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La monografia di M. Night Shyamalan – Parte 2: il Periodo Buio

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Ci eravamo lasciati la scorsa volta in un periodo un po’ incerto della carriera di M. Night Shyamalan. Era ancora considerato un cineasta rispettato, ma dopo il fallimento di The Village critica e pubblico avevano iniziato a dubitare delle effettive capacità della nuova promessa di Hollywood.

Una sfiducia che si sarebbe riflessa pesantemente nei film successivi, spesso considerati i peggiori dell’intera carriera di Shyamalan.

Avventuriamoci dunque nella seconda fase della carriera del discusso regista indo-americano, quella ritenuta più controversa e altalenante rispetto agli esordi della sua produzione.

La fiaba di un frustrato: Lady in the Water

Anche in questo caso Shyamalan tenta di creare una favola moderna, in cui uno spirito dell’acqua (interpretato da Bryce Dallas Howard) deve illuminare il genere umano e, per farlo, viene aiutato dal sovrintendente di un condominio (Paul Giamatti) che, insieme ai residenti dell’immobile, deve decifrare la storia dello spirito per permettergli di tornare nel mondo da cui proviene.

Nonostante le premesse possano sembrare interessanti, il film in sé non lo è affatto. Tutti i comprimari risultano piuttosto sgradevoli, e le vicende che li coinvolgono sono poco coinvolgenti, in particolare l’inquilina coreana, presente unicamente per spiegare la “lore” dell’universo narrativo e ciò che sta accadendo, quasi come se recitasse la trama stessa.

La storia, infatti, non si sviluppa attraverso lo scorrere degli eventi, ma viene costantemente spiegata dai personaggi, rendendo l’intreccio decisamente noioso e a tratti difficile da seguire con attenzione.

Tra gli inquilini compare anche M. Night Shyamalan, in un cameo molto più insolito rispetto ai precedenti: interpreta uno scrittore in crisi creativa, il cui romanzo, una volta concluso, dovrebbe cambiare il modo in cui vediamo il mondo. Un personaggio costantemente plagiato da un altro inquilino, critico d’arte, destinato a morire atrocemente verso la fine del film. Si tratta di un’auto-rappresentazione tutt’altro che sottile e fortemente idealizzata, che finisce per far apparire l’autore come presuntuoso ed egocentrico, impegnato a combattere la feroce critica contro i suoi film incompresi.

La mancanza di empatia verso i personaggi e la scarsa rilevanza degli eventi narrati, nonostante vengano presentati come di grande importanza, unite allo spocchioso cameo appena citato, rendono Lady in the Water un film poco stimolante e a tratti fastidioso da guardare. Non a caso, fu un altro fallimento al botteghino.

Se dovessimo descriverlo con una sola frase, potremmo dire che è come ascoltare un uomo raccontare un sogno ricordato dopo molti anni: all’inizio può sembrare fantasioso e affascinante, ma alla fine si riduce a ricordi sconnessi e spiegazioni confuse di fatti che non interessano davvero.

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La parodia di Hitchcock: E venne il giorno

Senza mezzi termini, E venne il giorno è un film talmente brutto da risultare quasi affascinante proprio in virtù della sua bruttezza.

È incredibile che un regista come Shyamalan abbia potuto scrivere e dirigere un film del genere. In questa storia il vento spinge le persone a togliersi inspiegabilmente la vita e una famiglia cerca di sopravvivere. La trama, in sé, ricorda quella di Signs, dove una famiglia resiste a una forza incontrollabile, ma qui mancano completamente sia il carisma dei personaggi sia i temi che davano forza a quella pellicola.

Particolare anche la scelta di Shyamalan di affidare un film catastrofico ad attori che poco hanno a che fare con questo genere, come Zooey Deschanel, protagonista di New Girl, oppure Mark Wahlberg, un interprete che non ha né la credibilità né l’energia di un sopravvissuto a una catastrofe.

Inutile dire che, tra la premessa già discutibile e le scene fuori contesto del personaggio di Wahlberg (diventate virali su Internet) l’ennesima fatica di Shyamalan si trasformò in breve tempo in una barzelletta. Persino i fan più appassionati del regista faticano a difendere questo film, che sarebbe dovuto essere un omaggio ad Hitchcock ma che alla fine è risultato un vero e proprio disastro.

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Come rovinare un franchise: L’ultimo dominatore dell’aria

Se E venne il giorno è considerato uno dei peggiori film di Shyamalan, L’ultimo dominatore dell’aria è ricordato come una delle più grandi delusioni del cinema e vituperato dai fan dell’omonima serie animata come uno dei peggiori adattamenti di sempre, al pari soltanto di Dragon Ball Evolution.

Se con E venne il giorno e Lady in the Water Shyamalan si muoveva ancora nel territorio del film d’autore, qui ha tentato finalmente di cimentarsi con un vero e proprio blockbuster hollywoodiano: un adattamento voluto dalla Paramount della prima stagione di uno dei suoi show di punta, Avatar: La leggenda di Aang, forse anche nel tentativo di riscattarsi dopo i due precedenti insuccessi.

Pur trattandosi di un compito relativamente semplice, Shyamalan è riuscito a fallire completamente nell’adattamento dei venti episodi. La vicenda e i personaggi principali sono narrati con pochissimo pathos e con un pressapochismo che li rende privi di vita, quasi come se il film fosse stato scritto e diretto da un algoritmo piuttosto che da un autore in carne e ossa. Inutile dire che anche il montaggio e gli effetti speciali, soprattutto nelle scene d’azione, lasciano molto a desiderare.

Uno dei punti di forza della serie animata stava proprio nella trama semplice ma efficace e nel carisma dei protagonisti: elementi che qui mancano del tutto o vengono compressi e raccontati in maniera estremamente convulsa.

Basta confrontare l’inizio della serie con quello del film: nella prima, una sequenza animata coinvolgente introduce in modo chiaro ed essenziale i punti fondamentali (il dominio dei quattro elementi, la figura dell’Avatar capace di controllarli tutti, la sua improvvisa scomparsa e l’ascesa di una nazione che ne approfitta per conquistare il mondo). Nel film, invece, tutto questo è ridotto a un lungo testo introduttivo, piatto e privo di ritmo.

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Shyamalan sembra inoltre molto più interessato a esplorare gli aspetti che lo hanno colpito maggiormente, come il Mondo degli Spiriti, piuttosto che a costruire il legame tra i tre protagonisti Aang, Katara e Sokka (i cui nomi, per qualche ragione, vengono pronunciati diversamente rispetto alla serie animata). L’amicizia, anziché essere mostrata con le azioni, viene semplicemente raccontata, privando lo spettatore di qualsiasi coinvolgimento emotivo.

La parte più discutibile è il finale, costruito in modo da suggerire un ipotetico sequel che avrebbe dovuto dar vita a una trilogia sul modello dei grandi franchise come Star Wars o Il Signore degli Anelli. Ma il totale fraintendimento dell’essenza di Avatar (una delle più riuscite serie animate degli ultimi decenni) ha stroncato sul nascere il progetto, lasciando nel fandom una ferita difficile da rimarginare.

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Come non fare un blockbuster: After Earth

Dopo il terzo flop consecutivo, solo un miracolo avrebbe potuto salvare la reputazione di Shyamalan.

La sua prossima opera avrebbe dovuto essere un successo, e questo il regista lo sapeva bene. Per questo motivo cercò in tutti i modi di rendere il nuovo film il più appetibile possibile, arrivando a ingaggiare uno degli attori più popolari di sempre, Will Smith, così da garantirsi comunque l’appoggio dei fan anche in caso di insuccesso.

Inoltre, Smith era reduce dal successo di Alla ricerca della felicità, dove il rapporto con il figlio Jaden era stato uno dei punti di forza della pellicola. Fu probabilmente questo il motivo per cui venne scritturato anche Jaden, nella speranza di ricreare la stessa dinamica padre-figlio in un contesto diverso.

Questa volta, però, non si trattava di un film drammatico, bensì di un action-fantascientifico, un altro tentativo di blockbuster con cui Shyamalan sperava di risollevarsi dal periodo più buio della sua carriera. Inutile dire che invece After Earth lo ha affossato ulteriormente.

La trama si sviluppa in un futuro in cui la Terra, ormai inospitale, è stata abbandonata dall’umanità, rifugiatasi su un altro pianeta abitato da alieni ostili. Questi utilizzano mostri geneticamente modificati capaci di percepire la paura delle loro prede. Per questo motivo il generale Cypher Raige, interpretato da Will Smith, si è addestrato a eliminare ogni emozione di paura, sviluppando la tecnica dello “spettrare”: liberandosi delle proprie paure, riesce a eludere gli attacchi delle creature.

Già dalla sola premessa lascia perplessi che qualche studio abbia approvato il progetto, considerando che sembra costruito appositamente per esaltare in maniera eccessiva Will Smith e il suo personaggio.

Il film presenta inoltre uno dei casi di nepotismo più evidenti degli ultimi anni: senza l’influenza del padre, Jaden Smith difficilmente avrebbe superato un’audizione, dato il livello della sua recitazione. È proprio lui la parte più debole del film: soprattutto in lingua originale, dove prova a forzare un accento che dovrebbe suggerire un dialetto futuristico, ma che risulta soltanto fastidioso.

Neppure Will Smith riesce a fare una buona figura: non è mai stato particolarmente convincente nei ruoli stoici, e affidargli un personaggio che non sorride mai e non mostra emozioni si rivela un mezzo disastro.

Guardare questo film è stata una vera sofferenza, perché sembra quasi che Shyamalan si sia autosabotato. È un regista capace, e proprio per questo è frustrante vederlo dirigere lavori così mediocri, quasi volesse dimostrare di voler fallire di proposito.

After Earth non sembra nemmeno un film diretto da Shyamalan: appare come un banalissimo film d’avventura che avrebbe potuto girare chiunque. I personaggi sono privi di carisma, soprattutto Jaden Smith, che non ha la stoffa per interpretare l’eroe di un film d’azione. Ed è un peccato, perché si sarebbe potuto intravedere del potenziale se Shyamalan si fosse davvero concentrato sulla dinamica padre-figlio già citata, in particolare nei momenti in cui i due si trovano ad affrontare fianco a fianco le avversità dopo essere precipitati sulla Terra ormai selvaggia.

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Conclusione: dopo aver toccato il fondo ci si rialza?

Il problema di fondo dei quattro film analizzati, considerati i peggiori della filmografia di Shyamalan, è la mancanza di personaggi con cui lo spettatore possa empatizzare: il regista propone protagonisti generici, le cui vicende risultano davvero poco interessanti.

L’idea iniziale di After Earth era molto più semplice e, forse, più adatta alle corde di Shyamalan: una storia intima in cui padre e figlio devono sopravvivere dopo essersi smarriti nei boschi. Invece ha scelto ancora una volta la strada del blockbuster estivo, fallendo miseramente.

È chiaro che Shyamalan attraversasse un periodo difficile e avesse bisogno di un guadagno sicuro per tornare in auge. Probabilmente è per questo che si è affidato alle grandi case di produzione e ai loro blockbuster. Ma le regole limitanti, il timore del responso negativo del pubblico e la conseguente mancanza di libertà creativa gli hanno impedito di esprimersi come era solito fare. Il risultato sono film tra i meno riusciti e, senza dubbio, i più dimenticabili della sua carriera.

Riuscirà Shyamalan a risollevarsi? Lo scopriremo tra qualche mese, nella prossima puntata.









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Giornalista freelance e articolista a tempo perso, penso che anche i film, fumetti e videogiochi hanno qualcosa da raccontare se si scava un pò più in fondo e non ci si ferma alla semplice copertina.

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