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Cuphead Show, la recensione: Non quello che speravamo, ma…

Cuphead Show

0.00
7.8

SCRITTURA

7.0/10

REGIA

7.5/10

COMPARTO TECNICO

8.5/10

DIREZIONE ARTISTICA

9.0/10

CAST

7.0/10

Pros

  • Molto divertente
  • Ottima resa della tecnica old fasion
  • Molteplici richiami alle fonti di ispirazione

Cons

  • Alcuni episodi sono megli di altri
  • Quasi totale assenza di serializzazione

Il Cuphead Show, serie animata tratta dal celebre e omonimo videogioco, è stato indubbiamente uno dei prodotti più attesi di Netflix degli ultimi anni, principalmente da parte dei videogiocatori dell’opera originale. Questi, così come molti altri, speravano di vedere come Netflix sarebbe riuscita a trattare con maestria una serie tratta da un videogioco. Inutile dire che, dopo esempi buoni (DOTA) e ottimi (Arcane), Netflix aveva molto da dimostrare.

Il risultato ottenuto è senz’altro notevole, ma purtroppo non abbastanza da raggiungere la magnificenza di altre serie di spicco dello studio. Qui non si sta parlando solo di target, attenzione, perché, come ci ha insegnato sempre Netflix con Hilda, l’età indirizzata è semplicemente una traccia per la qualità di una serie.

Non fare affari col Diavolo

Nell’isola di Calamaio, luogo abitato dalle più bizzarre creature, i due fratelli Cuphead e Mugman vivono una vita tranquilla col loro nonno Bricco, ma sperano di ottenere qualcosa di più eccitante dal mondo che li circonda. Per questo decidono di divertirsi al Cattivale, un Luna Park segretamente gestito nientemeno che dal Signore degli Inferi Satanasso, desideroso di collezionare le anime dei perdenti. Cuphead effettivamente perde a uno dei giochi, e dovrà fare di tutto, con l’aiuto del fratello, per impedire a Satanasso di renderlo uno zombie senza vita.

Da qui partono una serie di avventure che esplorano sempre più la strana isola, alcune collegate con la trama principale, altre distaccate, e con un ultimo episodio che apre un nuovo arco narrativo.

Animazione vintage

Parliamo prima di tutto del principale pregio della serie, quello che salta di più all’occhio, e a ragion veduta, dato che si sta parlando di un cartone animato. L’animazione è spettacolare: fluida, energica e rispettosa dello stile del videogioco. Con ciò si vuole intendere che non è solo animata egregiamente per gli standard odierni, ma che ripercorre lo stile retrò dei primi prodotti animati. Ritroveremo degli sfondi creati a diorama, aiutati anche con l’animazione 3D che non snatura affatto il contesto, oppure vedremo Re Dado danzare nello stile di Cab Calloway, e questo solo per fare due esempi.

 

I fratelli Moldenhauer, creatori di quest’ultimo, non hanno mai nascosto l’ispirazione allo stile dei prodotti anni ’30 della Disney e dei Fleischer, con continui rimandi alla rubberhouse. Soprattutto questa è stata capace di dare allo show una nota di comicità più inventiva, dando agli animatori della Lighthouse, casa di animazione legata al Cartoon Saloon, a Disney e a prime video, di sbizzarrirsi.

Ovviamente vi è un netto upgrade tecnico rispetto ai corti citati e al videogioco: la digitalizzazione dei disegni e dell’animazione, che risulta più “pulita” rispetto alla controparte videoludica, offre colori più brillanti e contorni più nitidi, e soprattutto con un pacing più accelerato e dinamico. Un esempio simile lo possiamo riscontrare anche su Disney+ con la serie di Topolino.

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Una serie a episodi

Il tasto dolente, purtroppo, sta nel comparto narrativo: ci troviamo infatti davanti a una serie antologica, in cui Cuphead e Mugman si ritrovano invischiati, per la maggior parte delle volte, in rocambolesche avventure scatenate per un loro capriccio, dalle quali dovranno uscire o improvvisando o usando il lavoro di squadra.

Solo tre volte troviamo il filo conduttore di Satanasso, quattro se vogliamo contare due episodi uniti dalla stessa trama. Degli episodi a sé stanti forse il migliore è il sesto,“I fantasmi non esistono”, che presenta numerose strizzate d’occhio ai fan dell’animazione “halloweenesca” disneyana e non, con riferimenti a Spooky Skeletons e Topolino e i Fantasmi, mentre il meno interessante è il penultimo “Sottoterra”, che non presenta alcun approfondimento dell’ambientazione e poco dei personaggi.

L’ultimo, invece, introduce un personaggio femminile presente anche nel DLC del videogioco, ma molto interessante, sia per dare alla serie una controparte non solo maschile, sia per dare una nuova svolta alle peripezie di Cuphead e Mugman.

Considerazioni finali

Può succedere che un prodotto sia ottimo nella sua forma, nella sua estetica, ma che non eccelli nel contenuto. Ciò non rende il Cuphead Show una brutta opera in sé. L’animazione rimane  eccezionale e le storie singole non sono tutte da buttare.

Occorre notare come quella di una serie non molto, se non per niente, serializzata sia da intendere non come un errore della produzione e della scrittura, quanto più come una scelta artistica. L’intero progetto dietro a Cuphead è da intendere come un omaggio alle serie di cortometraggi animati degli anni ’20 e ’30 e in The Cuphead Show vediamo l’apice di questo intento.

La serie non vuole essere serializzata, non vuole avere nessuna narrazione orizzontale, così come non ne avevano i corti delle Silly Symphonies, di Micky Mouse o di Betty Boop. The Cuphead Show si concentra sulla realizzazione del singolo episodio, con un’ottima narrazione verticale che in alcuni casi centra il bersaglio, in altri no.

La cosa interessante da vedere sarà la recezione del pubblico rispetto a questa scelta. Specie se consideriamo il fatto che questa serie è uscita su Netflix, una piattaforma che propone per la stragrande maggioranza serie altamente serializzate.

In linea generale, il Cuphead Show è un altro buon prodotto tratto da un videogioco, con un’ottima animazione mista tra stile moderno e passato, dei piacevoli rimandi al videogioco e una storia graziosa. Si sperava solo che questa fosse più orizzontale. Ovviamente non raggiunge i picchi di Arcane, ma per quel che è è una serie da guardare, che si conosca il videogioco o meno.

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Veoneladraal

Fin da bambino sono sempre stato appassionato di due cose: i romanzi fantasy e il cinema, passioni che ho coltivato nel mio percorso universitario, laureandomi al DAMS Crescendo hoi mparato a coltivare gli amori per i videogiochi, i fumetti e ogni altra forma di cultura popolare. Ho scritto per magazine quali Upside Down Magazine e Porto Intergalattico, e ora è il turno di SpaceNerd di sorbirsi la mia persona! Sono un laureato alla facoltà DAMS di Torino, con tesi su American Gods e sono in procinto di perseguire il master in Cinema, Arte e Musica.

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