contenuto che sta sviluppando.
Quelli il cui interesse è la mera speculazione di un fenomeno di consumo che non hanno nulla di nuovo da apportare ma sono mossi solo dalla volontà di aprire i portafogli dell’utenza, si troveranno facilmente a proporre prodotti magari molto longevi, ma in fin dei conti poco interessanti.
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