INDICE
Dal lancio di Fire Emblem: Three Houses, mostrato per bene a febbraio e uscito nel luglio del 2019, il fandom ha iniziato a radunare tante più persone completamente nuove alla serie, molto più di quanto successo con Awakening e Fates, vuoi per il target molto più variegato della console, vuoi per la campagna pubblicitaria molto più accattivante, vuoi per una qualità maggiore del gioco.
Di conseguenza, è stato registrato anche un gran numero di persone che, dopo essersi interessate al resto della serie, hanno iniziato a chiedere come conviene avvicinarsi ai titoli più vecchi, se c’è un ordine da seguire, se e quanto la serie è cambiata nel tempo.
Da appassionata di lunga data, quindi, ho deciso di stendere una piccola lista di tutti i titoli dal 1990 a oggi, commentandone i lati positivi e quelli negativi dal punto di vista di qualcuno che non ne ha mai giocato nessun altro, o quasi. Il motivo di ciò è che credo fortemente che la mentalità con cui si approccia una serie videoludica e quale gioco si scopre per primo abbiano un enorme impatto sull’esperienza personale che se ne ha.
Voglio infine premettere che questa lista NON HA la pretesa di essere oggettiva, si tratta di miei pareri strettamente personali, di battute molto stupide e di consigli che darei a un amico se mi chiedesse “da dove comincio?”.
Fire Emblem è una serie di RPG strategici a turni creata da Shouzou Kaga. Il gameplay si svolge su mappe formate da una griglia di quadrati, ognuno occupabile da una sola unità per volta, su cui le unità del giocatore e della CPU si muoveranno. I turni sono composti dalla fase del giocatore (indicato in blu), in cui esso potrà muovere quante unità vorrà, una nemica (indicato in rosso) ed eventuali fasi aggiuntive per unità neutre (indicate solitamente in verde).
Le unità guadagneranno esperienza, con conseguente aumento di livello, in seguito ai combattimenti o altre azioni particolari e verranno perse per sempre una volta sconfitte; il Game Over avverrà con la sconfitta del Lord, classe del protagonista della maggior parte dei giochi e termine che si è esteso a indicare i protagonisti in generale.
Oltre al Lord, ogni unità avrà una propria classe, solitamente condivisa con altre unità all’interno del gioco, da cui dipenderanno movimento, statistiche e armi equipaggiabili. Queste ultime in particolare avranno una durabilità a indicarne il numero massimo di utilizzi.
Solitamente l’ordine in cui le mappe vanno giocate è fisso e seguirà la storia, con eventuali mappe opzionali in determinati punti. Infatti la difficoltà delle mappe è pensata intorno alla progressione delle unità del giocatore, ma questo approccio si è molto ammorbidito negli ultimi titoli.
Vediamo dunque i titoli; sono in ordine di uscita cronologico, con riferimento all’anno di lancio giapponese, quindi se siete qui per un titolo in particolare, scorrete pure o utilizzate l’indice!
Da qui nominato semplicemente FE1, Shadow Dragon and the Blade of Light è il primo titolo di questa (s)fortunata serie.
Uscito solo in Giappone, come molti altri giochi di questa lista, riscattò un enorme successo nella madrepatria.
Il gioco in sè è molto semplice, trattandosi pur sempre di un titolo per NES: i dialoghi sono ridotti a poche righe di testo e i ritratti dei personaggi sono poco dettagliati, ma hanno un certo stile tutto loro.
Anche la trama è poco complessa, ma presenta comunque una manciata di personaggi interessanti, giocabili e non, che vale la pena di conoscere.
Purtroppo, la limitatezza dell’hardware va a colpire pesantemente il lato dell’interfaccia del gioco, estremamente scarna e poco intuitiva, che non permette quindi di giocare agilmente senza prima abituarcisi a modo; difetto non da poco, considerando l’importanza della gestione dell’inventario, le unità potranno passarsi armi e oggetti solo e soltanto durante le battaglie, sprecando turni potenzialmente preziosi per un elemento basilare del gameplay.
Il che è davvero un male: il gioco infatti, pur essendo il primo, presenta delle mappe ben realizzate, con ostacoli e obiettivi secondari (come tesori o villaggi da salvare) che mettono il giocatore davanti alla scelta di come dividere le proprie armate, ma con piccole pecche di avere come unico obiettivo Seize, ovvero raggiungere e conquistare una determinata cella della mappa, e di presentare a volte spazi troppo vuoti, costringendo a dedicare interi turni solo al movimento delle unità per andare da A a B.
E’ importante anche notare che il gioco è poco accessibile, essendo uscito su NES e solo in Giappone, è possibile giocarci solo possedendo una WiiU o 3DS giapponesi e conoscendo la lingua o tramite emulazione, con traduzioni fanmade. Questo vale anche per tutti i titoli prima di FE7.
Nel complesso, quindi, non è un gioco che consiglierei come punto di inizio, perché, sebbene lo ritenga un gioco valido, mostra fin troppo di essere figlio dei suoi tempi e quindi meno apprezzabile se si è abituati a standard più moderni. Lo riserverei solo per chi volesse gustarsi la serie in ordine di uscita, per toccare con mano un importante pezzo della storia dei videogiochi strategici.
Gaiden, letteralmente “biografia esterna” o, meglio, “storia secondaria”, seguì la stessa linea di pensiero molto in voga tra i sequel di giochi su NES e che ha portato a completi disastri quali Zelda II o Castlevania II, ovvero introdurre elementi di gameplay particolarmente sperimentali, con risultati molto variabili.
In particolare, Gaiden introduce una meccanica che sarà ripresa solo molti anni dopo dalla serie, ovvero l’introduzione di una mappa del mondo e aree esplorabili liberamente quali villaggi e addirittura dungeon. Sulla mappa del mondo appariranno anche nemici generici a bloccare il cammino, rompendo in parte la progressione quasi perfettamente lineare del gameplay del primo.
Elemento interessante è che ci sono due protagonisti separati ed è possibile proseguire nelle loro route quasi indipendentemente, almeno fino a determinati checkpoint che devono essere raggiunti da entrambi per proseguire. Ovviamente ognuno dei due avrà il proprio esercito separato dall’altro.
Altra grossa differenza è l’assenza di durabilità, ogni unità sarà infatti in grado di attaccare a prescindere dagli oggetti equipaggiati e le armi servono solo ad aumentare le statistiche di chi le equipaggia, oppure la possibilità di scegliere la classe in cui i personaggi evolveranno, con scelte dipendenti dalla loro classe attuale.
Dal punto di vista di un neofita è tuttavia un gioco che sconsiglierei per una serie di motivi; prima di tutto, ha poco senso iniziare una serie da un titolo così sperimentale.
Le mappe sono spesso inutilmente grandi, senza elementi che diano senso allo spazio come tesori o villaggi e quindi frustranti in un gioco dove cavalli e pegasi non abbondano. Esemplari sono le mappe nella palude e nel deserto, che nonostante impediscano il movimento delle unità sono tra le più grandi del gioco.
Inoltre, il gioco spinge molto sulla presenza di incontri casuali nel senso che spesso e volentieri costringe al grinding, elemento inesistente in quasi tutta la saga, al punto da avere una difficoltà Facile la cui unica differenza è esperienza aumentata.
In conclusione, il gioco è un esperimento tutto sommato riuscito, ma si tratta pur sempre di una parentesi che si è chiusa appena si è aperta.
Remake (e mezzo) del primo capitolo, dopo appena 4 anni, Mystery of the Emblem si configura da subito come una versione più pulita e gradevole di Shadow Dragon.
C’è davvero poco da dire in questo caso: il gioco aggiusta alcuni problemi, in particolare a livello di interfaccia e aggiunge del dialogo tra i personaggi, ma la prima parte, che copre il primo titolo a scapito di un paio di capitoli, è grosso modo identica.
Prima parte perché, una volta completata, si avrà accesso a una seconda parte, di durata uguale, che fa da sequel diretto alla prima ed è quella che viene considerata effettivamente FE3.
Spoilerandovi subito che questo non è l’ultimo remake di FE1, credo che iniziare da questo sia un po’ un compromesso: da un lato si resta abbastanza vicini alle origini, spostandosi dal NES al suo successore, dall’altro il gioco è visibilmente più godibile, rimuovendo alcune limitazioni artificiali dovute alla piattaforma.
Se siete interessati a iniziare dalla storia di Marth ma non volete soffrire coi comandi, vi invito a scendere al punto 11 della lista e mettere a confronto questo remake e quello (molto più accessibile) per DS.
Considerato da molti il miglior Fire Emblem della vecchia scuola (e in generale), Genealogy ha introdotto alcune meccaniche che sono diventate capisaldi della serie, prima tra tutte il triangolo delle armi: nei primi tre titoli, infatti, il risultato di un combattimento era deciso unicamente da due fattori: la fortuna (che non ci abbandonerà mai per tutto il percorso) e le statistiche delle unità coinvolte.
Il triangolo ha invece aggiunto un fattore strategico relativamente semplice ma molto efficace: le spade battono le asce, le asce battono le lance, le lance battono le spade.
Questo come si esprime nei fatti? Un’unità provvista di vantaggio sull’altra avrà maggiori probabilità di colpire e meno probabilità di essere colpita.
Anche le magie hanno un triangolo loro, in cui vento batte tuono che batte fuoco che batte vento. Facile da ricordare una volta abituati.
Le eccezioni sono magie di luce e oscurità, che hanno vantaggio su quelle del triangolo e nessun svantaggio, e gli archi, che invece sono del tutto esenti dal sistema.
Altra aggiunta importante è quella delle abilità, legate ai personaggi, caratterizzandoli ed elevandoli dal loro semplice status di “contenitori di statistiche” dando loro una particolare identità e utilizzo.
Stilisticamente un piccolo gioiello d’epoca, gli sprite e le animazioni sono di livello molto più alto rispetto ai predecessori, FE3 incluso, e sono tuttora un ottimo esempio di grafica 16-bit.
Le mappe sono molto accattivanti e fanno un ottimo lavoro nell’immergere il giocatore, sebbene a volte risultino troppo grandi, rappresentando le intere regioni a cui fanno riferimento (è infatti possibile incollarle insieme per ottenere la mappa di quasi tutto Jugdral, il continente del gioco).
Questo è mitigato dalla presenza di tantissime unità a cavallo in grado di muoversi di molti spazi in un turno, ma a scapito di tutte le restanti unità a piedi.
Dalla grandezza delle mappe deriva anche una lunghezza dei capitoli, che spesso possono durare anche intere ore, ma questo non è necessariamente un male, siccome il gioco permette di salvare durante i capitoli senza perdere alcun dato. Se qualcosa dovesse andare particolarmente storta è anche possibile ricaricare un turno precedente, cosa non da poco se si sta cercando di imparare ma che può far comodo a chiunque.
Personalmente, sebbene io lo abbia recuperato solo di recente, è un ottimo titolo per cominciare, consentendo un approccio retro ma con molti degli aspetti che caratterizzano i giochi moderni, con una difficoltà impegnativa ma non eccessiva e accompagnato da una trama fantastica.
Se non sceglieste di cominciare da qui o semplicemente se avete già esperienza della saga, fatevi un favore e cercate di recuperarlo o ancora rigiocarlo, perché offre alcune delle sfide più divertenti e interessanti che abbia incontrato nel campo.
Storia secondaria di Genealogy, ambientata poco dopo la metà della trama, Thracia è l’ultimo Fire Emblem diretto da Kaga, che in seguito lascerà Intelligent Systems.
Il gioco è estremamente difficile, oltre ad aggiungere meccaniche che limitano spesso e volentieri le opzioni del giocatore, che non è un difetto di per sè, ma sicuramente può risultare frustrante anche per un utente mediamente navigato del genere.
Inoltre, a differenza di Gaiden che con Shadow Dragon condivide solo comparse, Thracia è strettamente collegato alla trama di Genalogy e giocarlo prima di quest’ultimo significa ritrovarsi nel mezzo di una storia già in corso e rovinarsi l’eventuale successivo playthrough di FE4.
In definitiva è forse il gioco meno adatto per iniziare, ma se iniziaste da qui e riusciste a finirlo senza troppi intoppi potreste sicuramente vantarvene.
Primo titolo portatile della serie, The Binding Blade ha raffinato alcuni sistemi introdotti in Genealogy, come ad esempio quello dei sostegni tra unità, che sblocca dialoghi aggiuntivi tra due personaggi e li potenzia quando sono posizionati vicini tra loro, a patto che abbiano passato insieme un certo numero di turni.
Il gioco ha temi più leggeri degli ultimi due titoli e risulta più snello da portare avanti, oltre ad avere un comparto grafico molto ben curato, con sprite ben dettagliati e animazioni molto soddisfacenti da guardare, che danno a tutti i titoli GBA un fascino unico.
Il gioco non è esente da difetti, anzi. Prima di tutto, il bilanciamento delle unità. Solitamente, i Lord sono le migliori unità di cui si dispone, o comunque sono molto buoni in ogni fase del gioco, dovendo necessariamente occupare uno slot per schierarli in ogni capitolo.
Roy è una delle peggiori eccezioni a questa regola non scritta, limitato al livello 20 fino all’ultima manciata di capitoli, viene facilmente surclassato da molte delle altre unità di cui si dispone e spesso anche dai nemici, soprattutto se si gioca in Hard mode.
Questo si traduce in una sensazione di impedimento, trovandosi spesso a vederlo più come un peso che una risorsa, considerando che la sua morte significa ricominciare il capitolo da capo.
Normalmente, ricominciare non è troppo fastidioso, a volte può invogliarti a cambiare strategia, ma in questo va considerato il map design di Binding.
Le mappe sono spesso e volentieri un intricato insieme di corridoi, solitamente senza punti di interesse che non siano nemici, comprimendo le distanze percorse e risultando tediose da percorrere.
In sostanza, il gioco ha un’ottima presentazione e una trama buona, ma alcuni aspetti possono renderlo poco soddisfacente da giocare.
Non lo consiglierei personalmente, ma non credo nemmeno sia da evitare.
Piccola curiosità: molti al di fuori del Giappone conoscono Roy tramite la serie di Super Smash Bros, essendo The Binding Blade l’ultimo (finalmente) titolo rilasciato unicamente nella madrepatria Nintendo. Tuttavia, Roy è apparso in Melee mesi prima che uscisse Binding, rendendolo effettivamente un personaggio originario di Smash.
Prequel di Binding, Fire Emblem The Blazing Blade è stato il primo titolo della serie a sbarcare nel resto del mondo, col solo titolo di Fire Emblem.
Solo di recente è stata ufficializzata la traduzione intera del titolo, per via di Fire Emblem Heroes.
La premessa è tutto ciò che serve: Internet e le community videoludiche non erano ancora sviluppati come ai giorni d’oggi e il gioco è stato il punto d’inizio di una generazione intera di fan, che non avevano mai avuto accesso alla serie prima.
Il gioco ha le stesse meccaniche del seguito, con la peculiarità di seguire tre protagonisti: Eliwood, Lyn ed Hector, da sinistra a destra sulla box art, e la trama sarà divisa in tre parti relative al punto di vista di ognuno di loro.
La parte di Lyn è la prima, composta da 11 capitoli, e farà effettivamente da tutorial al gioco, spiegando le meccaniche passo passo mentre vengono incontrate.
Terminata questa, nel nostro primo playthrough, inizierà la parte di Eliwood, che continuerà da lì fino alla fine del gioco. I personaggi incontrati nella parte di Lyn ritorneranno poco più avanti e conserveranno le statistiche che avevano.
Ed Hector? Chiederete. La parte di Hector si sbloccherà una volta terminata quella di Eliwood e si svolge nello stesso periodo ma dal suo punto di vista. E’ generalmente più difficile, ci saranno alcuni personaggi e capitoli in più e diverse variazioni del finale in base alle azioni che svolgeremo. Per accedervi è necessario iniziare una nuova partita, e potremo scegliere di ricominciare da qualsiasi delle tre parti, oltre che di giocare a difficoltà Hard.
A livello di gameplay non è perfetto, cadendo nello stesso errore di Binding per cui i Lord risultano ridimensionati, Lyn in particolare, ma comunque non è grave allo stesso modo, e il gioco presenta delle mappe generalmente più interessanti e più flessibili.
Un altro piccolo neo è quello della trama, un po’ troppo lenta a ingranare, ma che comunque riesce a intrattenere abbastanza, considerando che la durata dei capitoli è ridotta rispetto a titoli più vecchi e si procede più agilmente.
Personalmente lo considero lo standard qualitativo della serie: non eccelle in campi particolari ma non ha gravi carenze e fornisce le basi per gustarsi meglio qualsiasi altro gioco scegliate di giocare dopo.
Il secondo Fire Emblem conosciuto in Occidente, The Sacred Stones fa da tributo a Gaiden, riprendendo varie meccaniche tra cui la mappa del mondo con battaglie aggiuntive incontrabili.
Anche questo gioco ha due protagonisti con due storie (più correttamente, due punti di vista della stessa) e dovremo scegliere tra una delle due a pochi capitoli dall’inizio del gioco.
Meccanicamente e graficamente, non aggiungono particolari elementi che non fossero già stati aggiunti dagli altri titoli per GBA, ma reintroduce l’albero delle classi, messo da parte fino ad ora.
La difficoltà è molto più bassa anche in confronto agli altri titoli GBA, che insieme alla possibilità di grindare esperienza e denaro, rischia di dare cattive abitudini a un nuovo giocatore, essendo un elemento assente nella maggior parte della serie, ma il gioco è comunque divertente e presenta una trama ottima, quindi se mi sento di sconsigliarlo per il motivo qui sopra, è anche vero che consiglio di recuperarlo una volta presa esperienza.
Ritorno della serie su console fissa e primo titolo in 3D, Path of Radiance è un titolo che riprende molti elementi da Genealogy (nonché il mio gioco preferito, ndr.), tra cui anche una trama più matura, ma aggiungendo diverse meccaniche mirate ad accompagnare nuovi giocatori.
Ritorna il sistema delle abilità: ogni personaggio ha un certo numero di slot che possono essere riempiti insegnando loro abilità tramite pergamene sparse per le mappe; il sistema di classi diventa più flessibile: se prima erano necessari degli oggetti appositi, che restano comunque un modo, ora le unità potranno cambiare classe in automatico al livello 21, sempre scegliendo tra più percorsi come acquisire competenza per usare una certa arma invece che un’altra.
A proposito di esperienza, una delle meccaniche migliori introdotte è quella dell’esperienza bonus: svolgere diverse azioni, solitamente espresse abbastanza esplicitamente dai dialoghi dei personaggi a inizio capitolo, conferirà al giocatore dei punti esperienza distribuibili a piacere tra le unità, consentendo di controllare meglio la crescita dei personaggi e dar forma personale al proprio esercito.
Le mappe sono costruite molto bene intorno a questo aspetto, infatti spesso e volentieri diversi percorsi saranno ricompensati da diverso guadagno di esperienza ma daranno premi come oggetti o abilità. A volte sarà anche premiato un approccio evasivo, se si riesce a evitare il combattimento con determinati nemici.
Il gioco introduce anche un nuovo tipo di unità, una razza in grado di cambiare forma da umanoide ad animale in base alla progressione dei turni. Questa razza, detta Laguz, non usa armi tradizionali ed è in grado di attaccare solo in forma animale, ma compensa con ottime statistiche e varie proprietà in base alla specie.
La trama è una delle migliori nella serie, se per alcuni aspetti fa il verso a un pubblico più giovane, per tanti altri richiama tematiche importanti attraverso personaggi verosimili e interessanti, esplorandone nel dettaglio motivazioni e obiettivi.
Purtroppo, se il gioco brilla nel gameplay e nella narrazione, non brilla particolarmente nel settore grafico. Il passaggio da sprite 2D ad animazioni 3D ha permesso di dare una maggior vita e profondità agli scenari ma non rende giustizia alle animazioni di combattimento. Ad esclusione di Ike e pochi altri casi, la maggior parte dei personaggi si muove in modo legnoso e con poca enfasi, rendendo le animazioni noiose e personalmente evitabili.
Il gioco si predispone in ogni caso con l’intento di insegnare e perfezionare le basi del gameplay ai giocatori, e a mio parere ci riesce molto bene.
Se la mia esperienza personale conta qualcosa, Path of Radiance è il gioco che mi ha fatta appassionare davvero alla serie e credo che possa essere così anche per chi lo giocherà in futuro.
Seguito di Path of Radiance, se quest’ultimo si propone di fare da guida al gioco, Radiant Dawn è una delle sfide più ardue della serie.
Avrei molto da dire sul titolo, ma non voglio uscire troppo dal tema principale e, nonostante abbia personalmente amato questo gioco, parlo con piena cognizione di causa quando dico che è totalmente inadatto a un novizio, essendo stato il primo per me.
Parliamo dei perché; innanzitutto, la più grossa differenza degli altri titoli è la meccanica della disponibilità: se prima, una volta reclutata un’unità, questa restava con noi fino alla morte, con poche brevissime eccezioni, in Radiant Dawn ogni capitolo ha una propria lista di personaggi schierabili, questo rende molto difficile un primo playthrough, in quanto si corre il rischio di investire troppo in unità che smetteranno di essere rilevanti in futuro.
Questa meccanica è dovuta a motivi di narrazione, infatti il punto di vista della trama si sposta di continuo tra l’esercito di Ike e Micaiah.
A quest’ultima si deve un’altra difficoltà non da poco: le unità disponibili a Micaiah, inclusa lei stessa, sono per la maggior parte tremende eppure sono necessarie a terminare il gioco.
Nel complesso, anche se alcuni capitoli possono rivelarsi frustranti, è un ottimo titolo, ma sono costretta a sconsigliarlo qui perché richiede di sapersi muovere bene tra le meccaniche che offre e porterebbe qualcuno non abituato a stancarsi e basta, cosa che un gioco, qualsiasi esso sia, non dovrebbe fare.
Ennesimo remake di Shadow Dragon, con questo titolo la serie torna su una console portatile e, se consideriamo tale la Switch, non le ha ancora lasciate.
A livello di contenuti non c’è molto da dire: il gioco racconta di nuovo la storia del primo, ma portandosi insieme le meccaniche aggiunte negli anni, tra cui il triangolo, cambiamenti ai calcoli nelle battaglie e molte classi. A livello grafico, lo stile risulta molto più grezzo dei titoli GBA, nonostante appartenga alla generazione successiva, ma è comunque abbastanza piacevole da guardare.
Sono presenti anche delle novità: in particolare nuovi capitoli che permettono di reclutare nuovi personaggi e la possibilità di cambiare classe in una totalmente diversa, aggiungendo quel filo di rigiocabilità per chi vuole sperimentare diverse build.
Una piccola chicca è la prima iterazione di un sistema di gameplay multigiocatore, che vi permette di sfidare altri giocatori, anche se la natura del gioco mal si adatta al multiplayer è un’aggiunta interessante.
Unico titolo di Archanea (il continente in cui si svolge) a uscire fuori dal Giappone, è sicuramente il modo migliore per leggerne la trama, con lo svantaggio di avere un feeling estremamente diverso, sia per puri avanzamenti tecnici che per differenze nel gameplay.
Arrivato alla fine del ciclo di vita del DS, il remake di Mystery of the Emblem è rimasto confinato al Giappone.
Ovviamente, essendo Mystery già un remake di FE1, New Mystery fa riferimento solo alla seconda parte, anche qui aggiungendo capitoli e personaggi, ma l’unica novità che merita di essere menzionata è quella dell’avatar giocabile.
New Mystery infatti introduce un personaggio personalizzabile nella classe e nel nome (Kris di default) che fa essenzialmente da self insert del giocatore e che accompagnerà Marth per tutto il gioco.
Il feeling del gioco è molto più simile ai successivi, ma non vedo un vero motivo per iniziare da qui, essendo essenzialmente un modo più comodo di giocare Mystery.
Gioco che segna il rebranding della serie a 5 anni dall’ultimo titolo originale, Awakening ha una reputazione molto controversa all’interno della fanbase.
Awakening ancora una volta inserisce la mappa del mondo e modifica il sistema di supporti: se prima ogni unità aveva solo un certo numero massimo di sostegni, ora ognuno potrà legare con la maggioranza del cast, sbloccando dialoghi per ognuno di loro.
Se sulla carta è una novità interessante, nella pratica questo si traduce in un enorme incentivo al grinding, ricompensato da dettagli sulle vite personali dei personaggi e reso facile dalla quantità esagerata di incontri casuali per la mappa, che insieme a una difficoltà e varietà delle mappe molto bassa, significa portare il giocatore a effettivamente non giocare quanto a guardare una cinematic della sua unità preferita che completa intere mappe da sola.
Difficoltà che poteva permettersi di osare molto di più, data l’introduzione di una modalità senza morte permanente e data la personalizzazione estremamente libera dell’esercito.
Senza guardare il bilanciamento, a livello di gameplay il gioco modifica il sistema di classi introducendo vere e proprie abilità personali, che definiscono particolarmente i personaggi e abilità di classe, non più insegnate tramite oggetti ma imparate tramite level up. Questo consente, insieme al sistema di cambio classe ereditato da Shadow Dragon, di buildare le unità come più ci aggrada.
Tuttavia, trovo che questo sistema sia, per quanto interessante, sprecato: gran parte delle abilità hanno impatti estremamente marginali, mentre poche altre rendono un buon personaggio una macchina da guerra, portandone all’abuso e appiattendo il gameplay invece di arricchirlo.
Unendo questo a una trama sconnessa e personaggi spesso monodimensionali, ritengo il gioco una noiosa e grigia passeggiata, che può diventare davvero divertente solo se ci si pone come obiettivo quello di vedere quanto si possono rompere le regole.
La lezione di Pokemon applicata a Fire Emblem, Fates è stato rilasciato in due versioni più una terza DLC, differenti per trama, unità reclutabili e mappe, ma che condividono lo stesso engine.
Engine che parte da quello di Awakening, aggiungendo tantissime classi e abilità e bilanciando quelle già presenti, ma fa l’occhiolino a Gaiden rimuovendo gli utilizzi dalle armi. In questo caso, invece di essere differenti solo per statistiche, anche le armi più semplici sono caratterizzate da effetti particolari legati al grado, come ad esempio impossibilità di critico per le armi più deboli o un debuff autoinflitto dopo aver usato quelle più forti.
Due delle parti, Birthright e Revelation, sono pressoché identiche per i nostri scopi e ricalcano gli stessi difetti di Awakening, se non li inaspriscono.
Anche in questo caso abbiamo grinding fin troppo incentivato, mappe poco originali (quasi tutte del tipo “elimina tutti i nemici”) e difficoltà infima, risultando anche queste in un gioco che offre poco se non una tela bianca.
La terza, Conquest, si configura invece da subito come la versione impegnativa. La differenza principale sta nella rimozione del grinding (mappe DLC escluse) e in mappe puntate ad approcci meno diretti, anche se a volte troppo ovvie.
In particolare si diverte a fare largo uso delle vene di drago, caselle che, se attivate da certi personaggi, cambiano la morfologia delle mappe o applicano effetti (come cura, danni, veleno) alle unità in un’area.
Probabilmente la migliore delle tre parti se vogliamo restare vicini alla serie, purtroppo Conquest è tirato indietro dalla peggior trama delle tre e possibilmente di tutte. Ritengo comunque che sia il titolo 3DS più adatto a qualcuno di nuovo, anche se non brilla per proprio merito.
Titolo che mi fa sperare in una nuova serie di remake ma di cui è tuttora il solo membro, Fire Emblem Echoes: Shadows of Valentia dà un volto completamente nuovo a Gaiden, diventando probabilmente il titolo con il miglior comparto grafico e artistico di tutta la saga.
Purtroppo, se visivamente è davvero un gioiello, il gameplay è preso pari passo dall’originale, con tanto di rimozione del triangolo e sistema di equip e solo qualche aggiunta nella forma di poche unità e un bilanciamento delle statistiche, che se non altro lo rendono molto meno tedioso da affrontare, e una meccanica che consente di ricominciare un numero limitato di turni, per recuperare piccoli errori o un fattore RNG poco amichevole.
Le mappe sono perfettamente identiche all’originale, che se da un lato è un bene, per un fattore di identità, dall’altro è un incredibile male, considerando come il map design fosse uno dei più grandi difetti non legati all’hardware. Questo è compensato dalle mappe DLC molto ben fatte, ma è anche vero che al contrasto con quelle principali le fanno risultare anche peggiori.
In definitiva il gioco si propone come la miglior incarnazione possibile di un titolo risalente al 1992 che ne mantenga il feeling, ma essere il bellissimo remake della pecora nera ti rende solo una bellissima pecora nera.
Il primo titolo menzionato e l’ultimo della lista, Fire Emblem Three Houses non ha probabilmente bisogno di presentazioni, ma mi sembra giusto dargliene una.
Particolarmente innovativo, l’enorme novità di Three Houses è quella di rivoluzionare completamente il sistema di classi, lasciando al giocatore il più completo controllo su chi e come giocare. Considerando come la trama segua quattro percorsi diversi e vada quindi rigiocato più volte, questo sistema fornisce quel pizzico di rigiocabilità in più che aiuta a non perdere l’interesse.
Molto divertente, anche se con un certo numero di alti e bassi, il gioco sperimenta anche l’introduzione di attacchi ad area e nemici che occupano più spazi, solitamente boss ma non solo, permettendo di aggiungere più interattività allo scontro con unità particolarmente forti.
Il più grande difetto che trovo è il numero molto basso di unità reclutabili, che insieme al tempo che è necessario investire nelle singole unità, rende la morte molto più pesante da reggere, sia a livello di gameplay, perché no tutte le unità trovano facilmente rimpiazzo, che dovrebbe comunque essere reclutato nella prima parte del gioco, sia a livello mentale, perché meno personaggi vuol dire legarsi molto di più a quelle che si hanno.
Considerando come la morte permanente sia stata un elemento caratterizzante che ha segnato la saga in ogni sua iterazione, è brutto vedere come questo titolo non ti dia i mezzi per superarla ma per evitarla a ogni costo, rendendo ancora più potente la meccanica di riavvolgimento dei turni introdotta da Echoes.
Credo che questo cambiamento sia dovuto a un cambiamento nell’approccio alla narrativa: se prima la trama era molto coesa e centrata sugli avventimenti, ora c’è una galassia di storie secondarie e antefatti riguardanti i singoli personaggi, portando il focus su ognuno di loro e rendendolo quindi estremamente più prezioso.
Nonostante questo importante neo, penso che il titolo sia un valido benvenuto, anche solo per l’attività della fanbase e la sua facile reperibilità, perché il bello di giocare è anche poterne parlare con gli altri.
Sebbene vi consigli di giocare almeno una volta quanto più blind possibile, ci sono importanti progetti messi su dal fandom per radunare informazioni e segreti riguardo ogni singolo titolo, dal semplice accesso al finale segreto all’ultima delle statistiche invisibili, e che possono rivelarsi utili in diverse situazioni o anche solo per soddisfare certe curiosità.
Serenes Forest è forse quello più dettagliato, e contiene anche informazioni sugli spinoff e sui giochi ideati da Kaga in seguito alla sua separazione da Intelligent Systems, che ritengono molti elementi della serie ma che non ho considerato il caso di aggiungere qui.
Terminata questa carrellata di titoli, nozioni e quant’altro, mi auguro di non aver annoiato e vi auguro di mantenere una mente aperta mentre esplorate la serie:
Giocate a modo vostro e ricordate che la prima esperienza sarà unica e irripetibile, non inseguite il completismo a ogni costo se per fare ciò dovete dipendere da conoscenze altrui, perché il bello di questo genere di giochi sta anche nella sfida con sé stessi.
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