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Indie e depressione: tema inflazionato o rivoluzione narrativa?

Avviso ai lettori: il testo che segue analizza in profondità la trama di Celeste, OMORI, Lisa: The Painful e Yume Nikki, rivelandone snodi narrativi cruciali. L’articolo discute inoltre temi sensibili come depressione, lutto, dipendenza da sostanze e ideazione suicida. Se preferite scoprire queste opere senza anticipazioni o se tali argomenti vi risultano particolarmente delicati, valutate se proseguire la lettura.

C’è un meme, anzi, una costellazione di meme, che rimbalza da Reddit a X passando per i server Discord più popolati, dove l’ironia si nutre di pixel e di cifre esagerate. L’immagine ricorre sempre uguale: due fotogrammi di Toy Story. Nel primo compare un giocattolo impacchettato, accompagnato da un’etichetta: «16-bit indie platformer that’s actually an allegory of abuse and/or depression».

Nel secondo fotogramma la scena si allarga rivelando scaffali senza fine, colmi dello stesso identico prodotto. Il sottinteso è chiaro: nel panorama indipendente, o almeno così vorrebbero farci credere, ogni nuovo titolo non è che la copia carbone di un altro, e tutti, invariabilmente, parlano di una malattia connessa alla salute mentale, in particolare la depressione. La risata che il meme provoca, però, cela un’accusa precisa:

davvero gli indie si dedicano troppo alla depressione, e davvero lo fanno tutti allo stesso modo? Oppure, come spesso accade alle caricature, il disegno semplifica un ecosistema ricco di sfumature, sacrificandole sull’altare della battuta virale?

Per tentare una risposta, personalmente, penso valga la pena soffermarsi su quattro nomi che ritornano con ostinazione nel mio immaginario: Celeste (2018), OMORI (2020), Lisa: The Painful (2014) e Yume Nikki (2004). Sì, tutti e quattro affrontano il disagio psichico, ma ciascuno lo fa in modo personale e, soprattutto, con una “ferita” diversa.

In Celeste seguiamo Madeline, ragazza afflitta da depressione, impegnata nell’ascesa di una montagna che è al tempo stesso vetta di pietra e pendio interiore. Sul sentiero incontra spesso “la parte oscura” di sé stessa, personificazione dei suoi dubbi più corrosivi; lo scontro, inizialmente frontale, si trasforma in un lento abbraccio che insegna, a lei come a noi, l’arte di includere la propria ombra senza esserne divorati.

OMORI racconta invece la vicenda di Sunny, adolescente “ritirato dalla vita” dopo la morte della sorella. Nel sogno assume i panni dell’eroico Omori e popola mondi color pastello abitati dagli amici d’infanzia, ma quel rifugio, a mano a mano che il gioco procede, rivela crepe sanguinanti e diventa prigione da cui evadere, pena la perdizione definitiva.

Ben altra temperatura emotiva si respira in Lisa: The Painful, dove Brad, uomo di mezza età segnato da traumi irrisolti, attraversa un wasteland post-apocalittico guidato da un unico, disperato impulso: ritrovare la figlia adottiva. Qui la depressione convive con la dipendenza dalla droga “Joy”, un piacere chimico che concede brevi potenziamenti prima di presentare il conto sotto forma di crisi d’astinenza.

Infine c’è Yume Nikki, precursore di tutti, esperienza onirica in cui la giovane Madotsuki vaga per paesaggi surreali, spesso inquietanti, in silenzio e senza uno scopo apparente, finché l’unica via d’uscita sembra diventare il salto nel vuoto dal balcone della propria stanza.

A uno sguardo superficiale le narrazioni potrebbero sembrare speculari doppi oscuri che incarnano i demoni interiori, stanze chiuse e fuga nel sogno, mondi devastati che riflettono un’anima spezzata – ma basta addentrarsi nei dettagli per scoprire scelte opposte. In Celeste la presenza della sua controparte “oscura” evolve in alleanza, suggerendo che accettare le parti più buie di sé può trasformarle in risorsa.

In OMORI, al contrario, l’alter ego deve essere combattuto e vinto perché, finché regna, impedisce al protagonista di tornare nel mondo reale. In quest’ultima opera come in Yume Nikki il sogno funge da gabbia, ma nel titolo di Omocat il suo aspetto è inizialmente zuccheroso, quasi rassicurante, e solo lentamente si contamina di orrore; nel gioco di Kikiyama la dimensione onirica si presenta da subito disturbante, priva di parole e di logica, preludio a un epilogo senza appello. Lisa, a sua volta, introduce un tema, la tossicodipendenza, che gli altri ignorano, esplorando la dinamica tra sollievo momentaneo e devastazione a lungo termine.

Se la trama scava nell’animo, il game-design trasferisce quella “scavatura” nelle dita del giocatore.

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L’ascesa di Celeste è un platform rigoroso, millimetrico: ogni salto mancato, ogni schianto contro una sporgenza rende palpabile la fatica mentale di Madeline; e quando, dopo decine di tentativi, si raggiunge la vetta, il trionfo ludico coincide con la catarsi narrativa. OMORI utilizza un sistema di combattimento in cui le emozioni – Gioia, Rabbia, Tristezza, Neutralità – non sono icone decorative ma variabili che alterano statistiche, danni, ricompense: il sentimento smette d’essere contorno e diventa materiale da maneggiare strategicamente, con tutto ciò che questo implica sul piano simbolico.

Lisa offre la tentazione della “Joy”: la sostanza alza i numeri in battaglia, ma lascia in eredità spasmi debilitanti; una meccanica che obbliga a provare, in scala ridotta, la schiavitù biochimica. Yume Nikki, infine, rinuncia a combattimenti e dialoghi, abbracciando l’esplorazione pura di enigmi illogici: la mancanza di pericoli tradizionali amplifica l’inquietudine, perché l’orrore non arriva da mostri visibili ma dall’assenza di un senso.

Viene allora da chiedersi se la sensazione di “inflazione depressiva” abbia un fondamento concreto o se sia frutto di un effetto ottico amplificato dai social. Google, setacciato in cerca di «indie game about mental health», restituisce una ventina di titoli che rimbalzano da un “articolo-lista” all’altro; oltre ai quattro già citati compaiono Night in the Woods, Fran Bow, Depression Quest, Actual Sunlight, molti dei quali, ironia della sorte, non utilizzano affatto la pixel art.

L’idea di una valanga omogenea vacilla anche davanti ai numeri di vendita: Celeste ha superato il milione di copie entro il 2019: risultato lusinghiero, certo, ma lontanissimo dall’essere la norma. Né regge la tesi di un’invasione simultanea: dal 2004 di Yume Nikki al 2020 di OMORI trascorrono sedici anni, periodo in cui all’industria è cambiata più volte la pelle.

Chi dovesse provare stanchezza per “troppi” giochi sull’argomento, con ogni probabilità si è adoperato per cercarli attivamente…

Il quadro si complica se si getta uno sguardo fuori dall’orbita indie. Uno studio che ha monitorato i cinquanta videogiochi più venduti, anno per anno, dal 2011 al 2013, ha scoperto che il 69 percento dei personaggi affetti da disturbi mentali viene rappresentato come omicida violento (Shapiro e Rotter, 2016). Un’indagine del 2019 sui titoli presenti su Steam ha rilevato che il 97 percento dei giochi che trattano la salute mentale lo fa usando stereotipi negativi: manicomi trasformati in case dell’orrore, malati dipinti come imprevedibili mostri.

Alla luce di questi dati, la piccola nicchia di opere empatiche non solo non appare eccessiva, ma anzi sembra ancora esigua.

D’altronde depressione, lutto e dipendenza costituiscono soltanto tre capitoli di un’enciclopedia immensa. Disturbi ossessivo-compulsivi, bipolarismo, burnout, neurodivergenze: i videogiochi ne parlano raramente, e quando lo fanno lasciano spesso l’ultima parola alla caricatura. Ogni esperienza soggettiva, per di più, differisce da un’altra, cosicché una sola “depressione” non basta a esaurire il racconto di chi soffre realmente di depressione. È naturale, allora, che molti sviluppatori, talvolta persone con un vissuto diretto di disagio psichico, sentano il bisogno di narrare la propria storia e al tempo stesso di combattere lo stigma che ancora impregna la cultura popolare.

A conti fatti, parlare di “sovra-esplorazione” appare prematuro. L’arte vive di iterazioni, riscrive temi e li ripropone da angolazioni inedite:

se la letteratura non ha mai esaurito l’amore, perché i videogiochi dovrebbero tacere sulla fragilità mentale?

Finché i blockbuster continueranno a impugnare la figura del “pazzo” come boss di fine livello, ogni piccola produzione che affronta la mente con onestà non sarà un surplus, bensì un elemento ancora necessario. La salute mentale non è un pozzo prosciugato ma un oceano in perenne tempesta; pochi titoli vi hanno gettato l’ancora, e quei pochi, proprio per questo, brillano come fari.

Che arrivino, dunque, altre storie, altri pixel, altre voci: non perché l’argomento vada di moda, ma perché parlarne rimane, per chi gioca come per chi crea, un irresistibile atto di coraggio.

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Daniele Mantegna

Iniziò tutto all'età di tre anni, quando per la prima volta trovai il coraggio di premere il pulsante di accensione di quella "catapecchia" che, un tempo, era il "non plus ultra" della tecnologia. Era il mio tutto: la mia attrezzatura nell'esplorazione di antiche tombe dimenticate nei panni di un'atletica archeologa, la mia auto tra le strade di San Francisco e Miami nei panni di un ex pilota di auto da corsa diventato poliziotto, fino ad essere la mia cara Normandy a spasso tra le stelle della Via Lattea. Questi viaggi, che non dimenticherò mai, mi hanno reso, grazie ai loro valori e messaggi intrinseci, la persona passionale, curiosa e caparbia che sono oggi. La scrittura è il mio unico strumento per trasmettere i principi positivi che questo percorso infinito mi ha lasciato, e questo "Spazio" è l'Infinito che mi permette di condividerli. Ti andrebbe di proseguire questo cammino insieme? E ricorda: "la meta è partire" (Giuseppe Ungaretti).

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