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“Midsommar – Il villaggio dei dannati”, la recensione

Midsommar - Il villaggio dei dannati

0.00
8.1

Comparto Tecnico

9.0/10

Cast

7.0/10

Scrittura

7.0/10

Regia

8.5/10

Direzione Artistica

9.0/10

Pros

  • La regia da manuale
  • L'anteporre la suggestione e l'inquietudine allo spavento facile
  • La riproposizione di un horror sociale
  • Protagonisti veri e ben caratterizzati

Redigere un’analisi quanto più completa possibile di Midsommar – Il villaggio dei dannati è come parlare di Sylvester Stallone senza citare il suo passato da attore di film a luci rosse: difficile, ma non impossibile.

Il secondo lungometraggio horror diretto dal regista Ari Aster – che già aveva debuttato alla grande con Hereditary – Le radici del male – lo consacra definitivamente come uno dei migliori cineasti del panorama odierno, contribuendo insieme ad altri gioielli come il Suspiria di Luca Guadagnino e The VVitch di Robert Eggers a svincolare il genere horror dalla deriva tremendamente superficiale ed infantile degli ultimi 30 anni.

Ma se Guadagnino ha percorso un filone orrorifico basato puramente sulla narrazione per immagini e gli esaltanti virtuosismi, svincolando la sua opera da un sottotesto forte, Aster, come Eggers, riesce invece a conciliare un’estetica suggestiva alle turbe umane e sociali, puntando il suo occhio critico (la camera) con precisione chirurgica per più di due ore di film senza sbavare neanche una volta.

Non è un caso che il sottotitolo italiano di Midsommar sia Il villaggio dei dannati, richiamante l‘omonimo film del 1960 diretto da Wolf Rilla, del quale John Carpenter realizzò un altrettanto esaltante remake nel 1995 con protagonista Christopher Reeve. Sia il film di Aster che quelli di Carpenter e Rilla, chiudono la propria narrazione all’interno di una comunità isolata, dove tutti si conoscono e sembrano gentili gli uni con gli altri, fino all’avvento di un fattore esterno che ne sconvolge gravemente le abitudini.

Midsommar: La paura del relativismo

L’incipit di Midsommar vede un gruppo di 5 ragazzi recarsi in Svezia, nella comunità natia di uno di loro. Ogni membro ha una motivazione personale per recarsi in terra scandinava, cosa che permette immediatamente di distinguere il cast di protagonisti, che fin da subito si dimostra eterogeneo e ricco di contrasti interni.

Tale incipit viene narrato attraverso un cappello introduttivo iniziale in cui possiamo apprezzare immediatamente l’occhio compositivo di Aster, capace di comporre l’immagine a schermo in modo tale che risulti sempre perfettamente bilanciata, spesso appellandosi alla sezione aura. Più volte nel corso del film i cinefili più incalliti proveranno a cercare per sfida un’inquadratura che sia anche solo vagamente sbilanciata, fallendo. Persino nei complicati movimenti sull’asse effettuati tramite dolly è stato impossibile trovare sbavature.

I primi minuti di Midsommar sono l’essenza di tutto ciò che verrà dopo. In pratica la quasi totalità dei messaggi e dei sottotesti è insita nella prima mezz’ora. Sentimento di abbandono, depressione, ostracismo, menefreghismo, frustrazione sessuale, insieme ad un interessante spunto sul relativismo culturale che sopraggiungerà una volta che i protagonisti avranno raggiunto il villaggio, portano Midsommar ad essere un film non solo estremamente e sfacciatamente estetico, ma anche contenutisticamente pregno e, per alcuni, pretenzioso.

Tali contenuti non vengono fuori attraverso lunghi monologhi o scene forzatamente sensazionalistiche, bensì dalla semplice ed efficace interazione tra i personaggi e l’ambiente che li circonda. Come capiamo il sentimento di abbandono, la depressione l’insicurezza e l’ansia patologica del personaggio di Dani? Attraverso i suoi scambi di mail con la sorella e il conseguente affidarsi morbosamente al suo fidanzato. Come capiamo la sua dipendenza da quest’ultimo? Dal fatto che lei cerchi a tutti i costi di trattenerlo e si scusi continuamente con lui pur di farlo rimare semplicemente nella stessa stanza.

Stessa cosa per i problemi di Christian, il suo ragazzo. La sua frustrazione viene fuori da una conversazione con gli amici al bar e dal confrontarsi con numerose tentazioni alle quali riesce a malapena a resistere, spesso frutto dall’egoismo degli amici che vedono nella ragazza una palla al piede e un danno per la libertà dell’amico, cosa in fondo abbastanza vera.

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Nessuno dei due ha totalmente ragione e questo lo capiamo dal finale allegorico, dove la protagonista giunge alla fine del suo percorso cancellando le altalenanti relazioni passate perché ormai ha trovato nuovi affetti che non la giudicano, la accettano e la proteggono incondizionatamente. E così il relativismo diventa non solo inter-culturale (vita al di fuori della comunità – vita all’interno della comunità) ma anche inter-personale (il desiderio di spazio di Christian – la condizione di profondo disagio di Dani). In Midsommar il trionfo del male consiste nella prevaricazione totale dell’uno nei confronti dell’altro (la condizione di chiusura assoluta della comunità che non permette la contaminazione di fattori esterni e il desiderio di accettazione di Dani che prevale sulla morale).

I protagonisti di Midsommar sono quindi veri e affatto macchiettistici (tranne forse uno), consentendo allo spettatore di empatizzare perfettamente con loro e sperando sinceramente che riescano ad uscire indenni dalla loro situazione, a differenza degli altri film horror dove l’unica speranza dello spettatore, posto di fronte ad una sequela di personaggi assolutamente demenziali, è quella di vederli morire nel modo più atroce possibile.

Ricorrente all’interno del film è l’immagine riflessa. Più volte i personaggi si troveranno di fronte ad uno specchio o una parete lucida che ne riflette il volto. Lo specchio simboleggia l’immagine vera e oggettiva dell’individuo (“l’anima”, se vogliamo), non è quindi un caso che compaia proprio nei momenti in cui i personaggi rivelano davvero quello che sono. Nel caso di Josh – giusto per parlare un po’ degli altri personaggi – ciò accade quando mostra al pubblico la sua avidità di conoscere segreti che gli sono stati espressamente preclusi.

L’orrore all’interno di Midsommar viene dettato dalla costante tensione sociale che permea ogni battuta pronunciata dai protagonisti. Ciò non fa altro che aumentare a dismisura il disagio del ritrovarsi con persone con cui non si vorrebbe avere a che fare, senza però avere il coraggio di troncare definitivamente i rapporti per paura di peggiorare la situazione o rimanere soli. Le scene splatter e gore ci sono, ma non aspettatevi alcun jump scare, perché anche queste sono finalizzate, nella loro morbosità, ad instillare nello spettatore lo stesso senso di inquietudine ed estraniamento dei protagonisti. Sono comunque realizzate a regola d’arte in maniera totalmente artigianale, cosa ancora più impressionante se si pensa al budget di appena 9 milioni di dollari.

È il caso però di focalizzarsi sul secondo elemento orrorifico fondamentale di Mindsommar: il concetto di comunità isolata. La comunità di Midsommar rappresenta l’estremizzazione di altri costrutti sociali simili; isolazioniste, basate sulla condivisione ossessiva (senza rivelare troppo, l’intera comunità condivide sia il dolore che il godimento), con una struttura gerarchica geriatrica e fanaticamente attaccate a valori ancestrali religiosi ed esoterici (i riferimenti ai riti sacrali scandinavi all’interno del film si sprecano). Eppure, a questi innegabili difetti, si aggiungono altrettanti pregi, come l’affetto incondizionato di cui ogni membro gode, l’appartenenza ad un gruppo protetto, sicuro e unito. Tante cose che minano fin dall’inizio le certezze dello spettatore, il quale, come detto sopra, troverà risposta solo quando il relativismo lascerà spazio alla prevaricazione.

C’è da dire però che questo film qualche sbavatura, almeno in fase di scrittura, ce l’ha. L’esempio più eclatante è la sottotrama del personaggio di Pelle, la quale serve solo come pretesto narrativo e non aggiunge nulla di concreto al resto, così come il personaggio di Mark, la cui indole macchiettistica, sebbene aggiunga varietà e colore al gruppo, risulta essere piuttosto fine a sé stessa, a meno di una lettura abbastanza forzata della scena dell’albero come espressione del menefreghismo dell’era moderna nei confronti dei reperti storici e culturali di altri paesi.

Midsommar – Il villaggio dei dannati è un film horror assolutamente imperdibile, ricco di intuizioni, virtuosismi mai fini a sé stessi (persino quella rotazione di 180° della camera quando il gruppo si sta avvicendando verso il villaggio rappresenta il capovolgimento dello status quo a cui stanno andando incontro) e tanta voglia di ridare dignità ad un genere diventato da troppo tempo una caricatura di sé stesso. Il suo ispirarsi ai classici autoriali del genere senza privarsi di una propria identità lo rende un prodotto squisitamente post-moderno d’indubbio intrattenimento.

Stiamo parlando di un capolavoro? Assolutamente si.

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Vittorio Pezzella

Cercò per lungo tempo il proprio linguaggio ideale, trovandolo infine nei libri e nei fumetti. Cominciò quindi a leggerli e studiarli avidamente, per poi parlarne sul web. Nonostante tutto, è ancora molto legato agli amici "Cinema" e "Serie TV", che continua a vedere sporadicamente.

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Vittorio Pezzella
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