Chiunque abbia mai lanciato un controller contro il divano o, al contrario, esultato dopo un boss vinto con un singolo punto vita sa che la difficoltà non è un dettaglio: è il nucleo emotivo del videogioco. Ma come siamo passati dai cabinati “mangia-monete”, progettati per svuotarci le tasche di gettoni, alle dispute odierne sul “git gud” e sulle micro-transazioni che accorciano il grind? E perché due JRPG usciti a poca distanza l’uno dall’altro, Clair Obscur: Expedition 33 e Metaphor: ReFantazio , possono incarnare visioni quasi opposte di cosa significhi “hard gaming”?
Nell’articolo che segue ripercorro questa evoluzione in sette tappe:
Origini commerciali della sfida – dalle sale giochi al mito Nintendo Hard ;Difficoltà estrinseca – il ciclo frustrante di Call of Duty 2 e la brutalità dei Jackal Sniper in Halo 2 ;Elitarismo “git gud ” – quando la durezza diventa badge identitario e strumento di gatekeeping;Monetizzare la fatica – dal “sense of pride and accomplishment” di EA al pay-to-win dei free-to-play;Difficoltà intrinseca – design che insegna e premia il ragionamento, da L.A. Noire a Celeste ;Confronto contemporaneo – tempismo implacabile di Expedition 33 vs. strategia scalabile di Metaphor ;Conclusioni – perché il vero valore non è sopportare cento sconfitte identiche, ma imparare cento lezioni diverse.Che siate veterani dell’era arcade o neofiti attratti dai JRPG moderni, troverete qui un viaggio critico che interroga il senso della fatica videoludica: quando diventa palestra di competenze, quando si trasforma in tornello economico, e quando, purtroppo, si erge a muro di esclusione. Prepariamoci dunque a esplorare non solo quanto un gioco può essere difficile, ma perché quella difficoltà meriti (o meno) il nostro tempo, la nostra pazienza e, in fondo, il nostro entusiasmo.
1. Origini della sfida: dalle sale giochi “mangia-monete” al mito Nintendo Hard Per capire perché oggi discutiamo di bilanciamento, “git gud” e gatekeeping, bisogna tornare a quando la parola difficoltà non era (solo) un elemento di design ma, prima di tutto, un modello di business. Nei primissimi anni ’70, con Pong , Atari scoprì che la chiave del successo economico di un cabinato non era la sua profondità ma la sua capacità di far girare il pubblico: un singolo mobile installato in un bar californiano a caso potenzialmente fruttava in media 200 dollari a settimana, proprio perché una partita durava poco e spingeva i clienti a infilare gettoni in rapida successione.
Da lì in avanti ogni progettista di arcade ottenne un obiettivo chiaro: massimizzare l’earn-per-play mantenendo un equilibrio delicato fra due estremi: troppo facile significava meno incassi, troppo crudele significava clienti scoraggiati.
Il risultato fu una generazione di giochi oggi definiti “quarter-muncher”: titoli come Space Invaders e, soprattutto, Pac-Man . Quest’ultimo aumentava progressivamente la velocità dei fantasmini finché, al famigerato livello 256, un overflow di memoria “spaccava” lo schermo in un groviglio illeggibile, il cosiddetto kill screen : un traguardo tanto assurdo quanto prestigioso per chi ci arrivava. Quel bug divenne un mito: non solo segnalava i limiti tecnici di un’epoca, ma sanciva la nascita di un’aristocrazia del punteggio alto, celebrata sui tabelloni luminosi dei cabinati e, più tardi, sulle pagine di Twin Galaxies e Nintendo Power .
Quando, a metà anni ’80, i videogiochi migrarono dal neon delle sale giochi al salotto di casa, il contesto economico cambiò ma la filosofia della sfida sopravvisse. Le cartucce per NES costavano 40-60 dollari; dovevano quindi “durare”, giustificando l’esborso in un’epoca in cui il salvataggio a batteria era raro e la memoria a disposizione misurava pochi kilobyte. La soluzione? Aumentare la difficoltà, riducendo il rischio che l’utente finisse il gioco in un weekend. Nacque così l’espressione Nintendo Hard , applicata a titoli come Battletoads (con il famigerato Turbo Tunnel ), Ninja Gaiden (celebre per il knockback che ti scaraventava nei burroni) o Ghosts ’n Goblins , che pretendeva due giri consecutivi per mostrare il vero finale.
A spingere ulteriormente verso il baratro c’era la battaglia legale fra Nintendo of America e la catena Blockbuster : in Giappone il noleggio di cartucce era vietato, negli USA no, e le software house temevano che un gioco completabile in due giorni di rental portasse a mancate vendite. Alcuni studi, Capcom con Mega Man 3 o Tecmo con Ninja Gaiden III , alzarono quindi la curva di difficoltà nelle versioni nord-americane, tagliando vite extra o incrementando il danno dei nemici, nel tentativo di trasformare il “rental weekend ” in un acquisto obbligato.
Questa combinazione di limiti hardware, strategie commerciali e prestigio sociale generò un ecosistema in cui la durezza era virtù: finire Contra senza usare il Konami Code, superare il ciclo doppio di Castlevania , raggiungere il livello 30 di Balloon Fight divennero imprese da raccontare al parco giochi o da spedire per posta alle riviste, in attesa di veder pubblicato il proprio nome accanto a quello dei campioni. In altre parole, la difficoltà, nata come strumento per far cadere gettoni, si trasformò in capitale simbolico, fondando la prima gerarchia di “veri gamers” e gettando le basi culturali di quell’elitarismo che oggi riconosciamo nello slogan “git gud”.
2. Difficoltà estrinseca: la frustrazione come (anti)progetto Se le sale giochi avevano trasformato la sfida in moneta sonante, l’avvento del 3D e dei blockbuster miliardari portò alla ribalta un diverso volto della difficoltà: non più l’arte di insegnare al giocatore nuovi schemi, bensì l’escamotage di alterare meri valori numerici (meno salute, più danno nemico, spawn aggressivi) delegando l’intero peso della “competenza ” alla pazienza .
L’esempio più emblematico resta Call of Duty 2 alla difficoltà Veterano , e in particolare il famigerato livello “The Silo”. Qui ogni proiettile tedesco è letale in due o tre colpi, i checkpoint sono ravvicinati ma ossessivi e la IA pare programmata per “aggrare” solo il protagonista: si crea un ciclo in cui il giocatore attraversa una porta, viene falciato, ricarica, avanza di mezzo metro, muore di nuovo.
Forum di metà anni Duemila raccontano scene di pura disperazione: un utente di GameFAQs confessa di aver “sfondato il muro della cameretta al centocinquantesimo tentativo”, mentre thread Reddit più recenti definiscono la difficoltà Veterano “rage-inducing” e riducono la strategia a spam di granate fumogene e micro-avanzi ai margini della mappa. Nulla, però, nell’architettura dei livelli o nell’intelligenza nemica cambia tra difficoltà Recluta e Veterano: l’unico interruttore tirato dagli sviluppatori è la variabile del danno, come conferma la stessa wiki ufficiale, che quantifica l’uccisione del giocatore in “due-tre colpi quasi ovunque”.
Se CoD 2 incarna la reiterazione punitiva, Halo 2 mostra come l’escalation aritmetica possa sconfinare nel grottesco. Chiunque abbia tentato la campagna a Legendario ricorda l’incontro coi Jackal Snipers : nemici sottili come stecche, nascosti oltre la nebbia, capaci di uccidere Master Chief con un singolo raggio a particella nel preciso fotogramma in cui la sua silhouette varca l’angolo di copertura.
Su Reddit abbondano post che descrivono l’esperienza come “più difficile di quanto Bungie avesse previsto”, citando l’invisibilità degli avversari e l’assenza di contromisure se non la memorizzazione preventiva degli spawn; altri, più rassegnati, consigliano di “sparare un colpo a vuoto, lasciarsi colpire, tracciare la scia e cambiare subito posizione”, una procedura meccanica che nulla aggiunge in termini di apprendimento ludico. Persino discussioni recenti su Steam, in cui alcuni difendono i Jackal definendoli “divertenti da eliminare”, ammettono che morire così “non conta come cattivo design solo perché Legendario non è per tutti”; un’accettazione fatalista che rivela quanto la community abbia interiorizzato l’idea che la sfida non debba necessariamente essere giusta, basta che sia esclusiva.
Questi due casi illustrano perfettamente cosa significhi difficoltà estrinseca : il gioco non ti chiede di comprendere nuove regole o di elaborare strategie più sofisticate, ti chiede di reggere un carico di fallimenti identici finché, per puro accumulo di tentativi o per improbabile fortuna, non superi il punto critico. Il bilanciamento diventa una leva grossolana, spesso un moltiplicatore di danni, che sostituisce la progettazione di pattern, coperture, cicli d’attacco.
In termini pedagogici, è l’equivalente di alzare il volume dell’esercizio invece di cambiare spartito: il musicista non impara scale più complesse, si limita a suonare la stessa nota a velocità raddoppiata finché non gli cedono le dita. Non sorprende, dunque, che la narrazione eroica del “buco nel muro” o del “controller lanciato” sia diventata un rito di passaggio: la sofferenza prolungata è l’unico capitale che questi sistemi concedono di accumulare.
E qui lo stigma si salda con l’orgoglio: se la sfida si riduce a resistenza al fallimento, chi non la tollera è automaticamente screditato come “casual”, mentre chi la supera, magari dopo decine di ore di logorante trial-and-error , rivendica un primato che poco ha a che vedere con abilità tattili o mentali, ma molto con la semplice perseveranza. In altre parole, la difficoltà estrinseca non è un’opportunità di crescita, è un test di sopportazione: trasforma il videogioco da palestra di competenze a sport di sopravvivenza emotiva, aprendo la strada a quella retorica tossica che più avanti si cristallizzerà nel mantra del “git gud”.
3. “Git gud”, elitismo e gatekeeping La soglia che separa la difficoltà “commerciale” delle sale giochi da quella “aritmetica” di CoD e Halo prepara il terreno a un terzo stadio: la difficoltà come distintivo culturale . L’espressione “git gud”, resa popolare dai fan di Dark Souls ma nata anni prima nelle lobby di Metal Gear Online , era un imperativo indirizzato ai novizi: smetti di lamentarti, migliora le tue skill, oppure esci dalla lobby. Nel passaggio ai forum di FromSoftware la formula cambia pelle, diventando non più un consiglio brusco ma un marchio d’élite : chi lo pronuncia afferma implicitamente di appartenere a una casta che ha superato ostacoli ritenuti insormontabili dai “casual”.
Questa retorica si innesta su trent’anni di mitologia “Nintendo Hard” e trova un alleato nell’architettura stessa dei Soulslike: messaggi di altri giocatori incisi a terra, arene che si aprono senza checkpoint, enfasi sulla morte come didattica. Il gioco promette una rivelazione (“la soddisfazione più pura del medium”) a chi resiste: da qui l’equazione sofferenza = merito . Tuttavia il linguaggio del “git gud” sfocia facilmente nel gatekeeping : come spiega Ant Barlow, la frase viene brandita per tacitare chiunque chieda opzioni di accessibilità o livelli di difficoltà più flessibili, ribadendo che “il vero gamer” non deve abbassare l’asticella (Barlow 2022 ).
L’esclusione non è solo retorica: Beatrix Livesey-Stephens documenta come il “git gud” finisca per mascherare forme di abilismo , la convinzione che chi non possiede certe capacità motorie o cognitive non meriti di partecipare, perché l’unica risposta al bisogno di adattamento diventa “migliora ” (Livesey-Stephens 2021 ). James Stephanie Sterling aggiunge che molti hardcore gamer sopravvalutano la propria bravura: ostentano no-hit run o playthrough a livello 1 ignorando oggetti chiave, confondendo l’auto-limitazione con la purezza ludica, quando in realtà stanno solo costruendo un rituale identitario (Sterling 2024 ).
Questo culto della competenza “pura” si intreccia con la cultura speedrunning , dove l’uso di glitch è celebrato come prova di maestria, e rivela l’arbitrarietà delle regole sociali: glitchare un boss per saltare metà livello è “skill”, usare una pozione curativa è “cheese”. Dan Olson, nel talk Why It’s Rude to Suck at Warcraft , mostra come le community costruiscano gerarchie interne non sui sistemi del gioco ma su norme tacite: uno stile di gioco difensivo e curativo in Elden Ring può battere uno aggressivo, ma verrà comunque bollato come “senza onore”. Il paradosso è evidente: si invoca la “visione degli sviluppatori” per condannare tattiche perfettamente previste dal design di gioco, mentre si glorificano exploit che l’autore non avrebbe mai immaginato.
Il risultato è un’arena discorsiva dove il “git gud” sostituisce l’argomentazione: chi lo pronuncia si sottrae al dialogo sul bilanciamento, sull’accessibilità, sul significato stesso di divertimento. Confronto non permesso. Eppure, come ricorda Know Your Meme , l’origine della frase in un vecchio shooter multigiocatore dimostra che non esiste una tradizione nobile da preservare, solo un pragmatismo spiccio nato per irridere l’avversario.
In altre parole, la difficoltà come segno di valore si è trasformata in un sistema di dogmi mobili : ciò che conta non è tanto superare una sfida ben progettata, quanto poter dire di aver sofferto più dell’altro. Ed è proprio questa mutazione, dalla moneta al martirio, che prepara lo scenario per le tensioni contemporanee tra chi invoca sfide più giuste e chi, dietro un “git gud”, difende il proprio status a costo di trasformare l’esperienza di gioco in un club esclusivo.
4. Monetizzare la fatica: dal “sense of pride and accomplishment” di Battlefront II alla corsia preferenziale dei super-ricchi Quando la difficoltà diventa merce di scambio, il suo significato ludico si piega a logiche di estrazione di valore: non è più “prova di abilità”, ma barriera artificiale che legittima l’esborso o la scorciatoia.
L’emblema resta la controversia del 2017 su Star Wars Battlefront II : di fronte alle critiche per le 40+ ore richieste per sbloccare eroi iconici come Darth Vader, Electronic Arts rispose su Reddit che quel grind era stato concepito per “creare un senso di orgoglio e realizzazione”, frase che segnò il record mondiale di down-vote e costrinse EA a sospendere le micro-transazioni prima del lancio commerciale. Qui la difficoltà, un tempo garanzia di longevità, fu riconfigurata come cuneo psicologico : o investi decine di ore in compiti ripetitivi, o paghi per saltarli.
Lo stesso meccanismo permea i titoli sportivi annuali: in NBA 2K la valuta VC può essere guadagnata con un “grind incredibilmente peggiorato” (parole di un utente la cui frustrazione per la lenta progressione ha acceso un thread virale) oppure acquistata con pacchetti da 50-100$ per portare l’avatar a 99 di overall; sul piano del gameplay le due strade producono atleti indistinguibili, ma il messaggio implicito è chiaro: tempo e denaro sono intercambiabili, la bravura passa in secondo piano.
Perfino i miliardari cavalcano scorciatoie: nel 2025 Elon Musk è stato accusato (e poi, tra i DM di Reddit, ha di fatto ammesso) di pagare team professionisti per livellare i suoi account in Path of Exile 2 (nonché in Diablo IV ), salvo poi vantarsi sui social di risultati mai conquistati pad alla mano. La community non lo ha solo bollato come “cheater”: lo ha deriso per essersi attribuito un nerd cred non guadagnato, dimostrando che l’élite economica può bypassare il sacrificio digitale ma non il giudizio culturale.
Sul fronte normativo, l’evoluzione del pay-to-win intreccia il dibattito sulle loot box : dal rapporto del Parlamento europeo che ne evidenzia i rischi di dipendenza alla proposta (2023) di armonizzare le regole UE per proteggere i minori, passando per i casi di Belgio e potenziale ban britannico su modalità come FIFA Ultimate Team.
Queste pressioni mostrano che il confine fra “sfida remunerativa” e “pratica similscommessa” è sempre più labile, e quando la difficoltà diventa chip negoziale in un’economia di micro-pagamenti, il design rischia di ridursi a leva psicologica per massimizzare la conversion rate , non a strumento per far crescere il giocatore. Così il mantra “git gud” muta ancora: non più invito a migliorarsi, ma giustificazione per chi può permettersi di pagare il salto in coda, mentre gli altri restano a macinare ore di fatica serializzata.
5. Difficoltà intrinseca: quando il gioco ti chiede di capire, non di sopportare Se la difficoltà estrinseca misura la resistenza al fallimento, quella intrinseca mette alla prova la comprensione dei sistemi, l’elasticità mentale, la creatività tattica. È progettata per insegnare e poi alzare la posta, in un dialogo continuo fra designer e giocatore. I casi virtuosi condividono tre ingredienti: chiarezza delle regole , spazio alla pianificazione e feedback leggibili che trasformano ogni sconfitta in informazione utilizzabile.
Un esempio emblematico è L.A. Noire (Rockstar, 2011). Qui la difficoltà non deriva da barre vita ridotte ma dal dover leggere micro-espressioni e incrociare indizi: se fallisci un interrogatorio è perché hai interpretato male un tremito di labbra o non hai raccolto prove a sufficienza, non perché l’IA ha “crittato” più forte. Il gioco ti obbliga ad affinare osservazione, memoria e deduzione, competenze cognitive che restano con il giocatore ben oltre i titoli di coda.
Sul fronte action-platform, Celeste (2018) propone schermate di salto millimetrico ma accompagna la difficoltà con un Assist Mode opzionale: puoi rallentare il tempo, ottenere stamina infinita, persino diventare invincibile. Gli sviluppatori raccomandano di provarlo “vanilla” la prima volta, ma riconoscono che ogni persona ha esigenze diverse. L’importante è il messaggio: l’accessibilità non svuota la sfida, anzi la rende scalabile; chi desidera l’esperienza integrale la ottiene, chi ha difficoltà motorie o semplicemente vuole esplorare la storia può modularne l’attrito. Il risultato è una community che discute di come scalare la montagna, non se tu sia “degno” di farlo.
All’estremo opposto del pendolo, Valve sperimenta la difficoltà dinamica con l’AI Director di Left 4 Dead (2008): un algoritmo che monitora salute, munizioni e “tensione emotiva” del team, modulando numero di zombie, risorse e musica per mantenere il flow. Il giocatore non vede regolatori , sente solo un ritmo che si stringe o allenta in risposta al proprio stato. È una difficoltà “viva” che premia l’adattabilità senza mai sfociare nell’ingiustizia palese.
Capcom, con Resident Evil 4 (2005) e con il remake 2023 , adotta un sistema simile ma nascosto: l’adaptive difficulty abbassa drop di munizioni e aumenta aggressività dei nemici se il giocatore sta dominando, e fa l’opposto in caso di difficoltà; il forum ufficiale conferma che i valori “hard” sono già maxati nelle modalità più alte, lasciando l’aggiustamento solo ai livelli inferiori. L’obiettivo è tenere la tensione al giusto livello senza mai spingerla alla rottura.
Un altro esempio di sfida intrinseca è il sistema Pact of Punishment di Hades (Supergiant, 2020): terminata la run base, puoi attivare decine di modificatori, dai boss potenziati alla riduzione di cure, accumulando Heat. Ogni combinazione crea una run diversa; superata la soglia di 32 Heat, la community parla di “esame finale di conoscenza delle sinergie”. Non basta resistere: bisogna elaborare build, leggere pattern, scegliere se rischiare tempo d’attacco o sicurezza difensiva.
Questi modelli dimostrano che la difficoltà può essere strumento formativo invece di ostacolo punitivo. Fa crescere il giocatore perché:
Spiega le sue regole e punisce l’errore, non l’ignoranza.Offre scalabilità : regolatori, pact, assist mode permettono a ciascuno di trovare il proprio “punto di frizione ideale”.Restituisce feedback utili : quando fallisci capisci perché , non lanci il pad alla cieca.In sintesi, la buona difficoltà trasforma il videogioco in un maestro esigente ma giusto: chiede concentrazione, analisi e adattamento; in cambio restituisce quel senso di padronanza che nessuna scorciatoia a pagamento potrà mai replicare.
6. Due JRPG contemporanei a confronto: quando la difficoltà decide che tipo di gioco diventi Il periodo 2024-2025 ha portato in primo piano due GdR giapponesi che, pur condividendo un impianto “a turni + QTE d’azione”, incarnano filosofie opposte su cosa significhi rendere un gioco impegnativo. Clair Obscur: Expedition 33 , debutto di Sandfall Interactive, spinge l’asticella sul puro tempismo: ogni difesa efficace richiede un parry con finestra di 20–60 millisecondi, valore confermato dagli smanettoni che hanno estratto i parametri di animazione , e che su Steam descrivono come “il peggior QTE mai visto, a prescindere dalla difficoltà selezionata”.
Chi fallisce, subisce danni letali che annullano qualsiasi vantaggio di build; chi riesce, gode di invulnerabilità istantanea più contrattacco critico, al punto che in un thread di r/truegaming si discute se il parry non sia “fin troppo buono” rispetto alle opzioni strategiche tradizionali. Risultato: le decisioni tattiche (scelta dell’ordine d’azione, sinergie tra formazioni, consumo di AP) finiscono in secondo piano; l’intero equilibrio si riduce a un esercizio di ritmo quasi da rhythm game , tanto che alcuni modder PC hanno già rilasciato cheat tables per ampliare la finestra, segno che una parte dell’utenza considera il requisito più punitivo che stimolante.
Al polo opposto troviamo Metaphor: ReFantazio , ultimo progetto Atlus, guidato dal battle planner Kenichi Goto. Fin dal day-one offre tre livelli di difficoltà (Easy, Normal, Hard) più la modalità Regicida sbloccata dopo il finale: quest’ultima disattiva il rewind di turno e alza al massimo la reattività nemica, ma lascia intatte tutte le leve strategiche (gestione degli Action Points , rotazione delle classi, time-management fra esplorazione e crescita sociale) spingendo il giocatore a pianificare ogni singola azione anziché reagire in micro-secondi.
Articoli specialistici raccomandano addirittura di iniziare in Hard per “gustare a pieno il sistema di ruoli e valute interne” (BigNerdGaming, 2024), mentre lo stesso Goto, in una lecture alla GDC, ha spiegato che Atlus mira a rendere l’errore “conseguenza logica, non colpo basso”, una scelta che, a suo dire, “riporta il JRPG al puzzle strategico, non al test di riflessi”. Non a caso i primi commenti dopo l’uscita confermano come la curva d’apprendimento sia “dura nei primi dungeon” ma poi «premi ampiamente la versatilità e la previsione» quando il party si espande.
Il confronto è istruttivo: Expedition 33 fa della severità temporale e sonora la sua identità e, così facendo, oscura la profondità della meccanica del turno; Metaphor eleva invece la strategia a fulcro e usa la difficoltà per mettere in luce, non per seppellire, le scelte tattiche. Da un lato abbiamo l’erede spirituale del Nintendo Hard più impietoso, che interpreta il “git gud” alla lettera (“premi a tempo o muori”); dall’altro, un design che ricorda la scuola Shin Megami Tensei : punisce, sì, ma sempre in relazione alla capacità di leggere pattern, manipolare debuff, ruotare ruoli.
In filigrana riaffiora il tema di fondo di questo pezzo: la difficoltà è significativa solo quando aggiunge dimensioni al linguaggio del gioco; diventa sterile quando lo riduce a una sola sillaba, sia essa un prompt di parry da 30 millisecondi o una raffica di headshot impossibili da schivare.
6.1 Clair Obscur: Expedition 33 – quando il JRPG diventa un rhythm-game da 150 millisecondi Nel marketing di Sandfall Interactive la fusione fra turno classico e input in tempo reale doveva “rendere ogni fase difensiva un momento di concentrazione zen”; in pratica, però, molti giocatori si sono trovati davanti a un filtro di riflessi più che di strategia. Il combat loop funziona così: durante il turno nemico puoi parare , schivare o saltare .
Il salto ha un chiaro alert visivo e serve soprattutto per gli attacchi a onda; la schivata concede immunità più lunga (220-350 ms di i-frame a seconda dell’animazione) ma non offre contropiede; la parata restituisce Action Points, riduce i danni a zero e innesca un contrattacco che spesso supera il DPS delle mosse standard. Il problema è la finestra: secondo i dati estratti dal modder “Caites”, base di una mod che amplia i timing su PC, il parry accetta input fra 150 e 250 ms in Story mode, scende a 80-100 ms in Normal e crolla a circa 60 ms (con picchi di 40) in Expert e in NG+ “Expeditioner”.
Alcune boss-animation addirittura oscillano sotto i 50 ms per la seconda fase, valore che TheGamer paragona agli iframe di Sekiro ma “senza i telegraph nitidi di FromSoftware”.
La conseguenza è un meta che premia il riflesso puro a scapito della pianificazione. Thread su Steam (“Is the Parry/QTE system actually broken?” ) raccontano di party ottimizzati con buff difensivi, ma mandati al tappeto da un paio di parry mancati che infliggono colpi da 9 999 HP (il cap del danno nella prima metà di gioco). Nella subreddit r/JRPG c’è chi stima di aver abbandonato la modalità Normale dopo 20 wipe su un boss di Atto 2 per passare alla modalità Story, dove la finestra si allarga, ma senza che la curva intermedia offra un gradino davvero conciliante: “o Story è troppo facile, o Expedition è troppo punitivo”.
Sul fronte developer, l’intervista rilasciata a Pirate Software un mese dopo il lancio contiene una parziale ammissione: il lead combat designer confessa che “pratica e pattern recognition contano più di quanto pensassimo, forse avremmo dovuto accompagnare meglio i giocatori” e suggerisce come strategia ufficiale “morire più volte finché il corpo non impara”. Non stupisce quindi che in 48 ore siano comparsi trainer e cheat table per estendere la finestra di input: mod accolte con favore da chi definisce la tempistica “oggettivamente inadatta a un JRPG a turni”.
Dal punto di vista del bilanciamento interno, il parry è talmente remunerativo (AP gratis, critico istantaneo, annullamento status) che molte build “tanker” o basate su DoT diventano irrilevanti, perché un singolo contrattacco infligge più di tre turni di setup. Lo ammette lo stesso manuale strategico ufficiale, che a pagina 42 suggerisce: “Se vi trovate in difficoltà, investite prima in maestria Parry, poi in crit-chance” (Sandfall, Digital Companion , 2025). Non sorprende che un post sul forum GameFAQs , con oltre 300 voti, rigetti l’idea di allargare il timing nelle difficoltà basse: “Snatura l’unico elemento che tiene in piedi il combat, tanto vale giocare a un JRPG classico”.
Un ultimo elemento di tensione è la coerenza del feedback: utenti più tecnici notano che, a differenza di Paper Mario o Legend of Dragoon , Expedition 33 non standardizza i timing audio/visivi fra nemici. Alcuni attacchi usano fake-outs , altri delay volutamente irregolari; c’è perfino un rallentatore casuale nelle animazioni di certe élite che “spezzano il ritmo al millisecondo” (post Reddit) . Questo obbliga a ri-imparare il timing per ogni creatura, ma con finestre sempre più esigue man mano che si avanza, generando la sensazione di un esame di riflessi continuo piuttosto che di una curva di strategia cumulativa.
In sintesi, Clair Obscur: Expedition 33 converte la promessa di ibrido turn-action in una tirannia del tempismo : la difficoltà non amplia il linguaggio tattico del JRPG, lo riduce a un micro-rituale binario. Ne deriva una community spaccata: da un lato chi ama l’adrenalina da perfect-parry e paragona il titolo a “un Sekiro dal menù a turni”; dall’altro chi intravede in quel menù potenzialità strategiche soffocate da un requisito meccanico fuori scala per buona parte del pubblico. La lezione per i designer è lampante: se una sola variabile, il tempo di reazione, sovrascrive tutte le altre, la difficoltà smette di essere intrinseca e torna a essere un gate, di nuovo…
6.2 Metaphor: ReFantazio – la difficoltà come moltiplicatore di strategie Se Expedition 33 piega il JRPG all’imperativo del riflesso, il nuovo titolo di Atlus fa l’esatto contrario: usa la difficoltà per spalancare il ventaglio tattico. Secondo Kenichi Goto, lead battle-planner, l’obiettivo fin dall’inizio era “spingere il giocatore a pensare ogni turno ”, non a premere un tasto in tempo (GDC 2025 panel ). Il team ha quindi concepito un set di quattro difficoltà scalari:
Easy – focus sulla storia, penalità dimezzate in caso di game over ;Normal – curva Atlus “classica”, morti frequenti se si ignorano le debolezze ;Hard – IA con pattern aggiuntivi, costo raddoppiato per cure fuori battaglia;Regicida (sbloccata dopo il “vero” finale) – elimina il rewind di turno, riduce drop di MP al 50 %, introduce una meccanica di Parade Gauge che si riempie solo con knockdown consecutivi e, se ignorata, accelera gli all-out avversari.La chiave non è tanto il moltiplicatore di danno (solo +15 % in Hard, +25 % in Regicide) ma la ricombinazione dei sistemi :
Action Points – Nel loop campo-battaglia UI ci sono due fasi: esplorazione in tempo reale (colpi rapidi che prosciugano AP) e combattimento a menu. In Hard la rigenerazione fuori battaglia è dimezzata; in Regicida si azzera, costringendoti a dosare le “aperture” in real-time per arrivare alle battaglie decisive con risorse integre.Archetipi – Ogni personaggio può equipaggiare due “classi” simultanee. A difficoltà alte i boss possiedono Field Orders che azzerano le skill duplicate: portarsi dietro due Maghi rende inutilizzabili gli incantesimi di uno dei due finché non ruoti classe. Ciò obbliga a un party tool-box invece di una pipeline ottimale.Ambush e Iniziativa – In Normal l’aggancio alle spalle garantisce un turno extra; in Hard un fallito tentativo di back-stab conferisce l’iniziativa al nemico. Nei dungeon avanzati, come testimoniano i tester della demo Gamescom, un singolo ambush subito può ribaltare intere run.Status e Tempo – Regicida: ogni cinque turni il boss muta debolezze casuali; non adattarsi equivale a perdere due azioni di fila, meccanica che richiama l’importanza di buff/debuff più che del puro DPS.La community che ha provato la demo conferma: su Hard la prima missione nelle miniere “richiede di ripensare la composizione già al secondo boss”; un utente di r/Megaten racconta che “andare livello 9 in un dungeon consigliato 16 è praticamente suicidio, ma fattibile se impari a usare Viandante come debuffer primario”. Al contrario, chi prova Easy nota che “l’esperienza social-sim rimane intatta, i dungeon non stressano, ma la battaglia regala ancora soddisfazione se si cercano le debolezze ” (Easy Allies preview ).
Goto, intervistato da PC Gamer , spiega perché Atlus alza l’asticella: “Se non obblighiamo il pubblico a interagire con le attività quotidiane (amicizie, mestieri, studio) quelle parti vengono skippate e il design crolla: la difficoltà serve a ricordare che il gioco è un tutto organico”. In altre parole il grind non è sostituto della strategia, ma collante che integra social-link e preparazione.
La scelta di rendere Regicida un premio post-game è deliberata: Atlus vuole che prima si comprenda il “vocabolario” base, poi si affronti l’esame finale dove “una singola mossa sbagliata = game over ”. Diversi previewer lodano la coerenza di questa curva: “la difficoltà che mostra i denti ma offre sempre l’antidoto nella UI: se muori, sai esattamente quale vite hai allentato” (RPGSite).
Infine, Atlus ha integrato feedback leggibili : indicatori cromatici sulle debolezze , log dettagliato dei turni e un pulsante “Review” che riassume le ultime cinque azioni, funzione che gli speedrunner già immaginano di sfruttare per ottimizzare le rotazioni. Tutto converge su un principio: la difficoltà spinge a pensare prima di agire , non a premere un parry fotonico. Ecco perché, a differenza di Expedition 33 , Metaphor viene definito “difficile ma giusto”: pretende competenza sistemica e, in cambio, restituisce quell’euforia di chi vede una strategia complessa andare a segno, una sensazione impossibile da comprare con DLC o da replicare a colpi di finestre di 60 millisecondi.
7. Conclusioni: cosa resta quando l’ultima barra di vita si svuota? Ci siamo arrampicati sulle scale luminose dei cabinati, siamo sopravvissuti ai Jackal Sniper, abbiamo ingoiato l’imperativo “git gud”, ci siamo scontrati con paywall mascherati da “orgoglio e soddisfazione”, e infine abbiamo visto due JRPG recenti deviare su sentieri opposti: Expedition 33 , che riduce il pensiero a un colpo di tamburo da 60 millisecondi, e Metaphor , che trasforma ogni turno in un’equazione a più incognite. Guardando questo percorso, la domanda non è più “quanto deve essere difficile un videogioco?”, ma che cosa pretendiamo dalla nostra fatica .
La storia ci insegna che la difficoltà nasce come trucco economico, poi diventa distintivo sociale, infine approda a leva psicologica per monete digitali. In ogni tappa abbiamo trovato persone pronte a difendere lo status quo: ieri erano i detentori del record su Pac-Man , oggi sono gli avatar dal cappello conico nei thread “no hit run”, domani saranno forse gli investitori di qualche metaverso che non esiste ancora. Ma il videogioco, come qualsiasi arte viva, si rigenera proprio quando abbiamo il coraggio di chiedere perché soffriamo, non solo quanto soffriamo.
Se la tua difficoltà obbliga a pensare, pianificare, ascoltare, allora è palestra di competenze: un’ora vola, la mente resta accesa. Se, al contrario, la sfida si riduce a moltiplicare danni o a stringere finestre di input fin sotto la soglia del gesto umano, allora è un “conta quante volte ti pieghi, non quanto cresci”. Ed è qui che la retorica del “vero gamer” crolla: il valore non sta nell’aver resistito cento fallimenti identici, ma nell’aver imparato cento volte qualcosa di diverso.
Ai designer rivolgo un invito: trattate la difficoltà come linguaggio, non come serratura. Ogni punto di danno, ogni timer, ogni QTE è una parola che dice al giocatore “ragiona così”, “osserva meglio”, “rischia di più”. Fate in modo che quelle parole compongano frasi, non grida. Ai critici e alle community : difendiamo la pluralità. Più gente entra, più idee germogliano; la grandezza di un medium non si misura nel diametro del cancello, ma nella ricchezza del giardino. Ai giocatori : domandiamoci se il tempo speso ci restituisce padronanza o solo calli sulle dita; se l’opera ci plasma o ci assorbe.
Forse, alla fine, il senso di “difficile ma giusto” coincide con la sensazione che ogni morte abbia una lezione, non un compensato da bucare con un pugno . E quando spegniamo la console, ciò che portiamo con noi non è la medaglia di sopravvivenza, ma quel lampo di lucidità in cui capiamo un sistema, una storia, magari perfino qualcosa di noi stessi. Se un gioco riesce a farci desiderare quel lampo, allora sì, ne vale davvero la pena.
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Iniziò tutto all'età di tre anni, quando per la prima volta trovai il coraggio di premere il pulsante di accensione di quella "catapecchia" che, un tempo, era il "non plus ultra" della tecnologia. Era il mio tutto: la mia attrezzatura nell'esplorazione di antiche tombe dimenticate nei panni di un'atletica archeologa, la mia auto tra le strade di San Francisco e Miami nei panni di un ex pilota di auto da corsa diventato poliziotto, fino ad essere la mia cara Normandy a spasso tra le stelle della Via Lattea. Questi viaggi, che non dimenticherò mai, mi hanno reso, grazie ai loro valori e messaggi intrinseci, la persona passionale, curiosa e caparbia che sono oggi. La scrittura è il mio unico strumento per trasmettere i principi positivi che questo percorso infinito mi ha lasciato, e questo "Spazio" è l'Infinito che mi permette di condividerli. Ti andrebbe di proseguire questo cammino insieme? E ricorda: "la meta è partire" (Giuseppe Ungaretti).
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