American Gods Stagione 3, la recensione: la lunga attesa della guerra

American Gods stagione 3

6.7

Comparto tecnico

7.0/10

Cast

7.0/10

Scrittura

4.0/10

Regia

8.0/10

Direzione artistica

7.5/10

Pros

  • Regia onirica
  • Cast grandioso

Cons

  • Pacing lento
  • Aggiunte inutili
  • Mancanza di scene importanti del romanzo

Amazon prime video ha terminato il rilascio settimanale della terza stagione di American Gods, serie TV tratta dall’omonimo romanzo di Neil Gaiman, una delle pietre miliari del fantasy e del weird moderno. Dopo Good Omens!, questa è la seconda serie TV che serializza un’opera del Maestro Gaiman e si appresta ad entrare in competizione con Netflix e la sua serie TV Sandman, capolavoro fumettistico dell’autore.

Dopo due stagioni più che buone, le quali sono state capaci di trasporre perfettamente il libro e anche di saperne cogliere lo spirito e l’essenza stessa della morale, dispiace dire che questa non riesce ad eguagliarle. Probabilmente la causa principale è il continuo andirivieni di showrunner, che si susseguono in un continuo accettare e rifiutare ad ogni stagione. Avevamo prima Fuller e Green, sostituiti nella seconda stagione da Gillian Anderson, la quale ha abbandonato il progetto per la terza in favore di Charles H. Elgee.

Più ombre che luci per l’avventura di Shadow Moon

Complice della mancata riuscita di questa stagione di American Gods è l’aver dovuto trasporre la parte del romanzo forse meno interessante e più “noiosa”, seppur accadano comunque vicende interessanti. Il mio Ainsel, infatti, vede Shadow Moon mettere in secondo piano la guerra tra Vecchi e Nuovi Dei per trascorrere, sotto ordine del suo neo-scoperto padre Wednsday, un periodo di “licenza” nella cittadina di Lakeside, passando del tempo in tranquillità con i suoi cordiali abitanti e accantonando i compiti legati al suo retaggio e all’imminente guerra.

Al contempo, però, deve fare i conti con la sua recente scoperta, ovvero l’aver compreso di avere un ruolo da giocare non solo legato al caso, ma anche al sangue.

Il problema, però, non è cosa si cerca di trasporre, ma come. Questa stagione ha due episodi in più rispetto alle precedenti (e potrebbero sembrare pochi) ma capiamo che è invece la pecca più lampante. In soli otto episodi, le precedenti stagioni di American Gods hanno saputo non solo adattare il capolavoro di Neil Gaiman, apportando le dovute modifiche, ma hanno anche migliorato diversi espedienti e approfondito numerosi interessanti personaggi, primo fra tutti Mad Sweeney.

Qui, invece, sia la storia di Shadow che le vicende parallele di Laura e Wednsday sono eccessivamente allungate. Un’esperienza pre-morte della rediviva moglie di Shadow o il tentativo di Odino di portare nel suo esercito una sua vecchia fiamma risultano inutili alla fine. Se aggiungiamo il precedentemente citato fatto che questa stagione è la trasposizione della parte meno attiva del romanzo, ci si chiede perché ci sia stato bisogno di allungarla.

Il romanzo di Neil Gaiman era coinvolgente non solo per gli argomenti affrontati, ma anche perché essi venivano approfonditi in una tempistica rapida e d’impatto, con una descrizione altrettanto semplice ma suggestiva, capace di catturare il lettore con frasi rapide ma ricche di spirito. Il voler per forza allungare una storia aggiungendovi sotto trame inconcludenti, che offrono poco sia alla vicenda sia allo sviluppo psicologico dei personaggi, è sintomo di una narrativa illusoria, che inganna il pubblico facendogli credere che la quantità sia sinonimo di qualità.

Tali aggiunte hanno anche in gran parte stravolto alcuni personaggi. Prima fra tutti Laura Moon, che in questa stagione rasenta l’insopportabile, sia parlando del suo atteggiamento eccessivamente bickering sia parlando delle  scelte da lei compiute. Scelte che quasi contrastano col suo personaggio e la sua costruzione, nonché con la sua originale versione cartacea.

Per non parlare di Sam, personaggio criminalmente sminuito in questa stagione, che da voce dell’innocenza e della spensieratezza umana viene ridotta a ruolo di comparsa in favore di una Marguerite Olsen poco interessante. Una scelta che risulta un delitto per chi conosce e ama il romanzo e il personaggio, la quale viene aggravata dalla mancanza di un fattore che verrà approfondito più avanti.

Rimpiazzi non riusciti

Forse per aumentare l’approfondimento dei personaggi e le loro relazioni, forse per compensare la mancanza di espedienti interessanti, pare proprio che Elgee abbia arricchito questa stagione con personaggi che cercano costantemente di rimpiazzare quelli assenti. Volti, storie ed emozioni che hanno fatto breccia nel cuore del pubblico, ma che non vediamo tornare o che non torneranno più.

Demetra e Liam Doyle sono rispettivamente rimpiazzi di Esther e Mad Sweeney, il loro rapporto rispettivamente con Wednsday e Laura Moon un rimpiazzo di quello che avevano le loro controparti negli episodii precedenti. La stagione cerca di ricatturare quei momenti, quei dialoghi intimi da una parte e battibecchi amichevoli dall’altra, ma, a causa dell’eccessivo allungamento delle sequenze e della poca utilità finale di tali sostituzioni, per gli spettatori è difficile empatizzare con questi personaggi.

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Non vediamo la follia esasperata di Mad Sweeney, che nasconde una depressione cronica dovuta a continui fallimenti passati. Non c’è più la magica eleganza della Dea della Primavera, capace di affascinare uomini e dei. Un po’ come quando un bambino vuole un giocattolo che la mamma gli giura di avere in casa, ma che si rivela essere una copia sciatta dell’originale.

La cosa peggiore di questo fattore rimpiazzo è, tuttavia, il non essere riuscito trovarne uno per quel mostro (in tutti i sensi) di Anansi. L’allontanamento ingiustificato di Orlando Jones getta un’ombra di vergogna nello show, non solo nella sua componente artistica ma anche produttiva. Non hanno fatto molto per recuperare uno dei personaggi non solo del romanzo, ma della narrativa di Neil Gaiman, protagonista anche del romanzo spin-off I Ragazzi di Anansi. Ibis tenta di esserne un surrogato, ma è una pulce in confronto alla tarantola che era il Dio africano.

Io (non) credo

Forse l’episodio finale di American Gods può nascondere qualche soddisfazione, ma anche qui non si può sfuggire alle critiche: davvero ci servivano nove episodi di lentezza e spossatezza per arrivare ad un finale di stagione meramente accettabile?

Se prime video è stata capace di darci una scena che noi lettori attendevamo di vedere, una scena che è stata persino capace di elargire una commozione giustificata per come è stata resa, perché saltare le parti più importanti? Saltare il monologo più importante del romanzo, nonché uno dei più belli della letteratura fantasy (“I believe”) nasconde una mancata comprensione dell’opera stessa.

Ora, c’è una possibilità che compiano la stessa scelta che fecero ai tempi con la House on the Rock: saltarla nel finale di stagione per introdurla nel primo episodio di quella successiva. Ma sarebbe una scelta assai discutibile, visto che nel libro il momento in cui viene pronunciato il monologo risulta più d’impatto e giustificato. Farlo pronunciare da Sam, che ha avuto i suoi momenti salienti solo recentemente, risulterebbe fuori luogo, soprattutto per quel che accadrà nella prossima stagione.

La tecnica salva American Gods?

Tutto questo però, il sottoscritto lo ammette, è qualcosa che può far infastidire soprattutto i puristi lettori e i fan di Neil Gaiman. Questa terza stagione di American Gods, infatti, è un adattamento altamente discutibile, ma non una brutta serie TV in sé. Forse lenta, con intermezzi allungati e un po’ noiosi, ma non per forza irritanti. Se la si guarda con gli occhi di un mero spettatore seriale allora si può trovare qualcosa di apprezzabile.

Le aggiunte al cast sono a dir poco stellari e ognuna gioca perfettamente il proprio ruolo. Per quanto i personaggi che interpretino non siano memorabili, è indubbio che le loro performance riescano a dare loro un carattere. Basti pensare a Iwan Rheon (Ramsay Bolton in Game of Thrones), o allo sguardo tagliente di Danny Trejo, e soprattutto Blythe Danner. Il modo docile e compassionevole in cui interpreta Demetra fa davvero comprendere il peso che lei e Wednsday hanno avuto in passato.

Si può apprezzare di più la regia, una delle più suggestive delle serie TV degli ultimi anni, che riesce perfettamente a catturare lo stile di Neil Gaiman, weird e onirico come lui solo sa fare. I dettagli e i grandangoli che si susseguono nei momenti di tensione danno sensazioni di leggera vertigine e sostituiscono perfettamente le descrizioni del Maestro di Portsmouth, capaci di far entrare il lettore in mondi esterni al nostro. Ad aiutarne la sensazione è, questo lo si deve ammettere, proprio il pacing lento e denso della serie, che aumenta la sensazione di star vivendo un’esperienza, più che di star vedendo una serie.

Gli effetti speciali e la CGI risultano tuttavia palesemente finti e i costumi realizzati come se fossimo ad una fiera del cosplay non aiutano. Ma questo è un tratto comune, e sicuramente volontario, deli prodotti visivi di Gaiman. Lo si è visto in Good Omens!, in Mirrormask e nelle puntate di Doctor Who scritte da lui, probabilmente per accentuare lo stile “giocoso” e volutamente finto della serie, per aumentare l’esperienza surreale della storia.

Gli occhi del lettore e dello spettatore

Si ripete perciò quel che si è detto nella recensione della seconda stagione di Queste Oscure Materie: se si è troppo affezionati all’opera originale di American Gods, è quasi certo che non si apprezzerà l’adattamento seriale. D’altro canto, si può tranquillamente godere di una delle serie TV più esteticamente interessanti degli ultimi anni ma di certo non una delle migliori.

Per i lettori, si spera che nella prossima, e molto probabilmente ultima, stagione di American Gods, proprio come in Queste Oscure Materie, vengano aggiustati gli errori precedentemente citati e ci venga dato un finale degno di questo nome.

Per ora, questa rimane la stagione peggiore di American Gods.

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Veoneladraal

Fin da bambino sono sempre stato appassionato di due cose: i romanzi fantasy e il cinema, passioni che ho coltivato nel mio percorso universitario, laureandomi al DAMS Crescendo hoi mparato a coltivare gli amori per i videogiochi, i fumetti e ogni altra forma di cultura popolare. Ho scritto per magazine quali Upside Down Magazine e Porto Intergalattico, e ora è il turno di SpaceNerd di sorbirsi la mia persona! Sono un laureato alla facoltà DAMS di Torino, con tesi su American Gods e sono in procinto di perseguire il master in Cinema, Arte e Musica.

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