Black Hammer, serie a fumetti edita da Dark Horse Comics – in Italia da Bao Publishing – ideata e scritta da Jeff Lemire con disegni di Dean Ormston, David Rubìn e Rich Tommaso, potrebbe apparire come l’ennesimo tentativo di creare da zero un universo supereroistico alternativo a quelli di Marvel e DC. Di esperimenti del genere, più o meno fallimentari, se ne sono visti tantissimi nel corso degli anni, soprattutto ’90: Valiant, WildStorm e Milestone sono solo i più altisonanti.
Proprio nella WildStorm di Jim Lee possiamo trovare l’universo supereroistico più in linea con lo spirito di Black Hammer: l’America’s Best Comics di Alan Moore.
Proprio come il Bardo di Northampton agli inizi degli anni 2000, anche Jeff Lemire crea un personale Pantheon supereroistico attingendo ai canoni del genere, per poi declinarli alle proprie suggestioni di autore.
Lemire è uno degli autori più abili e giustamente apprezzati del fumetto contemporaneo, ma anche uno dei più riconoscibili e, a voler essere maligni, ridondanti. Le sue storie sono sempre accomunate da paesaggi rurali isolati; da personaggi tormentati dagli errori e dai traumi passati che ne hanno offuscato i sogni di gloria e la felicità; dal concetto di “famiglia” – in particolare il rapporto padre-figlio – come rifugio e allo stesso tempo dannazione. L’intero universo di Black Hammer non fa eccezione.
Il setting della storia è proprio una fattoria sita in una comunità semplice e, letteralmente, isolata dal resto della realtà. I personaggi sono tutti ex-supereroi, lì ritrovatisi in seguito ad una vera e propria Crisi che li ha visti confrontarsi con un essere potente e apocalittico: l’Anti-Dio (una sorta di fusione tra Darkseid, Anti-Monitor e Galactus). Questo evento ha portato alla morte di uno di loro, Black Hammer (mashup di Thor e Superman), il supereroe più potente del mondo.
Nei primi due volumi della serie, Origini e L’Evento, scopriamo il passato degli eroi sopravvissuti, ognuno dei quali incarnante un preciso stereotipo del fumetto supereroistico, e i loro tentativi di lasciare quella realtà alternativa per tornare al loro mondo. All’interno del gruppo cominciano a formarsi degli attriti tra chi vorrebbe tornare indietro, come Golden Gail (la “versione Lemire” di Shazam), una donna di 50 anni intrappolata nel corpo del proprio alter-ego con superpoteri: una bambina di 8 anni, e chi vorrebbe invece rifarsi una vita nella realtà alternativa, in primis Abraham Slam (epigono di Wildcat e Capitan America), ex-pugile stanco e alcolizzato che vede nella loro nuova condizione l’opportunità di non accettare l’ineluttabilità della vecchiaia.
A questi si aggiungono:
Le analogie tra il Black Hammer Universe e l’ABC di Alan Moore non si fermano alla semplice decostruzione e all’autoreferenzialità. Lemire imbastisce un giallo metanarrativo Watchmen style a conduzione famigliare alternato ai flashback dei singoli eroi, inscenati con lo stile delle storie a fumetti di riferimento (pulp anni ’30, fantascienza anni ’50 e tanto, tantissimo Jack Kirby). Tale struttura è tipica del modo di fare alla Moore e risale agli inizi della sua carriera con Miracleman, per poi affinarsi e consolidarsi in opere dalla sempre più forte vena citazionista, come Supreme e Tom Strong. Tuttavia, a differenza di Moore, Lemire risulta molto meno ridondante e verboso. Black Hammer si discosta dalle digressioni enfatiche operate attraverso le didascalie, tipiche dei primissimi lavori dello scrittore, per concentrarsi su dialoghi asciutti e diretti incentrati sulla pesantezza concettuale, piuttosto che testuale. Laddove i personaggi di Moore – praticamente dei pupazzi sviscera-concetti – comunicavano attraverso lo stesso, artificioso registro vittoriano, Lemire ne sceglie con cura uno per ogni protagonista: sboccato ed esasperato per la sessualmente frustrata Gail; educato e delicato per l’emotivo Barbalien; estraniante e “fuori dal mondo” per Randall ecc.
Ne esce fuori una lettura dal ritmo cadenzato, in grado di far appassionare immediatamente il lettore al cast di eroi-non-eroi strappati al loro contesto spazio-temporale e, per questo, sempre in bilico tra depressione e pazzia; il tutto conservando quella delicatezza che ha reso celebre le prime opere di Jeff Lemire, su tutte Essex County e Il saldatore subacqueo. Il mistero trainante della vicenda – allegoria dei concetti di reboot e legacy di stampo DC, incarnati dal personaggio di Lucy Weber, figlia di Black Hammer – risulta sì interessante, ma passa quasi in secondo piano rispetto alle motivazioni e alle evoluzioni dei protagonisti.
Dean Ormston, disegnatore titolare della testata, nonostante i gravissimi problemi di salute che ne hanno in parte minato le performance, è riuscito a legare anche a livello grafico Black Hammer alla corrente revisionista mooriana degli anni ’80 grazie al suo tratto grezzo e ruvido, debitore proprio di Jack Kirby per le anatomie massicce e sgraziate, l’espressività grottesca e l’inchiostrazione “macchiata”, sebbene quest’ultima presenti maggiori analogie con i fumetti horror della Warren Publishing. Il suo stile peculiare, espressivo e registicamente accurato che modernizza l’estetica del Quarto Mondo, dona un tocco distintivo notevole alla serie rispetto al panorama supereroistico odierno, rendendo ancor di più Black Hammer un prodotto autoriale.
Black Hammer è un fumetto sicuramente derivativo per molti aspetti, eppure proprio per questo risulta tremendamente amichevole nei confronti di chi, dei supereroi, crede di averne avuto abbastanza, ma non vuole proprio farne a meno; e anche di chi, invece, vorrebbe assaggiarne una fetta, ma non ci pensa proprio a recuperare i fumetti Marvel e DC. Giustamente.
Nell’analisi sono stati esclusi i vari spin-off del Black Hammer Universe (Sherlock Frankenstein e la Legione del Male, Quantum Age, Skulldigger…). Però non è escluso che, in futuro, con il vostro interesse, si possa rimediare.
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