Darren Aronofsky appartiene a quella categoria di registi legati indissolubilmente ad un unico genere. Nel suo caso, il drammatico, con occasionali contaminazioni fantasy (The Fountain, Noah) e horror (Madre!).
I suoi film raccontano di protagonisti visionari e particolarmente capaci in un determinato campo (in π – Il teorema del delirio il protagonista è un eccellente matematico; in The Fountain un ricercatore; ne Il cigno nero una ballerina di prim’ordine e così via) ossessionati dalla ricerca di un qualcosa.
Tale ricerca li porta inevitabilmente a isolarsi in una sorta di gabbia autodistruttiva (spesso anche autolesionista), rifiutando i dolori e le gioie di una comunità che cerca in ogni modo di riportarlo tra le sue fila.
Per sopportare il peso di questa condizione, spesso fanno ricorso all’abuso di psicofarmaci (π – Il teorema del delirio) o sostanze stupefacenti (Requiem for a Dream, The Wrestler) pur di non dover fare i conti con l’inaccettabile realtà dalla quale sono fuggiti.
Invero, man mano che le trame proseguono, il loro isolazionismo si trasforma in un “ascetismo compulsivo”, a volte metaforico (π – Il teorema del delirio) a volte esplicito (The Fountain), il cui coronamento non sussiste nel superamento di una prova e nel successo della ricerca, bensì nel suo fallimento.
I protagonisti dei film di Darren Aronofsky alla fine arrivano a comprendere la verità, salvo poi scoprirla troppo grande affinché un uomo solo, per quanto capace, possa piegarla e usarla a piacimento.
Solo una volta aver preso coscienza dell’ineluttabilità del reale – sempre vincitore nonostante gli sforzi compiuti e il ripudio da parte dei suoi oppositori – il protagonista raggiunge la serenità, riconciliandosi con il creato.
La rassegnazione è quindi vista come l’unica via di fuga dall’egoistica ossessione dell’uomo dotato, i cui talenti non lo rendono superiore all’invisibile volontà dell’esistenza.
C’è però sempre un ulteriore prezzo che il protagonista dovrà pagare prima di ricevere il definitivo appagamento, come la morte di una persona cara (The Fountain), la perdita dell’intelletto (π – Il teorema del delirio), o persino della vita (The Wrestler, Il cigno nero). Tale pagamento conduce a un finale karmico in cui l’ordine naturale delle cose inizialmente sovvertito viene ripristinato.
Emblematica in questo senso è la rappresentazione delle religioni occidentali e delle loro personificazioni, le quali custodiscono segreti oscuri e arcani, la cui rivelazione porterebbe al sovvertimento dello status quo che vorrebbero preservare per i loro interessi, anche a costo di compiere azioni amorali (il rapimento del protagonista da parte della setta cabalista in π – Il teorema del delirio, i processi dell’inquisizione spagnola in The Fountain, il Diluvio Universale da parte di Dio in Noah).
Tuttavia, è proprio con queste azioni che istigano e scatenano la volontà del sovversivo, ottenendo il risultato opposto a quello prefisso.
Non a caso, sempre in π – Il teorema del delirio, la religione è una delle principali persecuzioni del protagonista insieme ai movimenti del mercato – entrambi rappresentati come ciniche e subdole forme di establishment arrivista – e in The Fountain l’inquisizione è il nemico di una delle reincarnazioni di Hugh Jackman nonché ciò che lo costringe a partire alla ricerca dell’albero della vita.
La tecnica registica di Darren Aronofsky vive di inquadrature strette e primi piani; lo spazio ha la funzione meramente allegorica di esplicitare il disagio del protagonista attraverso pochi ambienti essenziali e claustrofobici.
Questo malessere viene trasmesso anche attraverso i numerosi dettagli nelle scene che prevedono l’assunzione di sostanze, generando un senso di repulsione immediato nello spettatore alla visione degli effetti sul corpo umano.
Gli stacchi tra un primo piano e l’altro sono spesso repentini e coniugati a un montaggio alternato che sovrappone più piani temporali, così da evidenziare il totale estraniamento del protagonista rispetto alla realtà vera e propria.
Per questo motivo, la fotografia è caratterizzata da toni cupi e colori spenti, anche nelle scene concettualmente più patinate (i momenti sul ring in The Wrestler), così che il travaglio interiore del personaggio principale permei ogni istante del film.
I movimenti di macchina non sono mai esagerati e i piani sequenza prolungati esplicitano una sorta di presenza persecutoria che attanaglia il protagonista (ne Il cigno nero Natalie Portman guarda spesso in camera come a voler sfidare tale presenza con la sua abilità di ballerina), o la rivelazione dell’entità superiore che si cerca di raggiungere (quando in The Fountain la camera si alza da terra per inquadrare Xibalba).
Tutto questo rende Darren Aronofsky un regista intimista, che ha basato la sua estetica sulla sofferenza dell’animo umano e sulla forza di immagini emotivamente intense, capaci di coinvolgere lo spettatore sia per la loro crudezza che per la loro poeticità.
Tutto questo nonostante le trame abbastanza lineari celate sotto un alone di apparente cripticità che lascerebbero pensare, ai meno attenti, che il suo sia solo uno sfoggio di sentimentalismi faciloni, invece di quello che è realmente: una struttura solida, personale, adattabile a molteplici contesti, sempre attuale e immediatamente riconoscibile nella sua messa in scena. In poche parole: l’identikit del vero autore.
π – Il teorema del delirio
Requiem for a Dream
The Fountain – L’albero della vita
The Wrestler
Il cigno nero
Noah
Madre!
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