Shonen e shojo; seinen e josei; kodomo e young. Chi è appassionato di anime e manga si sarà sicuramente imbattuto molte volte in questi termini. Magari, proprio perché li avrà incontrati così spesso, crederà anche di conoscerne bene il significato.
Purtroppo, come accade nel caso di altre parole importate dal Giappone – otaku e mangaka su tutte – queste sono oggetto di numerosi fraintendimenti. Non solo per quanto riguarda la traduzione letterale (che pure verrà approfondita in questa sede), ma anche dal punto di vista del significato nel contesto di appartenenza.
Andremo quindi ad analizzare alcuni di questi termini per sfatare credenze e pregiudizi che li riguardano, a cominciare dal più importante: quando ci riferiamo agli shonen, shojo e compagnia non parliamo di generi, bensì di target.
Genere è un’altra parola che, nel contesto dell’intrattenimento e non solo, ha subìto storpiature da parte dei non addetti ai lavori. Pur essendo un termine ricco di sfumature, possiede in realtà delle connotazioni sintattiche molto precise. A grandi linee, potremmo dire che il genere di una storia è un insieme di caratteristiche simili che accomunano un certo gruppo di opere. Potrebbe sembrare una definizione aleatoria (oserei dire “generica”, ohohoh, ndr) eppure permette di inquadrare perfettamente il problema alla base del fraintendimento.
Ancora oggi è possibile sentire amenità come il genere romanzo quando si parla di libri, o il genere lungometraggio quando si parla di film. In questi casi si equivoca il genere con la forma, in quanto gli unici aspetti che accomunano tutti i romanzi e tutti i film sono la narrazione in prosa e il superamento di un certo minutaggio (appunto, la forma con cui vengono prodotti), ma ogni gruppo di romanzi/film ha contenuti variegati che prescindono dalla forma adottata. Nel caso degli anime e dei manga, invece, il concetto di genere viene confuso con quello di target.
Con target, traducibile come obiettivo o bersaglio, intendiamo il pubblico a cui è idealmente destinato un prodotto. Alla base di ogni produzione c’è infatti uno studio sulle possibili categorie di persone a cui appioppare un dato prodotto. Ad esempio: la storia di una gabbianella ferita che fa amicizia con un gatto difficilmente potrà risultare interessante o avvincente per un cinquantenne, che di soggetti del genere avrà già letto e riletto. Viceversa, un thriller ambientato nel mondo dell’alta finanza potrebbe rivelarsi ostico per un dodicenne il cui unico rapporto con il denaro consiste nello shoppare skin di Fortnite.
Ovviamente si tratta di assolutismi, ma bisogna tener conto che il concetto di target non è un qualcosa che di solito interessa gli autori, quanto più editori e produzioni, i quali ragionano per grandi numeri. A questo punto, però, a voi che state leggendo potrebbe sorgere spontanea un’obiezione: “Ma scusa, io leggo un sacco di manga shonen/shojo e vattelapesca, e in tutti quanti succedono più o meno sempre le stesse cose. Perché quindi non dovrei considerarli dei generi?“
La risposta spietata è che chiunque abbia pensato questo dovrebbe decisamente diversificare le proprie letture. In una precedente serie di articoli sull’evoluzione del manga abbiamo infatti analizzato il motivo di un certo appiattimento della produzione di shonen dagli anni ’80 in poi. Per semplificare, possiamo dire che gran parte della produzione manga ha deciso di associare sempre più spesso il target a un determinato genere per una questione puramente commerciale, generando quindi la confusione di cui sopra. Per gli shonen il genere era il battle manga (a tutti i ragazzini piacciono le mazzate, no?); per gli shojo la romance comedy (a tutte le ragazzine piacciono i tira e molla amorosi, no?); per i seinen il thriller introspettivo (tutti i giovani adulti di sesso maschile sono degli incel, no?); per i josei il drama storico (tutte le giovani adulte di sesso femminile sono noiose, no?) e così via.
Ancora oggi sembra che i manga appartenenti a un determinato target si somiglino tutti, ma solo perché gran parte di loro è prodotta con lo stampino, attingendo quasi sempre allo stesso genere. La realtà è che non tutti gli shonen seguono la grammatica dei battle manga (vedi Bakuman); non tutti gli shojo sono romance comedy (vedi Nobiltà contadina di Hiromu Arakawa) ecc. In certi casi è addirittura possibile che un seinen adotti dinamiche da battle manga (vedi Tenkaichi), o che uno shonen presenti stilemi tipici della commedia romantica (Ranma 1/2).
Associare il target al genere non è solo sintomo di pigrizia e ignoranza nella scelta delle proprie letture, ma influisce negativamente sulle offerte di mercato, in quanto incoraggia i produttori a non investire su nuove idee. Senza nuove idee non c’è la roba buona, e senza la roba buona i prodotti basati unicamente su pregiudizi trovano la strada spianata. In pratica è come autorizzare le case editrici di manga a definire i propri lettori degli stereotipi.
Chiariti i dubbi del caso, passiamo ad analizzare alcuni target parecchio gettonati, a cominciare dal kodomo (lett. bambino/a).
Come lascia intuire la parola (varrà anche per i target successivi) si tratta di fumetti e cartoni destinati a un pubblico pre-scolare o frequentante i primi anni delle elementari. L’associazione al contesto scolastico è molto sentita dai produttori, i quali cercano di adattare la loro offerta anche in base alle nozioni acquisite dai piccoli lettori e spettatori nel periodo didattico (si parla in questo caso di targettizzazione). Per il target kodomo questa associazione è ancora più sentita, in quanto i prodotti destinati a un pubblico infantile sono spesso connotati da un palese mix di pedagogia e commedia che coinvolge protagonisti della stessa età del loro pubblico (anche quest’ultima caratteristica varrà per tutti gli altri target). Il tutto per convincere i genitori dei piccoli lettori che non stanno foraggiando i loro pargoli con prodotti dannosi o stupidi.
Nonostante vengano spesso snobbati dalla critica, i manga kodomo sono in realtà gli eredi della più antica tradizione di fumetti commerciali. Molti di loro vengono infatti sviluppati in forma di strisce ed episodi autoconclusivi, alla stessa maniera delle strip pubblicate sui quotidiani tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Proprio questo attaccamento alla tradizione ha reso alcuni personaggi dei manga kodomo tra i più popolari in patria e nel mondo, e sono tutt’oggi considerati dei veri e propri simboli del Giappone (Doraemon e Astro Boy sono solo gli esempi più celebri).
Affrontiamo subito l’elefante nella stanza e parliamo del target più massiccio in circolazione. Quando discutiamo di shonen (lett. ragazzo) ci riferiamo a prodotti destinati a un pubblico maschile che sta affrontando il primo sviluppo (orientativamente tra i 10 e i 14 anni).
In questo caso, la componente che viene più considerata dagli editori è l’esplosione ormonale, la quale comporterebbe una certa fascinazione per l’aggressività e una ricerca spasmodica delle grazie dell’altro sesso. La maggior parte degli shonen è infatti caratterizzata dall’energia dei personaggi, da una narrazione piuttosto veloce e un’estetica parecchio appariscente. Praticamente la rappresentazione stessa della pubertà.
La narrazione è orizzontale (ogni nuovo episodio/capitolo continua quanto raccontato in precedenza) per favorire la fidelizzazione del lettore e il suo attaccamento alla storia (leggi: fargli comprare più volumi) e segue i tipici pattern del viaggio dell’eroe, con un certo focus sui combattimenti nel caso specifico dei battle manga. La componente didattica, per quanto sottile, è incarnata dall’obiettivo che il protagonista deve raggiungere, spesso rappresentante un più generico tema di tutta la storia. Il motivo per cui questo obiettivo esiste non è però quello di educare il lettore, come nel caso dei kodomo, quanto più appagarne gli istinti attraverso la frenesia dell’azione o una più o meno spiccata componente erotica.
Sarebbe facile, per quanto un po’ irrispettoso, definire il target shojo (lett. ragazza) come il corrispettivo femminile dello shonen. La verità, però, è che questo target, nonostante il boom di cui ha goduto dagli anni 2000 in poi, è probabilmente il più bistrattato del panorama dell’intrattenimento nipponico, non godendo affatto delle stesse attenzioni riservate da produttori ed editori alla controparte maschile per questioni culturali (si pensi che oltre il 77% dei mangaka è di sesso femminile, ma la maggior parte di loro è sconosciuta al grande pubblico).
La fascia anagrafica è la stessa, mentre i contenuti – che in principio pure non erano tanto dissimili, vedi la Principessa Zaffiro di Osamu Tezuka – consistono prevalentemente in storie sentimentali dal carattere quasi esclusivamente platonico, le quali hanno portato alla cementificazione di un’estetica trasognata ed evanescente, dove a farla da padrone sono la delicatezza del tratto e la presenza massiva di retinature dalle forme floreali. Se infatti i giovani maschi giapponesi vengono ritenuti dei calderoni di ormoni pronti a esplodere, le ragazze sono invece percepite come entità confuse, prive di iniziativa e pervase da sentimenti passionali che non sanno bene esprimere o identificare. A questi sentimenti è però loro proibito cedere, in quanto il buon costume non lo permetterebbe.
Proprio questa percezione passiva delle giovani ha generato un surplus di prodotti rom-com, ritenuti i più adatti a questo tipo pubblico “delicato”, generando spesso notevoli contraddizioni. Si pensi che il motivo per cui esistono così tanti contenuti yaoi (prodotti dalla componente omossessuale) all’interno dei manga shojo non risiede in un tentativo di inclusività, bensì in un mero escamotage per proporre contenuti spinti alle giovani senza la necessità di mostrare atteggiamenti ritenuti poco consoni per le ragazze dalla morale giapponese, ma invece perfettamente concessi agli uomini. Una vera e propria feticizzazione di una categoria che in Giappone gode di ben poca rappresentanza.
Come vuole il nome stesso, gli young sono il target più “giovane” presente in questa lista. Infatti, a differenza degli altri target, nascono tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 per sopperire alle sempre più ingente richiesta di manga da parte degli adolescenti. Laddove prima i fumetti/cartoni erano esclusiva dei bambini/ragazzi e dei giovani adulti contestatari delle università, i manga young sono destinati a un pubblico di età di compresa tra i 16 e 20 anni circa.
Le idee alla base dei manga young sono solitamente abbastanza trasgressive e dipingono un quadro in cui i giovani protagonisti lottano contro (o sono vittime di) un sistema che li opprime. Non a caso, questo target ha trovato nella fantascienza distopica un genere di riferimento. Ed essendo nato negli anni di Blade Runner e Mad Max, non poteva essere altrimenti. Non stupisce, quindi, che uno dei capostipiti sia Akira di Katsuhiro Otomo, in cui il tema della ribellione giovanile è ovvio e palese, ma non mancano proposte ancora più cervellotiche come Ghost in the Shell di Masamune Shirow o Dragon Head di Minetarō Mochizuki.
Sono, insomma, prodotti progettati per permettere agli adolescenti di sfogare le proprie ansie e frustrazioni nei confronti degli esami di ammissione all’università e del sempre più impellente inserimento nel mondo del lavoro. Con il passare del tempo, la categoria ha perso progressivamente la propria indipendenza contenutistica agli occhi del pubblico, confondendosi ai seinen o ai recenti shonen atipici come Gachiakuta e L’Attacco dei Giganti.
I seinen (lett. giovani adulti) nascono come target nel 1967 per volontà dell’editor Bu Shimizu della Futabasha, il quale desiderava lanciare autori ritenuti eccessivi per un pubblico giovane, come Monkey Punch (Lupin III) e Baron Yoshimoto (Le leggende del judo).
I contenuti dei seinen sono destinati a un pubblico di adulti in età universitaria, quindi con un alto livello d’istruzione e la mente già proiettata verso il mondo del lavoro. Proprio per questo sono in genere intrisi di citazionismo più o meno colto e umorismo dissacrante, a volte persino scatologico, ritenuti dai giapponesi poco adatti ai minori. Non a caso serie come Crayon Shin-chan, per quanto paradossale possa sembrare agli occhi degli occidentali, sono destinate ai seinen.
Tuttavia gli argomenti possono variare notevolmente. Si va dai racconti in costume ambientati durante il medioevo giapponese (Kagemusha – Il terzo guerriero ombra) a storie di vendetta perseguita per dovere, onore o malattia mentale (Monster, Old Boy). In questi casi, la narrazione è spesso tutt’altro che frenetica, abbondando di didascalie di pensiero o descrittive del contesto storico, oltre che di continue digressioni sul passato dei personaggi. Sembra dunque naturale che molti autori di seinen si siano appoggiati al genere del thriller psicologico o agli adattamenti di romanzi e leggende per tessere le loro trame adulte.
Tra gli eventi più importanti della storia della letteratura femminile andrebbe citato senza indugio il 1949, anno di nascita delle componenti del cosiddetto Gruppo dei fiori dell’anno 24 (si intende il ventiquattresimo anno dell’era Showa, che per gli occidentali corrisponde appunto al 1949). Si tratta di un gruppo di autrici – tra cui Moto Hagio (Il cuore di Thomas), Keiko Takemiya (Il poema del vento e degli alberi) e Ryoko Ikeda (Lady Oscar – La rose de Versailles) – che negli anni ’70 propose un nuovo tipo di fumetto su misura per ragazze, ormai stanche della visione stereotipica (praticamente da Barbie) che gli editori davano all’interno delle riviste femminili.
La differenza principale con gli shojo classici risiedeva nell’affrontare a viso aperto gli argomenti scomodi, anche a costo di aggirare la censura. Fu il Gruppo 24 a concepire il trucco dei giovani uomini usati come surrogato delle passioni nascoste delle ragazze, introducendo temi come la violenza, le gravidanze indesiderate, relazioni tossiche e altre componenti realistiche prima ritenute sconvenienti non solo per le ragazzine, ma per l’intero universo femminile. Si rese quindi necessario coniare un nuovo target, josei (lett. donna), per distinguerli dai classici shojo idealizzati e privi di crudità.
I fumetti josei sono ancora oggi caratterizzati da temi ritenuti spiccatamente femminili, spesso riguardanti i concetti di corpo (Questo non è il mio corpo), relazione romantica (New Love, New Life!) e ruolo della donna all’interno della società (Pink). La narrazione varia prepotentemente dal freddo distacco alla partecipazione ossessiva, ma sempre con un occhio di riguardo per il lato emotivo della vicenda, vero perno attorno cui ruota l’intero panorama dei fumetti femminili nipponici.
Oltre ai seinen e josei, esiste un ulteriore target dedicato al pubblico adulto. Esclusivamente adulto.
Infatti, mentre le altre categorie sopracitate fungono più da indirizzo, alla stregua di consigli amichevoli (nessuno vieta a un quarantenne di leggere One Piece o a un dodicenne di leggere Monster), gli adult manga sono invece fumetti/cartoni espressamente vietati ai minori.
Sono in genere produzioni di editori secondari o autoproduzioni (dōjinshi), lontani dai grandi numeri degli editori mainstream e spesso diffusi massivamente online. Il perché risiede ovviamente nei contenuti, prevalentemente di natura pornografica (hentai o eroge) o carichi di forme di violenza troppo estrema anche per gli standard dei seinen/josei.
In genere, sebbene non specificato, il target adult è inteso come quasi esclusivamente maschile, sempre a causa dei famosi pregiudizi di genere sulla fruizione di determinati contenuti, nonostante negli ultimi anni ci sia stata una cospicua ascesa dei titoli pornografici boys’ love, concepiti per un pubblico femminile. L’associazione degli adult ai vari sottogeneri pornografici è divenuta quasi simbiotica, tanto da rendere la linea di demarcazione tra target e genere così sottile da risultare quasi insignificante.
Conoscere i target e le loro caratteristiche non deve essere inteso come un vincolo a fruire solo prodotti che rientrano nella propria età anagrafica. Piuttosto, saper riconoscere quali componenti di un prodotto sono frutto del marketing, e quali invece si devono a una precisa volontà autoriale, può essere utile per barcamenarsi in un mercato sempre più stratificato.
Come abbiamo visto in precedenza, i target nascono, si evolvono, si mescolano, ma sempre seguendo una precisa logica atta a inquadrare al loro interno specifiche esigenze narrative. Essere consapevole di queste dinamiche può dunque fare la differenza tra lo scegliere un prodotto che corrisponde alle nostre esigenze o diventare bersagli di editori/produttori intenzionati ad arruffianarsi le grazie di acquirenti ignari con prodotti discutibili, solo perché magari quel dato prodotto somiglia a un altro che gli è piaciuto.
Per gli occidentali, ormai totalmente assoggettati all’egemonia dell’intrattenimento orientale, questo monito vale il doppio. In quanto non autoctoni, coloro che vivono al di fuori del Giappone trovano molta difficoltà a comprendere certe dinamiche. E in un periodo in cui tutti sanno cosa sono manga e anime, restare informati su certe questioni diventa a dir poco necessario.
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