Polar, film del 2019 prodotto da Netflix, diretto da Jonas Åkerlund e avente protagonista Mads Mikkelsen nei panni del killer in pensione Duncan Vizla, alias “The Black Kaiser”, aveva tutte le carte in regola per essere un film interessante, in particolare un buon cast e un’estetica accattivante.
Tratto dall’omonimo fumetto di Victor Santos, pubblicato in italia da Panini Comics (che potete recuperare qui), Polar è invece un action-noir che offre poco sia come action che come noir.
Ogni virgola al suo interno è banale e clichettosa. Il “già visto” permea ogni istante della pellicola, dai titoli di testa a quelli di coda, facendo di questo un film che vive di pura patinatura, la quale non riesce però a nasconderne gli evidenti problemi sia di scrittura che di semplice messa in scena.
Spesso gli eventi che si susseguono al suo interno mancano di rapporti causa-effetto, oppure risultano incredibilmente forzati, come l’apparizione nella seconda metà del film di Jasmine, della quale non si era fatta menzione fino a quel momento, che non si capisce chi sia, perché si trovi lì e quale sia il suo reale rapporto con il protagonista.
I personaggi sono a dir poco piatti, a cominciare dal protagonista, interpretato da un Mads Mikkelsen (Hannibal) costretto per tutto il tempo ad impersonare una sagoma di cartone la cui psicologia lo inserisce nell’abusatissimo club dei “duri apparentemente spietati ma buoni dentro“. Insomma, una roba già vecchia negli anni ’80, quando questo tipo di antieroi spopolava.
I comprimari non valgono neanche la pena di essere nominati, a parte una Ruby O. Fee il cui ruolo è esclusivamente quello di darla in giro, che in un’epoca in cui le donne cercano disperatamente di emergere al di fuori dell’immagine di seni e chiappe ambulanti, risulta non solo anacronistico, ma a tratti irritante nella sua vana ostentazione (dell’eccessiva lunghezza delle scene inutili parleremo più avanti).
A dare l’impressione peggiore è però l’antagonista principale, talmente irritante, stupido e macchiettistico da risultare patetico. Blut, questo il suo nome (interpretato dall’anche lui sprecatissimo, ma qui lo sono tutti, Matt Lucas) è un grasso eccentrico con la parrucca (in realtà è pelato) che gestisce un’organizzazione criminale. In pratica è il dottor Male della saga di Austin Powers, solo che non è una parodia, anche se fa ridere lo stesso per i motivi sbagliati.
Ritrovatosi con ingenti debiti da pagare, Blutt dichiara di aver elaborato un piano tempo addietro per avere di nuovo il bilancio positivo. In pratica, la sua “politica amministrativa” consiste nel mandare in pensione i killer al suo servizio appena questi raggiungono i 50 anni di età, facendogli firmare un contratto che prevede, in caso di una loro prematura dipartita, il ritorno del denaro alla sua organizzazione.
Questo piano ha talmente tante falle da rendere ridicola l’intera premessa di Polar.
Tali falle (di cui solo una parte verrà riportata per amor di sintesi) hanno strettamente a che fare con il fattore casualità:
Altra prova di assoluta intelligenza e maturità da parte di questo mal scritto antagonista si rileva nel suo volere a tutti i costi sbarazzarsi del protagonista, nonostante questi dimostri di non volere niente da lui e gli abbia macellato da solo l’intera organizzazione. Più volte gli verrà offerta l’occasione di lasciar perdere, puntualmente rigettata perché ha preso la questione sul personale. Un atteggiamento degno di un bambino viziato, non certo di un potente capo criminale.
Il modo in cui questi personaggi interagiscono è altrettanto irritante, dato che i dialoghi sono composti da una sequela di frasi sconclusionate in cui concetti chiarissimi vengono ripetuti costantemente come nelle peggiori fiction italiane, mentre quelli che dovrebbero dare un senso alla storia vengono totalmente ignorati.
Non c’è uno scambio brillante, un monologo interessante, o anche solo una frase ad effetto che dia allo spettatore un motivo per ascoltare gli attori. Il dialogo finale, che dovrebbe essere il punto di tensione più alto del film, risulta invece il più comico. Vedere Meds Mikkelsen e Vanessa Hudgens ripetersi le stesse parole all’infinito – evidentemente disperati per il fatto che quella scena non finisca mai e porti ad un colpo di scena altrettanto superfluo- è stato a dir poco imbarazzante.
E’ vero però che molti film action – come ad esempio Atomica Bionda o la saga di John Wick, da cui questo Polar attinge a piene mani – seppur non originalissimi nella scrittura (ma neanche così bucati e totalmente illogici come questo), risultano ugualmente validi grazie ad una regia solida, un montaggio serrato, coreografie adrenaliniche e personaggi carismatici.
Escludendo questi ultimi, di cui abbiamo già ampiamente discusso, la regia di Polar è a dir poco confusionaria, che è la cosa peggiore per pellicole del genere, in cui le scene dinamiche devono essere sempre chiarissime per permetterne la fruizione al meglio.
Jonas Åkerlund è un regista e musicista che ha lavorato molto nell’ambito dei videoclip. Persino il suo primo film Lords of Chaos, per quanto sui generis, era un film musicale. Questa sua estetica, sebbene porti ad alcune soluzioni simpatiche (come l’apparizione di testi a schermo che introducono i personaggi, anche qui però già visti e già fatti in migliaia di altri film) di contro ne esplicita le enormi mancanze in merito di pura grammatica cinematografica.
La camera è sempre mossa, anche nelle scene statiche, una soluzione adottata tipicamente dai registi di infimo livello per dare un senso di freneticità ai loro prodotti, fallendo miseramente. Come se non bastasse, Åkerlund dilata esponenzialmente i tempi in molte scene di raccordo, rallentando così il ritmo nel pedestre tentativo di creare una tensione che non viene mai fuori, spesso anche a causa della banalità della sceneggiatura.
La scelta delle inquadrature è sempre blanda, quando non addirittura errata, cosa che enfatizza la sua assoluta ignoranza per quanto riguarda la resa dello spazio in cui si muovono i personaggi.
Spesso infatti Duncan sembrerà teletrasportarsi senza alcuna spiegazione in posti lontanissimi e addirittura circondati dall’acqua. Lo spettatore non riesce quindi a farsi un’idea chiara delle ambientazioni, già difficili da mettere a fuoco a causa del montaggio frenetico e a dir poco inopportuno.
I vari stacchi sembrano appiccicati con lo sputo, spesso non avendo alcuna correlazione tra loro o presentando palesi errori di continuità nella posizione e gestualità degli attori. Tutte cose che, ancora una volta, non fanno altro che spezzare il ritmo e confondere lo spettatore.
Fortunatamente, le coreografie di Polar sono talmente semplici (leggi: sciatte) da riuscire a limitare, almeno in parte, questo turbinio di stacchi shakerati. Anche se non si capisce come Duncan – sebbene sia spesso totalmente scoperto e circondato in ambienti angusti da decine di uomini armati – non si becchi mai un colpo in testa (per ulteriori informazioni in merito, leggere qui).
A lasciare ulteriormente basiti è la quasi totale assenza di musiche e di un comparto sonoro degno di nota, cosa che da un regista di videoclip a sua volta musicista non ci si aspetterebbe mai.
Eppure questo Polar, nonostante le soluzioni telefonate e l’incapacità del suo regista, ha dalla sua un’ottima fotografia che, sebbene cozzi tremendamente con l’impronta noir della sceneggiatura, ne esalta invece le sequenze action e in generale quelle più movimentate (come i fashback di Duncan o la scena della tortura). I colori sono sempre accesissimi, andando a braccetto con i character design cartooneschi, i fiumi di sangue e le scene gratuite che riempiono buona parte del minutaggio, dando almeno un buon motivo allo spettatore per farsi venire il mal di testa.
Il vero problema di Polar è che si prende davvero troppo sul serio. Se il tono fosse stato più ironico (alla Die Hard o Atto di forza) questo film avrebbe intrattenuto molto di più risultando, paradossalmente, meno ridicolo. Così com’è rimane un film mediocre in tutti i suoi aspetti, dalla durata eccessiva (almeno quaranta minuti su due ore potrebbero essere benissimo rimossi e nessuno se ne accorgerebbe), addirittura pretenzioso nel suo voler essere un starting point per una possibile saga.
E’ difficile dire se valga i suoi 120 minuti di visione. Visti i suoi problemi verrebbe da dire “no”, eppure, stranamente, non ci si pente troppo di averlo visto, ma c’è sicuramente molto, moltissimo di meglio.
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