Guillermo Del Toro porta in vita il suo Pinocchio dopo più di un decennio di produzione, tra rifiuti e rallentamenti alla fine Netflix ha voluto realizzare il sogno di uno dei registi visionari dei nostri tempi. Primo film in tecnica d’animazione stop-motion dell’autore, giunto dopo il suo primo film thriller senza elementi sovrannaturali, nonché suo secondo prodotto Netflix, Pinocchio racconta una storia alla quale tutti noi, soprattutto da italiani, siamo ormai abituati, ma che non ci fa per nulla dispiacere rispolverare. Certo, quest’anno abbiamo avuto, contando questo, ben tre film su Pinocchio, ma i precedenti due non possono essere certo definiti memorabili. Varrà lo stesso anche per la pellicola di del Toro?
Nell’Italia del Primo Dopoguerra, in una tranquilla cittadina toscana, il falegname Geppetto, doppiato da David Bradley, perde il figlio Carlo (chiaro omaggio all’autore Collodi, ndr.) dopo un bombardamento. Distrutto dal dolore, in un impeto di rabbia e guidato dai fumi del vino, decide di costruire un burattino di legno così che il figlio torni da lui.
Lo Spirito del Bosco, doppiato da Tilda Swinton, dona la vita al burattino e incarica il Grillo Parlante, con la voce di Ewan McGregor, di guidarlo verso la retta via. Seppur inizialmente sconvolto, Geppetto cerca di accompagnare il “neonato” Pinocchio nella sua nuova vita. Ma è difficile per un essere così inusuale girare nell’Italia fascista, tra pregiudizi, rabbia e desideri di sfruttamento. Perciò Pinocchio, per non essere un peso per il padre, si unisce al circo itinerante del Conte Volpe (Christoph Waltz) per girare l’Italia e capire chi è davvero.
Diciamocelo chiaro e tondo: un adattamento totalmente fedele del classico di Carlo Collodi avrebbe non poco annoiato. Già ne abbiamo avuto uno nel 2019 tutto italiano, che non mancava certo di qualità, ma averne un altro, seppur in tecnica animata, sarebbe stato troppo. Pinocchio è ormai un’opera talmente entrata nell’immaginario, non solo italiano, da essere di pubblico dominio. Sono bene accette invece le trasposizioni in una diversa chiave di lettura, con un’impronta più autoriale sia sullo stile di regia sia nella narrazione.
Ambientare una storia ottocentesca in un contesto di un secolo avanti è un esperimento già tentato in passato, e che non ha sempre portato a buoni risultati. Del Toro però non ha utilizzato l’elemento pseudo-ucronico a caso o per dare un’ulteriore morale antifascista ad un altro suo film. Il Pinocchio originale era, dopotutto, una fiaba borghese della seconda metà dell’Ottocento, in cui un bambino per essere “vero”, o meglio prepararsi alla vita adulta, deve ubbidire ai genitori e far parte della società che lo circonda.
Una morale come questa, immersa in un contesto dove “ubbidire” è una parola che si trova in mezzo a “credere” e “combattere”, può essere rimodellata come un’avversione alla società stessa, se quest’ultima lede il cittadino. Del Toro ha, in questo caso, “tradito” apposta l’opera originale. Nonostante ciò, ne rispetta ed elogia l’essenza, così come l’essenza del personaggio di Pinocchio: che cosa vuol dire realmente crescere? Ancor più in profondità, cosa vuol dire realmente vivere?
Vi sono comunque numerosi rimandi e rifacimenti all’originale: il Conte Volpe, per fare un esempio, è una fusione dei personaggi della Volpe e di Mangiafuoco, mentre a fare il Gatto è la scimmietta del suddetto impresario, Spazzatura. Quest’ultima, in un certo senso, potrebbe ricalcare qualche tratto del cane Alidoro.
Lucignolo, a differenza del romanzo, è parte della vicenda sin dall’inizio del film: figlio del podestà fascista della cittadina, cerca in tutti i modi di compiacere il padre. In questo caso si può trovare un’interessante simmetria tra Lucignolo e Pinocchio che nel libro veniva mostrato esclusivamente nel Paese dei Balocchi: l’uno è l’opposto dell’altro, ma in due modi diversi: il Lucignolo originale è ciò in cui Pinocchio rischia di trasformarsi se prosegue per la sua via, mentre quello di del Toro è ciò a cui Pinocchio aspira: un ragazzino ubbidiente che sembra avere il consenso del padre, per quanto non sappia cosa ciò nasconda realmente.
Proprio su questo punto ci si dovrebbe soffermare ulteriormente a riflettere: Pinocchio vede Lucignolo, come ciò che spera di diventare, allo stesso modo in cui, almeno all’inizio del film, Geppetto vede Pinocchio stesso, come ciò che non tanto lui, quanto Carlo dovrebbe essere. L’intero film gira intorno alle figure di padre e figlio, analizzando le basi errate in cui si fonde il loro rapporto: obbedienza e rispetto da un lato, accettazione e speranza dall’altra.
Già il live action Disney uscito pochi mesi prima del film in questione ha accennato a questa tematica, ma, per quanto sia un paragone alquanto insulso, è il lavoro di Del Toro ad approfondirla appieno. In un solo film, il regista ha saputo trattare più argomenti insieme: elaborazione del lutto, disposizione alla disciplina, amore famigliare, comprendere il significato della vita, il tutto mostrando le dinamiche tra padre e figlio.
Restando per un attimo in tema Disney, l’unico difetto che si può riscontrare in questo film è ciò che lo accomuna alla casa di produzione: l’utilizzo, in questo caso alquanto inutile, delle canzoni. Del Toro poteva distaccarsi dai canoni animati e non rendere il suo film un musical, del quale tra l’altro giusto una (naturalmente Ciao Babbo) o al massimo due canzoni si salvano.
Oltre all’ottima regia di Guillermo del Toro, verso la quale non ci si dovrebbe soffermare a lungo, né sul suo pacing costante e morbidamente accompagnato dalla colonna sonora di Alexandre Desplat, che già vinse un Oscar assieme a Del Toro con La Forma dell’Acqua, è da elogiare la fotografia di Frank Passingham e il suo ingegnoso utilizzo dei colori.
Il verde e il marrone scuro prevalgono nelle scene più tranquille, o all’inizio del film nella cittadina toscana; troviamo invece sfumature più spente tendenti al grigio quando sono presenti personaggi o tematiche fasciste, che sia in angoli bui delle scene precedentemente citate o interi luoghi ove la fanno da padrone; predomina il blu nelle scene in cui è presente lo Spirito del Bosco e l’elemento arcano gioca un ruolo cruciale.
Questo Pinocchio è, insomma, un’ottima interpretazione artistica del classico, che porta avanti la storia che tutti noi conosciamo, ci ricorda molto di quel che l’ha resa famosa e al contempo la mischia con elementi esterni che tuttavia non la snaturano minimamente.
Un’altra prova che Netflix, come ha dimostrato con Scorsese, Kaufman e Gaiman, può e potrà ancora realizzare i sogni di grandi artisti che Hollywood non riesce a portare avanti.
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