Con Il Robot Selvaggio, la Dreamworks continua sulla sua strada cercando di prendere soggetti originali, o anche semplicemente interessanti, e svilupparli trattando tematiche mature comprensibili anche dai più piccoli. È stato questo il suo marchio di fabbrica per molto tempo, sin dalle sue origini, anche nei suoi prodotti seriali, salvo averlo perso di vista durante la decade scorsa, per poi riuscire a recuperarlo con Il Gatto con gli Stivali 2, in concomitanza col tracollo della sua acerrima rivale Disney.
Questa volta lo studio d’animazione ha optato per la trasposizione di un libro per ragazzi scritto da Peter Brown, primo di una trilogia che la Dreamworks ha a quanto pare intenzione di adattare nella sua interezza. Una storia di fantascienza, ma soprattutto di famiglia.
In un prossimo futuro, in cui l’umanità si serve di robot per rendere più semplici le proprie mansioni, un’unità in transito precipita in una foresta a causa di una tempesta.
Ritenendo che sia proprio quella la sua destinazione, la robot ROZZUM, o Roz, si prefigge il compito di aiutare gli animali che incontra. Dopo diversi insuccessi, in cui viene additata come un mostro dalla fauna locale, Roz trova un piccolo di oca rimasto orfano. Essendo costui solo al mondo, la robot decide di aiutarlo a crescere assieme alla volpe Fink e, in parte, ad altri animali della foresta.
Più gli anni passano, più il rapporto col piccolo, che lei chiama Beccolustro, si approfondisce. Allo stesso modo, Roz dovrà capire cosa vuol dire essere madre e imparare ad andare oltre la sua “programmazione“.
Con una premessa come quella poc’anzi citata, ci aspetteremmo una forte tematica ambientalista, uno scontro ideologico e morale tra tecnologia e natura portato avanti per l’intero minutaggio del film. Tuttavia non è questo il focus principale: per quanto si aprano molte volte delle parentesi a riguardo, l’ecologia passa in secondo piano rispetto ad un tema altrettanto “umano“, la maternità.
La Dreamworks ha sempre tentato, o meglio ha ricominciato a tentare, nel panorama dell’animazione mainstream per tutta la famiglia, di trattare temi “adulti”. Rendere speciale la propria vita ne Il Gatto con gli Stivali 2; riuscire a trovare le cose belle anche in ciò che ci fa paura in Orion e il Buio; in questo caso invece, comprendere cosa vuol dire essere genitore.
Soffermandoci ancora per un attimo sull’ambiente selvaggio, non viene risparmiata la rappresentazione della sua cruda realtà: la natura de Il Robot Selvaggio non è quella amorevole e accogliente che immagineremmo in un film per ragazzi. Nei primi venti minuti ci vengono mostrate una testa di uccello strappata via, una famiglia di volatili uccisa e un membro di una cucciolata mangiato, con una certa noncuranza della madre.
Ovviamente non ci si sofferma troppo sulla truculenza, ma si cerca di far capire ai più giovani che anche un ambiente degno di rispetto come la natura può essere spietato, ma ciò non vuol dire che non possiamo comunque aiutare a preservarlo.
Così come per la quantità di “realismo” in un film per famiglie, non ci si aspetterebbe neanche il tipo di madre che fa da protagonista in questa storia. Dopotutto, neanche Roz era pronta per diventarlo. E chi lo è, in fondo? Come può qualcuno svolgere il mestiere più difficile del mondo, quando non è neanche nelle sue programmazioni?
Ciò nonostante, negli anni che Roz trascorre con Beccolustro e grazie agli insegnamenti di Fink, lei riesce a comprendere le lezioni più importanti su come essere un genitore. Lasciare che i figli compiano i loro sbagli, imparando da essi, capire quando è il momento di lasciare che qualcun altro più esperto insegni loro lezioni che il genitore non potrà mai impartire, e infine anche imparare a lasciare andare quando riescono ad essere indipendenti.
Dopotutto Chris Sanders già nei precedenti film aveva compiuto esperimenti simili partendo da incipit interessanti per esplorare diverse sfaccettature dei rapporti familiari: due sorelle orfane che accudiscono un alieno in Lilo e Stitch, una famiglia di cavernicoli che cerca di sopravvivere nei Croods, un figlio che vuole essere capito dal padre mentre cerca di addestrare dei draghi in Dragon Trainer.
Come in altri film d’animazione, ad esempio il corto Paperman di Disney o i più popolari film animati di Spider-Man curati da Sony, la scelta dello stile è servita ad accentuare lo componente narrativa del film che si voleva mettere in risalto. Nel caso dei film sull’Uomo-Ragno per creare l’illusione di un “fumetto cinematografico”; ne Il Gatto con gli Stivali 2 e in questo, per rendere lo spettatore parte delle illustrazioni di un libro di fiabe semoventi.
Mentre i personaggi e le principali “strutture” sullo sfondo sono modelli 3D rivestiti di disegni 2D, i ciuffi d’erba, le foglie e altri elementi naturali sono invece vere e proprie pennellate d’inchiostro, il che permea l’intera opera di uno stile impressionista.
Come dice lo stesso Chris Sanders in un’intervista per Variety, “In realtà, non c’è superficie su un personaggio, né in cielo, né su un albero o qualsiasi cosa che non sia dipinta. […] Questo film è più simile a una tela bianca in cui chiunque può semplicemente entrare e dipingere. Si può dipingere qualcosa in qualsiasi dimensione e noi possiamo muoverci attorno […] Ciò che un artista esperto può fare con un pennello è implicare le cose visivamente.“
“L’effetto di un grande dipinto è davvero potente. Quando ti avvicini molto ad uno di essi, sono sempre sorpreso di quante poche informazioni ci siano in realtà“, in questo caso Sanders ricorda proprio lo stile impressionista, in cui un soggetto, per essere pienamente goduto, deve essere visto da lontano. “La cosa divertente è che sembra molto più reale rispetto ad aver tentato di disegnare ogni filo d’erba.”
Il voice acting originale è, senza riserve, ottimo: Lupita Nyon’go sorprende nel dare una voce all’inizio priva di emozioni alla robot Roz, per poi, man mano che si approfondisce il rapporto tra lei e Beccolustro, arricchirla di sfumature mentre Pedro Pascal conferisce un tono sardonico e “speziato” nell’astuto Fink in un modo tale da renderlo quasi irriconoscibile.
Per quanto molti nomi all’interno del cast possiamo parlare tranquillamente di celebrità (Kit Connor, Stephanie Hsu), o dei veri esperti del settore, quali Mark Hamill e Bill Nighy, nessuno di loro sembra artificioso come ci si aspetterebbe ed ogni voce, grande o piccola che sia, dona al personaggio la giusta interpretazione e tonalità.
Per quanto il film nella sua completezza risulti impressionante, sia dal punto di vista tecnico sia da quello narrativo, su quest’ultimo punto ci sono alcune piccole imperfezioni. Certe, a modo loro, trascurabili, come il poco spazio lasciato ad alcuni personaggi secondari. Dispiace anche perché si sono poi rivelati importanti a partire dal secondo atto. Avremmo preferito imparare a conoscerli da molto prima.
Ma il problema principale si può riscontrare nel climax. Senza rivelare troppo, in esso vi è uno scontro tra due fazioni opposte, e non uno meramente ideologico, ma una vera e propria battaglia finale. Se fino ad allora il film ci ha abituato ad assistere ad una storia introspettiva e incentrata sulle emozioni e i rapporti tra i personaggi, perché giungere ad uno “showdown“ verso il quale non si è costruito molto? Risulta questo non solo staccato dalla narrazione, ma anche fuori tema col resto del tono del film.
Ci si sarebbe aspettato qualcosa di non per forza anticlimatico, ma più emotivo, che sapesse dare forti sensazioni come ha saputo fare per il resto della narrazione, come un dialogo che porta a una profonda realizzazione.
Aggiungamo che, unendo i due problemi sopra elencati, vi è nell’ultimo atto l’aggiunta di un antagonista. Non un “villain a sorpresa” simile a quelli di cui ha ormai abusato abbastanza la Disney, certo, ma poco sviluppato e, a prima vista, creato solo per dare ai protagonisti un classico “cattivo da sconfiggere“. Poteva avere delle potenzialità se introdotto sin dalla metà del film con magari una narrazione parallela e più approfondita.
In un anno che ci ha dato numerosi remake, sequel, prequel, spin off e quant’altro, è bello vedere al cinema un adattamento di un’opera trasposto in una visione registica personale. Il Robot Selvaggio è un film che regala sensazioni profonde sia dal punto di vista estetico sia da quello narrativo. Un altro gioiello da incastonare nella collana dei grandi lavori Dreamworks.
Non sarà un film perfetto, e per definirlo capolavoro si dovrebbe aspettare ancora non poco tempo, ma rimane uno dei prodotti cinemarografici più belli del 2024. Un altro esempio di come l’animazione, come disse Guillermo Del Toro, non sia un genere, ma uno stile. In poche parole, sia cinema.
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