Dopo la miniserie Year Zero, Star Comics pubblica in Italia un altro fumetto targato AWA Studios nella collana Astra: Red Border, scritto da Jason Starr (Wolverine MAX) e disegnato dal Will Conrad (Action Comics).
Come tutte le altre produzioni AWA Studios, Red Border è immediatamente identificabile già dal titolo e dalla copertina.
La storia è infatti ambientata in Messico, dove una coppia di innamorati è costretta a fuggire oltre il confine con gli Stati Uniti perché lei ha osato denunciare alla polizia un crimine commesso dalla criminalità organizzata.
La loro traversata li porterà in Texas, dove faranno la conoscenza di una famigliola locale particolarmente accogliente ma inquietante.
Si parla quindi di un misto tra Soldado (di nuovo) e Non aprite quella porta, con un pizzico di Scappa – Get Out, alla cui base vi sono gli stessi sottotesti (la piaga della corruzione, dell’omertà e del crimine organizzato in Messico; la pericolosità delle comunità rurali razziste, violente e retrograde nel sud degli Stati Uniti).
L’incipit di Red Border, nel suo essere un pastiche di generi, poteva offrire molto, soprattutto nell’imbastire un discorso fondato sull’ipocrisia di una certa fetta di americani nell’etichettare i messicani come degenerati, quando nel loro paese si verifica una sparatoria ogni due mesi.
Jason Starr effettivamente prova a proporre un discorso analogo, ma pecca nell’incastrare i tasselli nel modo giusto, sparpagliandoli nel corso delle pagine per poi riprenderli solo verso il finale.
Nel mezzo la storia, per quanto indubbiamente fruibile e ritmata, si regge su dialoghi espliciti, tremendamente didascalici e troppo costruiti, quando un contesto del genere avrebbe notevolmente beneficiato di un vocabolario decisamente più popolare, spontaneo e spigliato alla Joe Lansdale.
I personaggi istruiti non parlano come persone istruite, ma come una persona non istruita pensa che parlino le persone istruite. Invece, i personaggi campagnoli e ignoranti parlano come una persona di media scolarizzazione pensa che parlino i campagnoli ignoranti.
Il risultato è una sfilza di prediche gratuite e monodimensionalità.
Nel disperato tentativo di rendere sfaccettati quantomeno i protagonisti di questo Red Border, lo scrittore imbastisce uno scialbo conflitto relazionale basato sul disaccordo nei riguardi delle scelte reciproche e la mancanza di fiducia, cercando di creare un filo conduttore tra l’intimità dei personaggi e il sottotesto.
Tuttavia questo rapporto non trova per nulla un’evoluzione concreta nel corso della trama, anche e soprattutto perché le scelte dei personaggi non contano praticamente niente, visto che il più delle volte sono costretti dagli eventi – per lo più cliché dei generi di riferimento – a prendere una determinata strada, rendendo i loro dissapori ingiustificati.
Sul finale Jason Starr cerca di contestualizzare tale mancanza di scelta, rendendola il vero fulcro della vicenda e inserendola nel contesto del “per un messicano è meglio vivere in un paese oppresso dalla criminalità o in un paese razzista dove comunque un motivo per spararti lo trovano?”
Sarebbe anche apprezzabile, se non fosse che in questo modo i personaggi perdono tutta la loro ragion d’essere, così come la perdono le opinioni espresse nel corso delle tavole precedenti, prima tra tutte quella sui ruoli di genere, che non va oltre la frecciatina pseudo-liberal.
L’unica, vera caratterizzazione della coppia protagonista è la pretestuosità dei loro litigi, tale da fare invidia allo Stan Lee dei primi numeri di Avengers, in cui Iron Man e Capitan America litigavano fra loro semplicemente perché dovevano, altrimenti non sapeva come caratterizzarli.
I cattivi sono anche loro dei blandi stereotipi visti, stravisti e riciclati.
Dal mafioso che si è fatto da solo tra fuoco e sangue ai campagnoli con qualche tara mentale, quest’ultime dovute probabilmente a sei generazioni di endogamia.
Solo che in Red Border, a differenza di Year Zero, questi stereotipi non sono inseriti in una narrazione alternativa che gioca con il loro genere d’appartenenza, bensì fanno esattamente quello che ci si aspetterebbe da loro.
Ad aggravare il tutto si aggiunge il tratto di Will Conrad: pesante, plastico, ingessato e anonimo tanto quanto i testi che mette in scena, quasi ai livelli del peggior Mike Deodato Jr, anche lui attualmente in forza all’AWA.
Alla fine, l’unico a non superare un confine, quello qualitativo, è proprio Red Border, che avrebbe potuto scegliere una sola strada da intraprendere, la più semplice, ma invece si è imbarcamenato in sottotrame poco approfondite, nessuna delle quali convincenti, e un’unica tavola veramente suggestiva per messa in scena e significato: l’ultima.
Non sarebbe giusto però etichettare Red Border come un fallimento su tutta la linea, dato che comunque il divertimento all’interno delle tavole non manca, così come alcuni momenti genuinamente sopra le righe che sapranno farsi apprezzare
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