Nello stesso periodo in cui vengono rilasciati su Netflix quattro corti tratti da racconti di Roald Dahl, Wes Anderson torna al cinema con Asteroid City. Dopo la sfortunata e odisseica produzione del suo precedente lungometraggio, The French Dispatch, distribuito durante il COVID, questo film approda nelle sale finalmente senza particolari difficoltà.
A differenza degli altri film del regista, questo ci appare meno narrativo ma assai più concettuale. L’estremizzazione di The French Dispatch, il quale già usciva dai tropi della narrazione classica per rendere più drammatici i fatti di cronaca riportati, porta in Asteroid City ad utilizzare la narrazione per esternare il punto di vista sul cinema di Wes Anderson. Una mossa coraggiosa, ma forse rischiosa da parte di un regista che ha fatto della stravaganza il suo marchio di fabbrica.
Ci troviamo in piena Guerra Fredda, in una cittadina sperduta in mezzo al deserto, la suddetta Asteroid City. Un semplice agglomerato di case in mezzo alla sabbia, le cui principali attrazioni sono esplosioni atomiche all’orizzonte e occasionali inseguimenti tra polizia e criminali. Un gruppo di adolescenti scienziati e studiosi di astronomia, accompagnati dai genitori, partecipa ad una convention scientifica per giovani. Famiglie si incontrano, personaggi bizzarri si introducono l’un l’altro, amori sbocciano ed altri terminano.
Improvvisamente, nel bel mezzo della premiazione, sotto gli occhi stupefatti di tutti, appare un alieno. Dopo questo incontro ravvicinato, i militari della cittadina instaurano una quarantena per tentare di capire di più sul fenomeno e fare in modo che la notizia non dilaghi. Le relazioni precedentemente iniziate subiscono un’impennata: costretti a vivere gli uni vicini agli altri, i personaggi raggiungeranno l’apice di questi loro rapporti, nel bene o nel male.
Ma perché tutto questo? Semplice: perché lo esige la trama. La trama di questo film strutturato in tre atti al quale lavorano attori, scenografi, truccatori, lo sceneggiatore e il regista, che prenderanno vivamente parte alla vicenda. Poiché un film non è fatto solo della sua parte più tangibile, anche i suoi autori entreranno in scena.
Sin da Grand Budapest Hotel Wes Anderson ci ha abituati ad assistere alla presentazione della storia a cui stiamo per prendere parte. Una bambina si siede su una panchina a leggere un libro in cui il narratore introduce il manoscritto, dando inizio delle vicende. Tale fattore è stato riproposto anche in The French Dispatch, così come nel film in questione.
Non dovremmo dunque sorprenderci di vedere Brian Cranston che porta all’estremo le precedenti scelte narrative, non limitandosi a un’introduzione del film, ma a una fotografia della sceneggiatura, i cui atti ci verranno presentati come dei veri e propri cartelli.
In questo modo possiamo assistere, alternate alle vicende narrate, ai “dietro le quinte” nei quali gli attori vivono vite a sé stanti, il regista e lo sceneggiatore hanno un rapporto quasi carnale per la creazione di questo film e le loro azioni si ripercuotono sul film che sta venendo girato e viceversa.
I personaggi escono dalle quinte per lamentarsi di un’azione non in linea col loro personaggio, o altri che sbagliano le battute, o addirittura il presentatore che entra in scena per sbaglio. Queste non rappresentano una mera scusa per rendere il film più autoriale, ma come un approfondimento di questa metanarrazione pirandelliana, che diventa, nel susseguirsi delle vicende, quasi un saggio personale di Wes Anderson sul cinema.
Asteroid City non deve essere dunque visto come una storia tributo alle storie, ma come un elogio (per quanto questa frase venga ormai abusata) al creare storie nel cinema.
Il cinema, e non solo quello di Wes Anderson, è sempre migliore della realtà: ogni persona che interpreta il personaggio, o almeno per quello che ci viene mostrato, ha un qualche fattore che lo spinge a fuggire dalla realtà per rifugiarsi all’interno del film.
Il cinema rappresentato in Asteroid City dalla figura dell’alieno, rigorosamente in stop-motion, è qualcosa di affascinante nel suo mistero, che ci ruba un tempo prezioso ma ci ripaga con qualcosa di altrettanto impareggiabile: la sua sola presenza.
Da qui la frase più significativa della pellicola: “Non puoi svegliarti se non ti addormenti!”. Noi persone del noioso e crudele mondo reale non possiamo vivere in esso se prima non ci addentriamo nelle terre del sogno. Non possiamo affrontare la realtà senza la finzione. Senza i libri, i fumetti, le fiabe. Senza il cinema.
Se vogliamo parlare del film nella sua interezza, dovremmo anche analizzare la commedia che esso vuole rappresentare. Asteroid City potrebbe essere tranquillamente interpretato come metafora della pandemia COVID: persone confinate in uno spazio ristretto a causa di un inaspettato evento e costretti a fare i conti con un nuovo modo di relazionarsi.
I veri protagonisti del film, o meglio, del film dentro il film, sono i figli. Non è una cosa totalmente inusuale nel cinema di Wes Anderson, certo, ma qui è ancora più accentuato dalle motivazioni che spingono anche gli adulti a trovarsi in quella cittadina. È infatti a causa dei figli che i genitori, gli scienziati e i militari si trovano lì: perché ricevano un premio. Nel gareggiare per aggiudicarselo, dovranno anche fare a gara nel farsi capire dai loro genitori.
Dal lato opposto, la figura genitoriale e/o adulta resta incapace di comunicare spontaneamente proprio a causa del suo essere troppo adulta. Se due persone sono innamorate, impiegheranno l’intera durata della pellicola per confidarselo, mentre la spontaneità giovanile fa scattare immediatamente la scintilla passionale.
Simbolo di questo le conversazioni tra i personaggi di Midge e Augie, interpretati da Jason Swartzman e Scarlett Johansson, che spaziano in continui campi-controcampi, separati dalle loro abitazioni come lo sono interiormente, dove è lei a parlare di più mentre lui, forse perseguitato dalla morte della moglie, è restio ad iniziare il rapporto.
L’unica scena in cui due adulti si capiscono è quella in cui appare il personaggio di Margot Robbie, che in appena tre minuti di pellicola regala una delle sue migliori performance. Come Midge, l’attrice è sempre separata dal suo interlocutore e il setting è diverso, ma l’importanza di tale dialogo non è inferiore a quelli precedenti.
Ironico parlare di autoreferenzialità in un film dove il regista è all’interno della storia. Forse anche per questo motivo il film acquista ancor più un valore personale, sia nella forma sia nel contenuto. La stop-motion viene usata molto spesso per gli effetti speciali, non solo per quanto riguarda il precedentemente citato alieno: la computer grafica viene sacrificata in favore di una artificiosità plastica piacevole come il resto del film.
I dialoghi sono rapidi e “brillanti”, palesemente irrealistici, ma proprio per questo imprevedibili e divertenti da seguire. Sarebbe stato apprezzato vedere alcuni di essi interpretati dal tagliato Bill Murray, una delle muse dei film del regista, sostituito da Steve Carell a causa del COVID.
Non può non mancare la sempre apprezzata simmetria registica, che abbraccia l’intero paesaggio con lunghe panoramiche o mostra nella loro interezza personaggi che non sapevamo fossero nella scena se non dopo che, con un rapido movimento di macchina, vengono introdotti.
Sin dall’introduzione, Wes Anderson ha voluto mostrarci (parola usata non a caso) che Asteroid City è un film che fa della narrazione un mezzo, non un fine. Se siamo disposti a comprendere ed accettare questo, allora saremmo capaci di goderci questo film attraverso due chiavi di lettura: quella narrativa, che dà titolo al film, e quella tematica.
A sua volta, quella tematica può essere vista sia in chiave narrativa, come una storia della creazione di una commedia, e tematica, come un elogio a quel lungo sogno che è il cinema.
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