Che sia tra la critica specializzata nel settore o nell’opinione pubblica delle community di videogiocatori. inizia a spargersi la tendenza sempre più netta nel valutare e giudicare titoli senza mezze misure e tonalità di grigi, ma solamente per estremi .
Nel momento in cui si parla bene di un videogioco che ottiene una media voti alta , questo viene elevato quasi in automatico a capolavoro , mentre dall’altro lato se dovesse presentare qualche difetto direttamente tangibile diviene immediatamente sconsigliato , senza che vi sia una via di mezzo percepita realmente come tale.
Una delle vittime più recenti colpite da questa erronea concezione del gaming è Atomic Heart , pubblicato lo scorso 23 febbraio: nonostante abbia avuto un gran successo in termini di vendite, l’opera di debutto di Mundfish è stata a mio avviso maltrattata da giudizi troppo severi , in particolare per quanto riguarda il suo approccio alla componente open world . Questa viene infatti definita come limitante a causa di meccaniche pressanti , che a detta di molti soffocano qualsivoglia libertà d’approccio e scoraggiano l’esplorazione del mondo di gioco.
Dopo averlo portato a termine mi sento di essere in netto disaccordo con tali criticità, in quanto trovo invece che il concetto di open world proposto da Atomic Heart sia strettamente collegato alla natura intrinseca del gioco e coerente col contesto.
Prima di scendere nel dettaglio, è necessario offrire quindi un accenno alla trama e al relativo mondo narrativo che la circonda. Seppur non sia assolutamente mia intenzione fare spoiler, mi toccherà affrontare in modo vago alcuni degli eventi alla base della storia, quindi, se non lo avete ancora giocato e avete intenzione di vivere l’esperienza senza alcuna conoscenza pregressa, vi consiglio di fermarvi qui e di tornare una volta giocato.
Premesse narrative Nel distopico passato degli anni cinquanta del mondo di Atomic Heart, la Russia è riuscita a vincere la Seconda Guerra Mondiale e a raggiungere obiettivi eccezionali nell’ambito dei progressi scientifici, tecnologici e sociali con ricerche, sperimentazioni e scoperte più all’avanguardia che mai.
In particolare, lo studio sull’elettronica e sull’intelligenza artificiale ha portato la popolazione a convivere e a condividere la propria quotidianità con dei robot autonomi , pensati e programmati per compiere una moltitudine di mansioni , in ambiti come quello domestico, medico, dell’intrattenimento e tanto altro.
Il tutto ha inizio presso Chelomey , una sorta di immenso parco cittadino sospeso tra le nuvole (in puro stile Columbia di Bioshock Infinite), nel quale si sta celebrando il lancio del Kollectif 2.0 , un’evoluzione della prima reale rete di collegamento a distanza tra persone e robot (in poche parole, internet ).
Poco dopo avverrà qualcosa di inaspettato nei sistemi informatici di molti dei robot, che diventeranno aggressivi da un momento all’altro e inizieranno ad attaccare praticamente tutti quanti. Nei panni del compagno maggiore P3 e del curioso guanto tecnologico Charles , oltre a sopravvivere, dovremo far luce su quanto avvenuto e scoprire la verità che si cela dietro questo apparente malfunzionamento su larga scala.
Per farlo, ci spetterà spostarci tra gli spazi aperti della struttura 3826 (questo è il nome della porzione di mappa esplorabile , dove sarà ambientato l’intero gioco), raggiungendo determinati complessi e laboratori scientifici all’interno dei quali si andranno a consumare la maggior parte delle missioni principali .
Qui, troveremo ad attenderci diverse tipologie di sequenze, come enigmi da risolvere, fasi esplorative, platform e ovviamente numerosi scontri all’ultimo sangue contro robot, creature di vario tipo e relative bossfight.
Dall’altro lato, finché rimarremo all’esterno delle suddette strutture avremo la possibilità di spostarci liberamente tra le varie aree che fungono da raccordo proprio tra esse e gli altri punti di interesse della mappa.
La fonte del problema L’intera struttura 3826 di Atomic Heart pullulerà quindi di nemici in ogni suo angolo : contro di loro, potremo decidere come approcciarci, cercando di evitarne ogni contatto muovendoci con cautela oppure spianare le armi e scatenare il caos.
Ovviamente, questo genere di approccio che vede la componente open world fortemente ostile e minacciosa è già stata vista in altre opere, come Dying Light o Days Gone . Ma laddove in questi ultimi avevamo a che fare con dei semplici zombie dalle capacità motorie ed offensive limitate, i robot di Atomic Heart saranno estremamente reattivi , riusciranno a raggiungervi facilmente grazie ai loro movimenti agili e potranno persino colpirvi dalla distanza con laser, fendenti elettrici e persino colpi di lanciagranate.
A render ancora più pressanti le forze nemiche ci pensano i sistemi di sicurezza : molte delle aree saranno infatti sorvegliate da telecamere che, una volta scoperti, manderanno l’allarme ai robot vicini e alzeranno il livello di allerta , il che ne farà arrivare altri in grande quantità.
Se decidessimo di affrontare tali pericoli a viso aperto, si attiverà una sorta di capsula d’emergenza dal quale spunteranno vari tipi di droni volanti con diversi ruoli, dall’attacco diretto al supporto di robot o telecamere.
Queste capsule d’emergenza saranno sparse un po’ ovunque e non sarà possibile distruggerle o disattivarle in alcun modo. Ciò ci costringerà a pensarci due volte prima di aprire il fuoco, dato che il relativo e conseguente reflusso costante di forze nemiche non ci darà tregua o respiro fin quando non lasceremo la zona o in generale fin quando le acque non si saranno placate.
La totale assenza di un hub centrale o di qualsivoglia zona sicura (e soprattutto data la mancanza di possibilità di rendere tali quelle ostili ) ci porterà costantemente ad agire sempre con circospezione giocando ad Atomic Heart, dato che basterà anche solo una minima distrazione per far si che ci si ritrovi da un momento all’altro circondati da una numerosa quantità di nemici.
Quindi sì, tutti questi ostacoli e impedimenti limitano effettivamente ed inequivocabilmente la libertà di esplorazione, portando il giocatore a voler seguire in modo lineare solo ed esclusivamente i punti di interesse relativi alla campagna principale , tralasciando tutto il resto.
Diventa quindi estremamente semplice bollinare questo aspetto del gioco come deficitario e disfunzionale , ma io non sono d’accordo e nei paragrafi successivi vi spiegherò il perché .
Una medaglia ha sempre due facce Seppur anche a me sia capitato di sentirmi frustrato ed annoiato da queste meccaniche oppressive, mi è bastato cambiare punto di vista per comprendere il significato e le intenzioni creative degli sviluppatori, partendo da quella che è la concezione base della struttura open world nei videogiochi.
Che sia per quanto riguarda l’approccio al gameplay, all’esplorazione o alle semplici meccaniche di spostamento, siamo stati abituati nel tempo a concentrarci sulla sensazione di libertà interpretativa che questi giochi possono offrire.
A noi giocatori piace la possibilità di poter fare tutto ciò che vogliamo , quando e come riteniamo più opportuno, senza che vi siano vincoli o limiti alcun tipo, avendo l’impressione di avere assoluto controllo sul mondo di gioco , sui suoi avvenimenti e sulle storie che ha da raccontare.
Per questo motivo vi è la tendenza da parte degli sviluppatori a creare mondi sempre più vasti, densi di missioni, attività secondarie e collezionabili da recuperare, per offrire al giocatore una serie di stimoli e distrazioni che possano intrattenere il giocatore il più possibile .
Da ciò, ne consegue il fatto che proprio questo aspetto tende a rendere svariati open world una semplice lista di cose da fare in giro per il mondo , che spesso e volentieri non presentano alcun spunto creativo interessante e arrivando in molti casi persino a ripetersi.
Quindi, le percentuali di completamento generale dei vari open world (tutt’altro che alte ) sono indicative del fatto che non è importante la quantità numerica effettiva dei contenuti, bensì la possibilità che viene data al giocatore di approcciarsi o meno ad essi.
Su SpaceNerd abbiamo già parlato di questo grave aspetto che riguarda un open world mal costruito, pieno nei contenuti ma vuoto nella sua anima. Potete trovarlo qui: Burnout negli open world: cos’è e come combatterlo .
È qui che a mio avviso viene commesso il più grande errore di percezione del genere: così come avviene praticamente per ogni categoria di videogiochi, anche gli open world vanno divisi in due tipologie ben distinte tra loro nell’impostazione strutturale dei relativi mondi di gioco.
L’importanza del saper distinguere In termine di semplice nomenclatura , al concetto di mondo “aperto” andrebbe affiancato quello di mondo “libero” : per quanto sottile possa sembrare la linea che separa queste due logiche, sono convinto che la differenza sia alquanto sostanziale.
Come detto in precedenza, in praticamente tutti gli open world si ha la sensazione di poter fare tutto ciò che si vuole secondo le proprie preferenze, ma in quanti casi è davvero così ? Quante volte avete provato ad accedere ad un’area che si è rivelata poi essere inaccessibile ? O in quanti casi avreste voluto approcciarvi ad una certa questline , ma vi siete ritrovati impossibilitati a farlo a causa di un livello richiesto dalla missione troppo alto ?
Per una serie di rispettabilissime scelte, spesso relative alla narrazione e all’equilibrio di gioco , molti open world sono disseminati di paletti, ostacoli ed artefatti che per forza di cose impediscono al giocatore di esser veramente libero , e di avere quindi il mondo sotto le proprie mani, nonostante esso sia effettivamente aperto ed esplorabile a piacimento .
E qui entra in gioco proprio il sottogenere da me nominato come “mondo libero” , rappresentato a mio avviso da due giochi che, guarda caso, hanno vinto il Game of the Year del relativo anno di uscita: The Legend of Zelda Breath of the Wild ed Elden Ring .
Ovviamente, per una questione di avanzamento e progresso dell’esperienza, anch’essi hanno una direzione da seguire e degli snodi principali fondamentali per l’avventura, eppure ognuno dei due a modo suo permette di orientarsi all’interno del loro mondo di gioco semplicemente guardandosi attorno, approcciandosi ai vari punti di interesse con la consapevolezza che possono essere raggiunti in qualsiasi momento, e che spetta a noi e a noi soltanto capire come farlo.
Diventa quindi immediatamente evidente che se non fosse stato questo il focus creativo di Nintendo e di From Software, magari avremmo avuto una narrazione più profonda o un combat system più elaborato, ma non sicuramente la stessa libertà interpretativa .
E’ sottinteso il fatto che questo sia un merito creativo e tecnico dei suddetti sviluppatori piuttosto che un demerito di tutti gli altri.
È intelligente… Ma quindi come si colloca Atomic Heart in tutto questo? Quali sono le intenzioni ludiche di Mundfish?
Ebbene, la risposta è presto detta: il gioco è a tutti gli effetti “aperto”, e permette al giocatore di muoversi liberamente per le aree esplorabili, ma al contempo non è e non vuole essere “libero” nel letterale senso del termine.
La natura prettamente narrativa del gioco spinge con forza il contesto ambientale verso la direzione da essa stabilito , e questa prevede che la struttura 3826 sia zeppa di robot malfunzionanti assetati di sangue. Gli sviluppatori hanno quindi preferito puntare a offrire un un coinvolgimento che fosse coerente con la trama , evitando di adeguarsi a forza a standard di genere che ci hanno ormai annoiato a morte.
A sottolineare con estrema convinzione tale aspetto ci pensa il sound design , che tra gli squillanti suoni ad intermittenza delle telecamere, i pesanti rumori metallici dei robot stessi e gli assordanti allarmi di sicurezza spezzano con cattiveria qualsivoglia forma di silenzio , per dare al giocatore la sensazione di esser a tutti gli effetti in costante pericolo in una situazione come quella.
Quanto sarebbe risultata fuori luogo la possibilità di scorrazzare in pace e tranquillità in giro tra i campi come fosse una rilassante cavalcata alla Red Dead Redemption? Secondo me, avrebbe solamente contaminato negativamente la credibilità dell’intera trama, dalle premesse iniziali agli sviluppi più avanzati.
E pensandoci meglio, è proprio quello che succede in tantissimi altri videogiochi, persino quelli di stampo narrativo come Atomic Heart: se da un lato la numerosa quantità di attività secondarie riesce con successo a distrarre il giocatore e ad aumentare la longevità della sua esperienza , al contempo disinnesca nel tempo quel senso di coinvolgimento narrativo che si era acceso magari durante il prologo o in generale nelle fasi iniziali, al punto che si arriva quasi a dimenticarsi di quale sia il conflitto narrativo principale in corso (a me, tale effetto, lo ha fatto Hogwarts Legacy , per esempio).
… e si applica pure! Un altro aspetto che va analizzato riguarda l’entità delle ricompense : data la natura da FPS nudo e crudo, in giro per la struttura 3826 di Atomic Heart non si troveranno indumenti che aumentano passivamente chissà quale statistica passiva, bensì rottami, sostanze e composti chimici, che potremo usare per potenziare le nostre armi da fuoco ma anche le abilità di Charles.
Ciò implica il fatto che il rapporto rischio/ricompensa è pensato per permettere al giocatore di decidere cosa fare: più sarete disposti ad affrontare i pericoli dovuti alla presenza nemica, maggiori saranno i vostri margini di potenziamento .
Superato lo scoglio iniziale di comprensibile frustrazione, basterà entrare nella giusta ottica per rendersi conto che c’è in realtà una proporzione ben precisa dell’equilibrio di gioco tra la progressione nel potenziamento e l’avanzamento dell’esperienza: quindi, sarete voi a trasformarvi in men che non si dica in macchine mortali di cui i robot non possono far altro che aver paura, anche quando ne arrivano in grandi quantità.
Ma oltre a ciò, tra le svariate stazioni, piazzali e interni vari che ci capiterà di attraversare, troveremo computer, terminali e persino dei cadaveri con il quale, tramite un particolare dispositivo neurale, riusciremo ad interloquire : si ha modo così di scoprire una notevole quantità di dettagli sul mondo di gioco, sui personaggi che lo popolano e sui loro rapporti.
Poi, vi sono i Terreni di Prova , dei veri e propri dungeon ambientati all’interno di specificissimi laboratori scientifici , che andranno a basare la loro essenza su una serie di enigmi logici. La loro posizione sarà ben segnalata sulla mappa, e, dopo aver capito come sbloccarne l’accesso, sarà alquanto immediato entrarvici.
Ma anche nel loro caso, seppur vi siano ricompense golose sempre relative al potenziamento delle armi, essi trovano la loro ragion d’essere più per gli approfondimenti narrativi che riguardano vari generi di ricerche e sperimentazioni all’interno della struttura piuttosto che nel regalare al giocatore quel briciolo di soddisfazione esplorativa in più.
Definire la propria identità In fin dei conti, va compreso il fatto che il concetto di open world non debba esser funzionale solo ed esclusivamente alla libertà di esplorazione , bensì può esserlo anche rispetto altre componenti : dove c’è scritto che le mappe di gioco debbano per forza essere studiate per esser esplorate minuziosamente?
Con Atomic Heart, Mundfish risponde a modo suo, impostando l’open world e le sue regole affinché potessero essere al servizio della narrazione e del contesto di gioco , e non al contrario (o ancora peggio, di altro).
A voler trovare proprio il pelo nell’uovo , l’unica colpa (se così possiamo definirla) può esser data al gameplay : quello di Atomic Heart è un combat system sporco e viscerale , che riesce nell’intento di far percepire al giocatore il senso di pesantezza di ogni colpo andato a segno.
Colpire con violenza un robot fino a smembrarlo se non addirittura farlo esplodere è una sensazione pad alla mano davvero piacevole, grazie ad una cura delle animazioni a dir poco insospettabile.
Dall’altro lato, questa pesantezza si rileva anche nel senso opposto , infatti oltre ad una generale lentezza del nostro protagonista anche i nemici saranno in grado di colpirci, stordirci e buttarci a terra con facilità.
Diventa evidente il fatto che tale aspetto possa diventare, nelle fasi aperte, sinonimo di frustrazione: quindi, la mancanza di dinamicità e la natura non arcade dello shooting non si adatta benissimo agli scontri contro nemici numerosi, che possono essere abbastanza frequenti se non si presta la giusta attenzione.
Vi sono giochi che, al contrario, fanno del gameplay arcade il loro punto forte , il che rende il continuo reflusso di nemici uno spunto di divertimento in più per il giocatore, piuttosto che un impedimento . In Atomic Heart purtroppo non è così , ma anche in questo caso non mi sento di definirlo come un difetto , dato che rimane una scelta di design coerente con il contesto dall’inizio alla fine del titolo e che sa regalare comunque soddisfazione .
Tirando le somme Ritengo che quello di Atomic Heart sia uno di quei casi in cui si dovrebbe evitare di stare a fare paragoni rispetto a standard di genere campati per aria, bensì di farsi trasportare spontaneamente dal gioco stesso e dai suoi spunti creativi. In questo modo, si potrebbe arrivare a comprendere con maggiore naturalezza che le intenzioni degli sviluppatori possono essere ben più profonde e precise di quanto non si possa immaginare.
Ovviamente, non voglio in alcun modo dare per scontato che tutto ciò sia universalmente corretto, bensì vorrei specificare si tratta solo di una mia opinione . Proprio in questo senso, rimetto il discorso a voi : cosa ne pensate? Avete giocato ad Atomic Heart ? Se si, siete d’accordo con me o siete convinti che avrebbero dovuto impostarlo diversamente ?
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