A partire dagli anni ’60, il manga è ormai entrato stabilmente nella quotidianità dei giapponesi.
La guerra tra l’autorialità degli autori gekiga e il mainstream di Osamu Tezuka ha permesso al fumetto di avvicinare le più disparate categorie di lettori e di canonizzarne i generi principali e l’estetica, ma una nuova rivoluzione culturale sta per abbattersi con violenza sul paese del Sol Levante.
Una rivoluzione che inonderà di sangue le strade e le pagine dei fumetti.
Dall’inizio degli anni ’60 ai primi del ’70, il Giappone venne investito da un boom economico impressionante, tanto da divenire la seconda potenza economica del mondo.
Il paese dimostrò orgogliosamente la propria ripresa dalla devastazione post-bellica ospitando diversi eventi internazionali, su tutti i Giochi olimpici di Tokyo del 1964 e l’Esposizione Universale di Osaka del 1970, ma insieme al fermento economico ne nacque uno sociale che coinvolse principalmente i giovani.
Per le strade fioccarono manifestanti armati di caschi e bambù, socialisti e comunisti presero possesso delle grandi città, movimenti femministi marciarono orgogliosamente per la libertà di abortire e l’esasperazione per l’occupazione americana raggiunse il suo culmine con la deposizione del governo guidato dal primo ministro fantoccio Nobusuke Kishi.
Questo clima di violento cambiamento sconvolse anche l’industria dei manga.
I libri a noleggio caddero in disuso a causa della migliore disponibilità economica, regalando il monopolio del mercato fumettistico alle riviste, che a loro volta cercarono di adattarsi a target più in vista del momento: gli adolescenti e i giovani adulti arrabbiati.
Tuttavia, la vecchia guardia di autori mainstream abituata alle narrazioni infantili si rivelò inadeguata per intercettare questa nuova fascia di lettori, portando gli editori alla ricerca di nuovi autori anagraficamente e ideologicamente più idonei.
Lo stesso Tezuka fu costretto a cambiare drasticamente stile narrativo, incupendosi notevolmente e avvicinandosi ai suoi arcinemici del Gekiga, che invece vissero molto bene questa rivoluzione culturale.
L’opera simbolo della diffusione della contestazione all’interno delle pagine dei fumetti fu Harenchi gakuen (La scuola senza pudore) del 1968, di Kiyoshi “Gō” Nagai, che in futuro sarebbe divenuto il padre di celebri mecha come Mazinger e Grendizer (da noi Mazinga e Goldrake).
Con La scuola senza pudore Nagai infranse tutti i tabù possibili: nudità e violenza gratuite ed esplicite; giovani che si rivoltano alle autorità scolastiche e genitoriali, dipinte come fasciste e inadeguate; ripudio di qualsiasi messaggio pedagogico che vada oltre I vecchi devono morire. Viva i giovani!
Un’opera così controversa non poteva certo restare inosservata in un periodo simile, ed ecco che il settimanale su cui viene pubblicata, Shōnen Jump, e la sua casa editrice Shūeisha balzarono agli onori della cronaca e dei lettori, gettando le basi per quello che sarebbe divenuto in seguito il principale punto di riferimento dell’industria.
Ovviamente la concorrenza non restò a guardare e si dette da fare per promuovere opere che dissacrassero i precetti confuciani di scuola e famiglia, ma a fare la voce grossa più di tutti furono le donne.
Vista l’ondata di emancipazione femminile e la stabilità economica che permise a molte donne di non doversi sposare obbligatoriamente, cominciarono a fioccare un gran numero di lettrici di fumetti alla ricerca di emozioni più forti del malcelato paternalismo della Principessa Zaffiro.
Essendo la maggior parte degli editori composta da uomini di mezza età, fu necessario implementare nello staff editoriale anche nuove leve dell’altro sesso.
Tra il 1970 e il 1985 fecero quindi il loro esordio un gruppo di autrici che divennero note come “i Fiori dell’anno 24“, in quanto molte di loro nacquero intorno ventiquattresimo anno nell’era Shōwa, ossia il 1947.
Moto Hagio (Il Clan dei Poe), Riyoko Ikeda (Lady Oscar – Le rose di Versailles), Yumiko Igarashi (Candy Candy), Keiko Takemiya (Il poema del vento e degli alberi) furono solo alcune delle molte autrici che avrebbero parlato di amori maledetti in cui il sesso spiccava come elemento caratterizzante.
A differenza dello scellerato Nagai, i Fiori dell’anno 24 proponevano storie educative sulla vita e i sentimenti che fossero sì prive di tabù, ma anche di quella cruenza che caratterizzava le controparti maschili.
Grazie a loro nacquero numerosi sottogeneri che avrebbero reso lo shōjo manga un unicum per quanto riguarda l’intrattenimento per ragazze, uno su tutti lo Shōnen’ai (lett. amore tra ragazzi), o boys’ love per gli occidentali, inaugurato da Moto Hagio nel suo Il cuore di Thomas.
Se il manga trovò nella contestazione nuova linfa creativa, i giovani trovarono nel manga delle nuove icone culturali da cui prendere esempio.
I fumetti divennero così uno strumento di lotta politica e quegli stessi eroi di carta che prima davano il buon esempio per sostenere la ricostruzione del paese si trasformarono in simboli delle sue iniquità.
Importante in questo senso fu la fondazione della rivista d’avanguardia Garo nel 1964 per mano di Katsuichi Nagai, la quale ospitò opere come Ninja Kamui di Sanpei Shirato, che come suo padre militò nella Lega degli artisti proletari.
Con Ninja Kamui Shirato denunciò la discriminazione sociale insita nella società giapponese sin dal periodo Edo, rappresentando i ninja (che fino ad allora godevano di pessima fama) come eroi del popolo oppresso.
Il manga ottenne un grandissimo successo nelle università – con grande soddisfazione del suo autore – ma comunque meno della storia di un giovane sbandato che diede senso alla sua vita con il pugilato: Rocky Joe (Ashita no Jō) di Asao Takamori e Tetsuya Chiba.
Il suo protagonista, Jō Yabuki, vive nel Sanya, uno dei quartieri più degradati e proletari di Tokyo, e da lì ascende a stella del pugilato grazie al supporto di un vecchio alcolizzato, Danpei Tange, a cui sono rimaste solo speranze e illusioni. Proprio come i genitori di quei ragazzi degli anni ’60 che non vissero mai quel benessere e quella gioia propagandati da Osamu Tezuka.
Yabuki è giovane, testardo come un mulo e i suoi nemici sono borghesi e stranieri che lo giudicano per il suo passato criminale e la sua estrazione sociale. Proprio come i suoi lettori e i suoi autori.
Asao Takamori (noto anche con lo pseudonimo di Ikki Kajiwara, ma il cui vero nome era Asaki Takamori) era Jō.
Da sempre dedito a una vita di eccessi e giri criminali, vi trovò un senso con la scrittura, pur non mettendo mai davvero la testa a posto, e morì anche lui precocemente a soli 50 anni.
Tetsuya Chiba fu invece tra i giapponesi rimpatriati dalla Manciuria in seguito alla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Tornato in patria visse una vita di stenti e cercò di farsi un nome nel mondo dei manga esordendo nel mercato dei libri a noleggio, entrando così a far parte del movimento Gekiga.
Tale fu l’immedesimazione da parte del pubblico che il nome di Jō cominciò a svettare in tutte le manifestazioni studentesche e persino in un attentato terroristico del 1970, in cui un Boeing della Japan Airlines venne dirottato verso la Corea del Nord al grido di «Siamo tutti Ashita no Jō!»
Inoltre, nello stesso anno, in seguito alla morte di uno dei personaggi più amati della serie venne organizzato un vero funerale.
Ovviamente questa ondata di esuberanza giovanile trovò la totale opposizione dei genitori, i quali si associarono nella PTA (Parents Teachers Associations) per combattere il dilagare del geihin no manga (lett. fumetti volgari).
Il loro primo bersaglio fu Osomatsu-kun di Fujio Akatsuka, ex-membro del Gekiga, che raccontava di sei gemelli pestiferi intenti a seminare il caos in barba agli adulti.
Tra l’altro, vista la grande popolarità della serie, la peculiare posa eseguita dai protagonisti nei momenti di stupore entrò ben presto a far parte dell’immaginario collettivo nipponico e ancora oggi viene imitata e apprezzata. Fu anche per questo che l’attacco del PTA risultò praticamente inefficace.
Un’altra associazione, il Comitato per il benessere degli studenti, riuscì invece nell’intento di mettere al bando in parecchie librerie Ashura di Jōji Akiyama, pubblicato su Shōnen Jump.
Tratto da un racconto della tradizione buddhista, non si faceva scrupoli nel mostrare scene di cannibalismo (anche neonatale) attraverso un tratto grottesco e inquietante, motivo per cui fu il primo manga a essere contrassegnato come Yūgai (lett. dannoso). Questo, unito a varie proteste in piazza al grido di «kawanai! yomanai!» (non compratelo! non leggetelo!) fecero sì che la rivista ne interrompesse la pubblicazione dopo due anni di serializzazione.
Nel complesso questi moti censori, che pure godevano dell’appoggio del governo conservatore, non ebbero mai troppo successo e gli editori continuarono indisturbati a pubblicare più o meno quello che volevano.
Era chiaro che l’industria dei manga, che da li a poco si sarebbe ulteriormente evoluta, era divenuta troppo diffusa e stratificata affinché i genitori potessero ostacolarla.
A rendere l’industria dei manga così potente fu soprattutto un cambio dei metodi di produzione.
I vecchi mensili persero del tutto importanza in favore dei settimanali, che crearono nei giovani acquirenti un’affezione maggiore per il prodotto, indottrinandoli all’acquisto attraverso l’abitudine.
Come accennato in precedenza, il generale miglioramento delle condizione economiche permise ai genitori di concedere delle paghette ai propri figli con cui poter acquistare i beneamati fumetti in totale autonomia.
L’uscita di un numero delle riviste a settimana imponeva contemporaneamente ai mangaka ritmi di pubblicazione più serrati e un numero più ristretto di pagine con cui incuriosire il lettore.
Fu quindi necessario dotarsi di nuove tecniche narrative che velocizzassero il processo creativo, tra cui terminare ogni storia con uno yamaba (colpo di scena).
Ciò avrebbe dato ai lettori non solo un motivo per leggere i numeri successivi, ma anche un argomento di discussione con gli altri lettori, riunendoli in una community.
(ntr. La prossima volta che qualcuno vi dirà che i fumetti sono una droga, saprete che ha ragione.)
Una tale mole di lavoro divenne però ben presto un problema per gli autori, basti pensare che Osamu Tezuka, solo nel 1970, lavorò contemporaneamente a 17 serie.
Molti cominciarono quindi ad assumere degli assistenti che li aiutassero nella realizzazione degli sfondi, dell’inchiostrazione e dei personaggi secondari.
Takao Saito, creatore di Golgo 13 ed esponente del Gekiga, fu il primo mangaka a fondare un proprio studio, dando vita nel 1962 alla Saito Production.
Ebbe inoltre l’intuizione di imporre ai propri aiutanti uno stile grafico riconoscibile e al contempo facilmente imitabile, dando vita a una vera e propria filiera produttiva la cui efficacia portò moltissimi altri autori a imitarlo, tra cui lo stesso Tezuka, che nello stesso anno fondò la Mushi Production.
Molti degli assistenti formatisi in questi studi divennero a loro volta autori di fama mondiale, come Yoshiyuki Tomino (creatore di Gundam e Daitarn 3), Ryoichi Ikegami (Sanctuary, Crying Freeman), o Naoki Urasawa (Monster, Pluto).
Il 1° gennaio del 1963 la Fuji TV trasmise il primo episodio dell’anime Astroboy prodotto dalla Mushi Production, che arriverà a guadagnare in media il 40% di share a episodio.
Grazie alle nuove tecniche di animazione limitata elaborate da Tezuka, la Mushi riuscì ad abbattere enormemente i costi richiesti da i normali prodotti di animazione. Inoltre la lungimiranza del suo creatore nell’appioppare il facciotto del robottino su centinaia di prodotti grazie ad accordi con imprese associate istituzionalizzò la sinergia tra manga, anime e merchandising, fruttando giganteschi profitti al Dio dei manga.
D’un tratto, centinaia di aziende cominciarono a bussare alle porte dei mangaka per sponsorizzare la produzione di opere derivate.
L’azienda di giocattoli Bandai, volendo sfruttare la popolarità dei protagonisti robot, contattò Gō Nagai affinché gli concedesse di adattare Mazinga, Goldrake e compagnia, dando inizio all’Era dei mecha.
Grazie a questo sistema gli sponsor avrebbero goduto di un prodotto con una solida base su cui investire, ma d’altro canto non potevano avanzare eccessive pretese, pena l’inimicarsi i lettori affezionati.
Il successo dell’anime di Astroboy ebbe però un altro grande effetto sull’editoria: la Kōbunsha, editore del manga originale, cominciò a ristampare i vecchi numeri della serie, apparsi originariamente su rivista, raccogliendola in volumetti, quelli che oggi conosciamo come tankōbon (lett. libro autonomo).
Grazie alla crossmedialità i manga videro moltiplicare in breve tempo le loro vendite, tanto che Weekly Shōnen Sunday arrivò a toccare il milione di copie vendute con il numero pubblicato nell’ultima settimana di dicembre del 1966.
La produzione degli anime facilitò inoltre l’esportazione estera, piantando i semi di quella che decenni dopo avrebbe preso il nome di Manga Invasion.
L’entusiasmo e il fermento dell’industria della seconda metà degli anni ’60 portò gli editori a cercare con ulteriore insistenza l’approvazione di nuove fasce fasce di pubblico, prima tra tutte quella dei seinen, i giovani adulti di sesso maschile.
Il primo editore a dedicare un’intera rivista rivolta a loro fu la Futabasha, che il 7 luglio 1967 pubblicò il primo numero di Weekly Manga Action, le cui pagine avrebbero ospitato Lupin III di Monkey Punch e Lone Wolf & Cub di Goseki Kojima e Kazuo Koike.
Gli altri editori, esclusa Shōgakukan, che lanciò la rivista Big Comic, decisero invece di inserire le serie dedicate ai giovani adulti all’interno degli stessi settimanali dedicati agli shonen.
La stessa Shōgakukan finì maldestramente per pubblicare il manga sessualmente esplicito Maria e la Bambola di Osamu Tezuka su Shōnen Sunday, andando ulteriormente a confondere le menti dei giovani lettori e infervorare quelle dei genitori, i quali chiesero (stavolta a giusta ragione) la chiusura di quella serie incentrata sulle avventure di una bambola gonfiabile.
Sul versante femminile la situazione fu ancora più confusionaria, data l’assenza di una categoria specifica che identificasse i manga per giovani donne (per l’avvento del josei manga avrebbero dovuto attendere gli anni ’80). Non era quindi raro trovare fianco a fianco storie d’amore dalle scarse pretese e liceali rimaste incinte in seguito a rocambolesche avventure erotiche.
Peccato che, di lì a poco, le cose sarebbero passate dal confusionario al tragico.
L’inizio degli anni ’70 vide il totale fallimento dei movimenti studenteschi, con oltre duemila contestatori arrestati e quelli che rimanevano che si davano al suicidio di gruppo o a veri e propri atti terroristici. In più l’inflazione e la crisi petrolifera minarono profondamente l’intera economia giapponese.
I manga, che sui movimenti studenteschi avevano investito parecchio, videro di colpo crollare le proprie vendite del 22% e nel 1973 la Mushi Production dichiarò il fallimento a causa (anche) della mala gestione contabile di Tezuka e dei continui dissidi con i suoi collaboratori.
A questi fattori esterni si unirono anche dissidi interni: la competizione tra i mangaka raggiunse livelli esacerbanti, così come i conflitti tra questi ultimi e gli editori, al punto che gli autori del gekiga, ormai divenuti delle vere e proprie star – tanto da guadagnare il quintuplo di un salaryman medio – potevano permettersi di spadroneggiare sulle case editrici.
Tuttavia sia il manga sia il loro dio avrebbero trovato modo di risollevarsi e tornare più forti di prima.
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