Al fine di una maggior chiarezza nei confronti del lettore, ci teniamo a sottolineare che la seguente analisi coprirà solamente media occidentali, pertanto anime e manga saranno esclusi per una questione di diversità culturale e considerazioni differenti nei confronti della comunità LGBTQ+, che richiederebbero una specifica analisi del contesto socioculturale giapponese.
Attenzione: il seguente articolo potrebbe contenere spoiler.
Due mesi fa abbiamo festeggiato il Pride Month, riempiendo di arcobaleni le strade della città e i nostri feed sui social.
Ormai sappiamo tutti che una celebrazione del genere risultava impensabile fino a vent’anni fa, poiché ogni forma di orientamento sessuale o gender differente dall’eterosessualità e dal binarismo non era ancora considerata valida.
Sebbene ancora oggi molte persone faticano ad accettare la loro esistenza o addirittura la negano, tante altre sono riuscite a normalizzare e includere la diversità permettendo anche la formalizzazione di alcuni diritti come, ad esempio, le unioni civili.
Queste conquiste si riflettono non solo a livello politico e morale, ma anche a livello di rappresentazione nei media. È innegabile infatti che, a partire dagli anni Venti a oggi, tutte le forme di intrattenimento si sono aperte a introdurre personaggi LGBTQ+ per una maggiore inclusione. Ovviamente non è stato un cammino rose e fiori: la censura ha abbattuto numerose opere a riguardo e non tutti i tentativi di inserire tali personaggi sono risultati ben riusciti.
In questo articolo esamineremo insieme la storia della comunità LGBTQ+ e come è stata rappresentata in film, serie TV, animazione, videogiochi e fumetti, portando alla luce anche alcuni esempi di rappresentazione ben riuscita e censure.
INDICE
La storia della comunità LGBTQ+ è molto complicata, ma riassumibile in una costante lotta per l’uguaglianza che si protrae ancora oggi. Tutto ha inizio nel 1897, quando il medico sessuologo ebraico Magnus Hirschfeld tentò di fondare un comitato scientifico-umanitario (dal tedesco WHK) che avesse come scopo la rimozione dei crimini per omosessualità, in particolare attraverso l’abolizione del paragrafo 175 del codice penale tedesco. La petizione a favore raccolse oltre 5000 firme, fra cui quelle di intellettuali come Albert Einstein e Lev Tolstoj, tuttavia non venne mai presa davvero in considerazione fino agli anni Venti.
Nel 1921, infatti, Hirschfeld organizzò il primo Congresso mondiale sulla libertà sessuale, al quale partecipò Aldo Mieli in qualità di rappresentante dell’Italia. Sette anni dopo, all’evento di Copenaghen, si formò la Lega mondiale per la riforma sessuale, che possiamo definire il primo movimento attivo e formale della comunità LGBTQ+ con obiettivi la tutela dei diritti delle persone omosessuali e la diffusione di metodi contraccettivi. Le conferenze si tennero fino al 1932, quando l’ascesa del Partito Nazionalsocialista tedesco o Partito Nazista bloccò ogni attività a favore degli omosessuali.
Come ben sappiamo, l’avvento del partito nazista sgretolò ogni progresso nei confronti dei diritti verso gli omosessuali. Nel 1935 Adolf Hitler e i suoi collaboratori ampliarono il paragrafo 175 condannando non solo i rapporti fisici, ma anche qualunque “atto osceno” che non implicasse contatto, tra cui la masturbazione. Così facendo raddoppiò il numero dei “criminali” e ogni tribunale aveva l’obbligo di condannarli anzitutto alla castrazione forzata, poi alla reclusione nelle carceri o nei campi di concentramento, all’interno dei quali venivano identificati con un triangolo rosa.
Non esiste ancora una cifra precisa, ma si stima che almeno 60.000 uomini omosessuali vennero incarcerati, e dai 10.000 ai 15.000 deportati.
Va però sottolineato che, nonostante fossero stati liberati i campi di concentramento, gli omosessuali sopravvissuti dovettero scontare comunque una pena sempre sulla base del paragrafo 175.
In tutto il dopoguerra furono condannate 50.000 persone, tralasciando tutti coloro che decisero di suicidarsi per non consegnarsi alla legge.
Il distruttivo paragrafo fu abolito del tutto soltanto nel 1994. La situazione si fece critica non solo in Germania, ma anche in tutti gli altri Stati a regime dittatoriale come l’Italia sotto il controllo di Mussolini e l’Unione Sovietica di Stalin. Entrambi applicarono misure molto simili a quelle naziste, rendendo impossibile vivere a pieno la propria sessualità.
La repressione non era però prerogativa dei soli stati totalitari. Nel Regno Unito, atti omosessuali erano considerati reato fino al 1967 (1980 in Scozia), depenalizzati dal Sexual Offences Act, mentre negli Stati Uniti la sodomia è stata scagionata in tempi diversi dai singoli stati, tra il 1962 e il recentissimo 2003, ma principalmente durante i ’70.
Negli anni Cinquanta si fondarono numerose correnti moderate, ma la data decisiva della nascita del movimento LGBTQ+ moderno è il 28 giugno 1969 che rappresenta l’inizio dei moti di Stonewall a New York City.
Fra i tanti divieti vigenti, la State Liquor Authority introdusse anche quello di non servire nei bar chi andava “contro natura”, perciò i membri della comunità dovettero selezionare dei locali specifici per poter bere qualcosa. Tra questi spiccò lo Stonewall Inn, finanziato e protetto dalla famiglia mafiosa Genovese affinché potesse lavorare in libertà. Grazie ai preavvisi dei controlli delle autorità, infatti, il bar poté lavorare più tardi, ospitare drag queens come Marsha P. Johnson e permettere ai propri ospiti di ballare, cosa che negli altri locali fu espressamente vietata.
Tuttavia, il 28 giugno, la polizia non avvisò i proprietari del controllo e irruppe a sorpresa nel locale sequestrando ogni tipo di alcool illegalmente somministrato, arrestando 13 persone e costringendo ogni uomo o donna vestito del sesso opposto a denudarsi di fronte a loro. La protesta dei clienti e del vicinato si dice che iniziò simbolicamente con il gesto dell’attivista transgender Sylvia Rivera, che lanciò una bottiglia addosso ai poliziotti. Da qui in poi partirono rivolte e marce pacifiche che permisero la costituzione di nuove associazioni e coinvolsero tutti il mondo.
Negli anni Ottanta la comunità LGBTQ+ dovette affrontare un’ulteriore ingiustizia: la diffusione dell’epidemia di AIDS venne erroneamente associata ai rapporti sessuali fra gay, a causa della scoperta di cinque uomini omosessuali affetti dalla patologia nella città di Los Angeles.
Sebbene la smentita di medici e scienziati arrivò quasi immediatamente, poiché almeno metà dei soggetti infettati erano eterosessuali, ormai lo stereotipo si fondò nell’opinione pubblica mondiale, supportato anche dalla morte per AIDS di artisti dichiaratamente gay come Freddie Mercury.
L’AIDS divenne anche oggetto di propaganda contro gli omosessuali, esercitata sia dalla Chiesa sia dalla politica, riscontrabili nelle parole del Ministro della Sanità italiano Carlo Donat-Cattin: “L’Aids ce l’ha chi se la va a cercare.”
La verità è che la contrazione del virus HIV avveniva – e avviene – a causa dello stigma sull’educazione sessuale e in particolare sul sesso protetto. Il motivo per cui l’incidenza sugli omosessuali era maggiore derivava dalla disinformazione sull’uso delle protezioni, in quanto queste ultime erano associate solamente alla prevenzione delle gravidanze. Perciò numerose associazioni della comunità LGBTQ+, come l’italiana Arcigay, fornirono assistenza alle persone sieropositive e organizzarono campagne per incentivare l’uso del profilattico.
Dagli anni Novanta a oggi, c’è stata una notevole apertura, seppur non totale, nei confronti della comunità LGBTQ+. Iniziano le prime legiferazioni su unioni civili, adozioni e fecondazione assistita. Dal punto di vista mediatico, inoltre, comincia un timido approccio verso la rappresentazione della comunità, che approfondiremo media per media nei prossimi paragrafi.
La rappresentazione LGBTQ+ nell’universo cinematografico nei primi anni del Novecento è caratterizzata principalmente da gag studiate per prendere in giro la minoranza e stereotiparla, visibile nelle commedie La signorina Charlot e Charlot macchinista di Charlie Chaplin. Senz’altro però troviamo alcune eccezioni , come il film tedesco Anders als die Andern (Diversi dagli altri), un lungometraggio del 1919 diretto da Richard Oswald per protestare contro il paragrafo 175 della legislazione tedesca.
Diversi dagli altri vede come protagonista il violinista Paul Körner che si innamora dello studente e ammiratore Kurt Sivers, con il quale intraprende una passionale relazione clandestina.
È presente anche il già citato dottor Hirschfeld, che offre nel film numerosi spunti di riflessione sulle sessualità alternative e su come viverle. Dopo che il violinista è stato minacciato e ha subito outing, ovvero un coming out non richiesto dal diretto interessato, il film termina in tragedia con il suo suicidio, poiché la famiglia e gli amici l’hanno estraniato. Sebbene non sia molto allegro, certamente Diversi dagli altri è una delle più vecchie proiezioni a porre l’accento sull’omofobia e sulle sue conseguenze.
Sappiamo tutti come può essere rigido il mondo di Hollywood a causa delle numerose regole che devono rispettare tutti i lungometraggi. In particolare ricordiamo il duro codice Hays, una serie di linee guida generali che la Motion Picture Association of America adottò nel 1934.
Esso prevedeva il divieto di rappresentazione esplicita di elementi come nudo, droghe, alcool, sesso, delitti e altri ancora come il parto, le relazioni interculturali e l’omosessualità. Tutti i filmati prodotti a Hollywood hanno rispettato rigorosamente i dettami del codice fino all’avvento della rivoluzione sessuale e della televisione alla fine degli anni Cinquanta. Un altro elemento che ha contribuito all’abolizione del codice è la diffusione di lungometraggi esteri, i cui film portavano principi e valori completamente diversi, come quella del cinema italiano attraverso il film Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Fu definitivamente abbandonato nel 1968, dopo trentaquattro anni di interventi e censure.
Nei decenni successivi agli anni Settanta, grazie alla rivoluzione sessuale e a una rivoluzione dei costumi in tutto il mondo occidentale, tutte le censure adoperate negli anni precedenti si sono allentate. Troviamo una maggior libertà di produzione di film a tema LGBTQ+, anche grazie anche all’apertura di numerose celebrità sull’argomento: Freddie Mercury, Elthon John, David Bowie, Cher, Raffaella Carrà e Amanda Lear sono solo alcune delle icone che hanno rivoluzionato la rappresentazione della sessualità in tutti i media. Inoltre si diffondono anche nomi di registi queer come Cheryl Dune e Pedro Almodóvar.
Fra le numerose proiezioni cinematografiche citiamo Miriam si sveglia a mezzanotte, film degli anni ’80 considerato ormai un cult della queer culture e Philadelphia, film degli anni ’90 e uno dei primi a parlare apertamente dell’epidemia di AIDS.
Dagli anni 2000 in poi fioccano nuovi traguardi e proiezioni sempre più aperte ed esplicite. Ricordiamo in particolar modo:
Nei prossimi paragrafi approfondiremo l’analisi di alcuni film o serie tv particolari che offrono un’ottima rappresentazione LGBTQ+.
Moonlight, film del 2016 diretto da Barry Jenkins apprezzatissimo dalla critica, rappresenta un tassello fondamentale nella storia dell’inclusività. È il primo film composto interamente da un cast di afroamericani, nonché il primo film ad avere come tema principale tematiche LGBTQ+ a vincere tre Oscar per miglior film, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore non protagonista.
La trama è basata sull’opera teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney e si concentra sulle vicende di Chiron, figlio di una tossicodipendente che vive nel quartiere di Liberty City a Miami, una zona in completa balia di droga e violenza. Il film si divide in tre atti:
Oltre alla divisione in atti che aiuta lo spettatore a distinguere meglio le tre diverse personalità di Chiron nel corso della sua vita, un’altra peculiarità di questo film è la metafora dell’oceano che rappresenterebbe la società. Nel mare esistono numerosi pesci, tanti sono predatori e tanti altri sono prede: i primi devono imparare a cacciare, le seconde invece a nuotare per sopravvivere e così accade nella vita reale. Chiron aveva a disposizione due stili di vita: poteva continuare a essere una vittima, rimanendo sempre il ragazzino per bene diverso da tutti gli altri, oppure poteva unirsi ai carnefici per avere una chance in più di rimanere in piedi. Inutile dire che ha scelto la seconda, diventando così uno spacciatore.
Purtroppo la trasformazione da oppresso a oppressore è un fenomeno estremamente diffuso fra le vittime di bullismo, soprattutto fra le minoranze come la comunità LGBTQ+. A proposito di ciò, c’è da aggiungere che in 72 Stati oggigiorno è un crimine far parte della comunità LGBTQ+, e i trasgressori vengono in genere puniti con il carcere o la pena di morte. Non c’è quindi da stupirsi se tante persone sono costrette a vivere clandestinamente la propria sessualità o a dedicarsi al crimine se non ci sono possibilità di avere altri lavori, anche laddove l’omo/transessualità non rappresenta reato ma incontra un forte stigma sociale, come in Italia.
Dunque, Moonlight è un film rivoluzionario perché mostra l’oppressione più totale da un punto di vista diverso rispetto a quello che si vede negli altri media, cioè dalla prospettiva di un uomo potente ma allo stesso tempo rotto e fragile e che ha bisogno di far pace con se stesso.
Come abbiamo già accennato qui, Euphoria inscena una rappresentazione della comunità LGBTQ+ coerente e impeccabile. Non solo è stata selezionata un’attrice transgender per impersonare un personaggio transgender – Hunter Schafer nei panni di Jules Vaughn -, ma descrive anche una realtà molto triste e purtroppo ancora molto comune al giorno d’oggi: la reclusione di persone trans all’interno di ospedali psichiatrici o l’imposizione a terapie psicologiche.
Jules Vaughn infatti racconta a noi spettatori il suo terribile passato, parlando del momento in cui a undici anni è stata costretta dalla madre al ricovero in un ospedale psichiatrico poiché la riteneva pazza. Fortunatamente è riuscita a fuggire, ma quest’esperienza la segnerà nel profondo per tutta la vita e non riuscirà più a riavvicinarsi alla madre, tanto che rifiuterà ogni tentativo di vederla e ogni scusa da parte sua.
Un altro elemento molto interessante nella difficoltà di essere una persona transgender che Euphoria sottolinea è la costante ricerca di validità della propria identità.
Nell’episodio speciale di Jules, Fuck everyone who’s not a sea blob, la ragazza pensava che per confermare la sua femminilità dovesse andare a letto solamente con degli uomini, fra cui il padre di Nate. Conclude però dicendo che “la femminilità ha conquistato lei“, nel senso che questa sua concezione l’ha risucchiata a tal punto da domandarsi chi è veramente e cosa desidera. L’adescamento di Nate e la relazione ambigua con Rue, inoltre, non sono di certo favorevoli ai dubbi della ragazza.
A proposito di Nate, fra le innumerevoli caratteristiche controverse del personaggio ne spicca una degna di nota per il nostro articolo: il rifiuto di accettare la propria sessualità.
La serie ci sottolinea numerose volte che il vincente quarterback prova una certa attrazione verso altri ragazzi, tant’è vero che si è iscritto a un sito di incontri omosessuali all’insaputa della sua ragazza Maddy – prevalentemente per ricattare Jules al silenzio del rapporto col padre, ma non solo. Tuttavia, pur di non accettare la sua sessualità e diventare la delusione della famiglia, continua imperterrito nella sua relazione tossica, ritenendo che ciò sia meno doloroso del rivelare di essere gay.
Questi due personaggi sono accomunati da un fenomeno estremamente diffuso chiamato eteronormatività, cioè la convinzione che le uniche relazioni giuste ed etiche siano quelle eterosessuali coniugali. Ne consegue il soffocamento e il disprezzo di qualsiasi altro tipo di relazione. Jules e Nate sono due adolescenti diversissimi, con caratteri e famiglie altrettanto differenti, eppure riescono ad avvicinarsi perché forse capiscono l’un l’altro come ci si sente a essere una minoranza.
All’interno della famosissima e amatissima sitcom “F.R.I.E.N.D.S.”, Chandler Muriel Bing è senz’altro uno dei personaggi più amati. Di certo la serie anni ’90 è un prodotto del suo tempo e non possiamo prenderla come riferimento di un ottimo trattamento della comunità LGBTQ+, anzi: diversi fan, riguardandola adesso, hanno puntualizzato come fosse ricca di commenti omofobi e diseducativi su tematiche del genere.
Un esempio eclatante, però, è proprio il personaggio di Chandler – interpretato da Matthew Perry – e la sua famiglia. L’uomo è figlio di una coppia che ha divorziato perché il padre, Charles Bing, ha fatto coming out come gay e ha cominciato a lavorare come drag queen con il nome di Helena Handbasket. Questa situazione l’ha ferito talmente tanto che utilizza l’umore e il sarcasmo come modo per rielaborare la negatività, anche se non ci riesce sempre: è infelice del divorzio, è infelice per il lavoro e in generale della sua vita.
Ciò che salta all’occhio di tutti è la sua paura di non essere mai “maschio” abbastanza, data dal fatto che repelle comportamenti o oggetti non “maschili” come un cuscino rosa e le sue tendenze omosessuali che molti colleghi e amici gli sottolineano. In particolare, nonostante le relazioni con Janice e Monica, molti fan hanno notato delle battute ammiccanti con il coinquilino Joey e nell’episodio The One where Nana dies twice un collega ha cercato di organizzare un appuntamento per Chandler con un altro uomo.
Pare però che i produttori avevano originariamente pensato al personaggio come gay o bisessuale, salvo poi rinunciare all’idea: sempre nello stesso episodio Chandler ribadisce che è eterosessuale, sebbene numerosi commenti nelle puntate successive tradiscano tale affermazione. Magari hanno lasciato perdere per rendere più credibile la confusione dell’uomo in seguito al traumatico divorzio, sottolineando il problema dell’eteronormatività e della mascolinità tossica? O semplicemente temevano il giudizio dei fan? Non lo sapremo mai, ma vi lasciamo con questo simpatico edit di hi-aly che raccoglie alcuni degli interventi ambigui del personaggio.
L’animazione è forse uno dei campi in cui i riferimenti a cose e persone fuori dalle norme sociali sono stati più presenti nel corso della storia.
I personaggi dei cartoni animati nel corso del ‘900 sono stati, soprattutto nei primi decenni, fortemente caricaturali. Se da un lato ciò è sfociato in una rappresentazione negativa, volta solo a far ridere lo spettatore per un senso di grottesco, dall’altro ha permesso al medium di raffigurare personaggi più o meno queer anche durante i periodi di forte censura, come quella applicata dal Motion Picture Production Code.
Tuttavia, non è corretto parlare di queer, quanto di queer-coded. Il termine infatti indica l’uso di certe caratteristiche comportamentali o fisiche, come spesso l’accentuata mascolinità o femminilità oppure la vanità, tutti stereotipi facilmente riconoscibili dal pubblico.
Il fenomeno in sé è qualcosa di intrinseco del medium e spesso ha anche ottimi risultati. È il caso di Bugs Bunny, che fin dagli anni ’40 è stato talvolta ritratto in lussuosi abiti femminili e non perdeva occasione di baciare sia donne sia uomini senza battere ciglio.
Ovviamente l’intento non era rappresentare un personaggio bisessuale, quanto creare situazioni ritenute divertenti, che però non impedisce al pubblico di vederci altro. Per molte persone, come ad esempio RuPaul, Bugs è stato il primo approccio al mondo del drag.
Durante i periodi più intensi della Guerra Fredda, tuttavia, il “panico rosso” era accompagnato da un fenomeno simile e meno conosciuto detto “panico lavanda“. Le persone omosessuali, transessuali o presunte tali venivano viste come potenziali spie o comunque elementi pericolosi in quanto ricattabili da potenze straniere, dunque furono allontanate da posizioni lavorative di rilievo e dalla vita sociale.
In questo periodo e per molto tempo a seguire si è diffusa la pratica, soprattutto negli studi Disney, di associare tratti queer-coded ai villain. Personaggi come Jafar, Uncino, Ratcliffe, Ade e Scar presentano tutti chiaramente movenze teatrali ed estetiche spesso associate alla femminilità, mentre Ursula prende diretta ispirazione dalla queen Divine, famosa negli anni ’80.
Il fenomeno ha quindi portato ad associare questi atteggiamenti a personaggi meschini e subdoli, avvelenando l’immaginario comune. Un altro esempio leggermente migliore è Lui dalle Superchicche, ma resta il problema che fino ad ora le persone queer sono esistite solo come cattivi o oggetti di scherno.
Per fortuna da qualche anno i produttori hanno smesso di aver paura della reazione di un pubblico sempre più comprensivo di questa realtà, permettendo la realizzazione di ottimi esempi LGBTQ+ nell’animazione di tutti i giorni, anche in seno alla Disney stessa, con le dovute misure.
Nel 2017 in una puntata di Marco e Star contro le forze del male, vengono raffigurati i primi baci omosessuali della compagnia, sebbene questi avvengano tra comparse, e nello stesso show il personaggio di Jackie Lynn Thomas viene mostrato in una relazione con una ragazza, dopo aver chiuso col protagonista Marco. Sono piccoli passi avanti ma significativi, venendo da uno studio ancora velatamente avverso.
Recentemente Alex Hirsch, creatore di Gravity Falls, ha dichiarato come durante lo sviluppo dello show gli fosse stata espressamente vietata qualsiasi rappresentazione esplicita di personaggi LGBTQ+. La dichiarazione è arrivata proprio in seguito alla messa in onda di The Owl House, che al contrario presenta un’ottima protagonista espressamente bisessuale, segno che anche le grandi compagnie non hanno più paura di perdere fette di pubblico per questo motivo.
Adesso vedremo alcuni esempi di opere animate che riescono particolarmente bene nel mostrare con naturalezza una o più parti dello spettro LGBTQ+.
I Mitchell contro le macchine (The Mitchells vs The Machines, 2021) è un film d’animazione pubblicato su Netflix pochi mesi fa. Narra la storia di una famiglia, i Mitchell, che si ritrova a salvare il mondo dall’apocalisse robot, ma vi consiglio di leggere prima la nostra recensione se non lo avete già fatto.
Quello che ci interessa, però, è il personaggio di Katie Mitchell.
Folle in una famiglia di folli, fin da subito si scontra con l’ostacolo di far accettare la sua natura artistica ai genitori, poco interessati ad essa se non addirittura contrari, come nel caso del padre Rick, preoccupato per il suo futuro.
L’esperienza di Katie è comune a molti ragazzi alla prova con la propria sessualità, ancora troppo spesso emarginati dai coetanei o in conflitto con la loro stessa famiglia. Nel tentativo di rifugiarsi nel loro mondo, sognano l’occasione per andare via di casa e farsi una propria vita da zero.
Il paragone non è affatto forzato: Katie stessa – sebbene la cosa non sia motivo di conflitto – si rivela come lesbica o in ogni caso non strettamente etero al termine del film, quando la madre le chiede come va con la fidanzata Jade, altra studentessa del college che si vede ogni tanto nel corso della pellicola.
Nel complesso Katie risulta essere un personaggio interessante per tutti, ma in grado di offrire quei livelli di lettura in più a chi per un motivo o per l’altro si rivede nella sua vita.
Su Steven Universe si potrebbero dire così tante cose che non sappiamo neanche da dove iniziare.
L’intero show è un’ode all’amore di tutti i tipi, dal platonico al paterno, da quello non corrisposto a quello che dura una vita e così via.
L’ideatrice, Rebecca Sugar, dopo aver iniziato a lavorare ad Adventure Time, dove aveva proposto la relazione tra Gommarosa e Marceline, aveva l’intenzione di creare uno show diretto a un pubblico infantile, dove tematiche quali l’omosessualità, la ricerca di sé, l’omogenitorialità, anche relazioni tossiche o non corrisposte, fossero trattate in modo naturale. L’amore, in tutte le sue sfaccettature, è parte integrante della vita, non un “argomento per adulti”, come finora erano trattate le coppie gay.
Rebecca c’è riuscita. I personaggi di Steven Universe hanno tutti qualcosa da raccontare. Le loro vicende hanno sia un certo peso morale, ponendo spesso questioni su come ci rapportiamo ai nostri cari o con chi ci circonda, ma allo stesso tempo sono vissute naturalmente, in modo perfettamente organico col mondo di Beach City, dove la serie ha luogo.
Inoltre, emblematico è il personaggio di Garnet: fusione di Rubino e Zaffiro, come si scopre alla fine della prima stagione, è il leader e punto di riferimento del gruppo per gran parte della serie. Apparentemente calma e controllata, nasce dall’unione di due personaggi molto meno stabili, che più avanti si vedranno spesso litigare per poi riappacificarsi e riunirsi, sempre più forti, fino alla scena del loro matrimonio, la prima unione omosessuale rappresentata dal medium.
Garnet presenta qualcosa di innovativo: spesso infatti le relazioni LGBTQ+ vengono mostrate in una luce troppo perfetta e innaturale, per paura di scontentare un pubblico già ritenuto un azzardo. Il suo caso invece è perfettamente umano, perché il messaggio di fondo della serie stessa è che queste creature colorate e spaziali, in fondo, sono umane come tutti noi.
Il vero precursore della rappresentanza LGBTQ+ nell’animazione occidentale è probabilmente The Legend of Korra, opera che, come il prequel Avatar: La Leggenda di Aang, tratta spesso tematiche sociopolitiche, proponendosi a un pubblico adolescente.
Al termine della serie, messa in onda nel 2014, le due protagoniste, Korra e Asami, vedono la loro relazione sbocciare dopo uno sviluppo durato due stagioni. Non ci sono baci né effusioni, ma la musica, l’inquadratura e i movimenti dei personaggi, che riprendono quelle del matrimonio avvenuti pochi minuti prima, parlano chiaramente allo spettatore.
Bryan Konietzko, co-creatore e produttore esecutivo, ha spiegato sul suo blog le scelte fatte prima di arrivare a questo momento, che hanno spianato la strada ai prodotti sempre più aperti degli anni successivi.
Come spiega nel post, la scelta è stata una sorta di azzardo: non c’erano delle linee guida ben specifiche in materia, perciò quando l’idea di farle mettere insieme è nata hanno effettivamente sfidato un paradigma non scritto che escludeva qualsiasi possibile riferimento non-eterosessuale, in quanto effettivamente non era mai stato concesso dalle emittenti finora.
La decisione, per fortuna, è stata approvata da Nickelodeon, seppur con limiti molto stringenti.
L’obiettivo era proprio quello di tastare quei limiti per rompere poco a poco lo stigma ancora presente nel settore.
Questo tipo di rappresentanza, dice Bryan, è essenziale in prodotti diretti ad adolescenti e giovani adulti, proprio quella fascia d’età in cui maggiormente ci si interroga su sé stessi, e questo vale sia per ragazzi etero che non.
Avere un riferimento positivo nei media che consumano permette loro di riconoscersi e sentirsi inclusi, per accettarsi da soli prima di affacciarsi al resto del mondo.
Come ben sappiamo, i videogiochi iniziano a prendere piede nella società a partire dagli anni Settanta con il notissimo Pong e si sviluppano in parallelo alla rivoluzione sessuale e alle numerose marce del movimento LGBTQ+. Dobbiamo però aspettare gli anni Ottanta prima di avere testimonianze di titoli o personaggi a tema.
Il primo videogioco di cui abbiamo traccia è Caper in the Castro, un punta e clicca per PC sviluppato da C.M. Ralph nel 1989. Il giocatore impersona una detective lesbica, Tracker McDye, che ha il compito di risolvere il mistero della scomparsa della sua amica drag queen Tessy LaFemme nel quartiere di Castro, una zona di San Francisco storicamente nota per ospitare persone queer.
Il titolo è nato prettamente con lo scopo di raccogliere fondi per contrastare l’epidemia di AIDS, infatti è stato distribuito gratuitamente come un charityware. Sebbene si credeva fosse stato perso con il disuso dei floppy disk, nel 2017 lo sviluppatore ne ha ritrovato l’originale. Nel 2019, è stato mostrato alla Rainbow Arcade di Berlino, la prima esibizione di videogiochi queer della storia.
Sebbene Caper in the Castro abbia questo primato, Nintendo l’ha leggermente preceduto introducendo il primo personaggio LGBTQ+ nel 1988: Strutzi, il cui nome originale è Birdo. Appare per la prima volta in Super Mario Bros. 2, dove intuiamo che è un personaggio transgender in quanto leggiamo che è un maschio che “pensa di essere una ragazza” e vuole essere chiamata “Birdetta“.
Tuttavia, a partire da Super Smash Bros. Brawl e nei titoli successivi, è probabile che sia avvenuta una censura, poiché ogni indizio di transizione è stato sostituto con creatura dal “genere indefinito“. In generale l’identità di Strutzi è sempre rimasta un punto interrogativo: a volte vengono utilizzati pronomi maschili, altre volte femminili e con l’avanzare del tempo non è ancora chiaro.
Gli anni Novanta e i primi anni del Duemila sono decenni in cui gradualmente anche i grandi studi di videogiochi cominciano a essere più inclusivi: Bethesda ha introdotto per prima la possibilità di un matrimonio omosessuale in Fallout 2 nel 1998, seguita da Electronic Arts con il primo The Sims. BioWare, ben noto per i suoi tentativi subliminali o espliciti di inclusione, ha scandalizzato il mondo nel 2003 con Star Wars: KOTOR dove ha introdotto una jedi lesbica, Juhani, personaggio d’ispirazione per la stesura di nuove narrative LGBTQ+ per i prossimi titoli dello studio. Nintendo nel 2004 ha aggiunto un altro personaggio transgender, Vivian, in Paper Mario: Il portale dorato, definita anche uno dei migliori personaggi LGBTQ+ nei videogiochi.
Dal 2010 a oggi, infine, è ormai normalizzata l’introduzione di elementi queer nei propri titoli. Ricordiamo in particolare:
Molte di queste novità hanno suscitato numerose critiche da parte dei fan storici di saghe come Mass Effect, The Last of Us o Assassin’s Creed poiché le hanno definite “contro la natura del gioco”. Tuttavia vi è da sottolineare che gran parte degli elementi LGBTQ+ nei videogiochi sono facoltativi e dipendono solo ed esclusivamente dalle scelte del giocatore. Vediamo alcuni titoli nel dettaglio.
Life is Strange è una serie di videogiochi a episodi sviluppata da Dontnod Entertainment e Deck Nine Games che ha riscontrato un enorme successo dal 2015 a oggi. La saga si distingue per la sua incredibile capacità di trattare innumerevoli argomenti sensibili come l’aborto, il cyberbullismo, il suicidio e l’uso di sostanze stupefacenti, ma di certo non manca anche la rappresentazione LGBTQ+, che in questo caso è molto buona. Per quale motivo?
La rappresentazione LGBTQ+ del titolo funziona perché non esistono etichette, esiste solo e soltanto l’amore. Un amore che, per altro, si estende su più livelli e non unicamente sulla relazione fra fidanzati: nessuno ci dice esplicitamente o ci mostra che il/la protagonista sta insieme al ragazzo/a, siamo noi che possiamo interpretarla in questo modo guardando la coppia mentre si scambia un bacio. Certo, Life is Strange ci fornisce molte possibilità di flirtare o scambiare battute ammiccanti con i coprotagonisti, ma come in tutto il resto del gioco anche l’interesse amoroso è qualcosa che possiamo scegliere liberamente.
Un elemento abbastanza comune in tutti i LiS è che per conquistare il coprotagonista dobbiamo rischiare e commettere un atto illecito come rubare dei soldi, marinare la scuola o rubare delle bottiglie di vino. Questa è l’unica cosa che potrebbe storcere il naso a noi giocatori, facendoci pensare che, secondo gli sviluppatori, per approfondire un legame o innamorarsi di qualcuno dobbiamo per forza fare pazzie illegali. D’altro canto, però, l’intera saga è una sfida ai nostri principi e a tutti i valori che abbiamo assimilato nella nostra vita. Non a caso, a ogni scelta corrisponde una conseguenza ben precisa.
Nel primo titolo impersoniamo Max Caulfield, una studentessa che frequenta un corso di fotografia alla Blackwell Academy e che scopre di avere il potere di riavvolgere il tempo. Le amicizie più strette della ragazza sono sostanzialmente due: Chloe Price, amica d’infanzia molto esuberante dalla situazione familiare discutibile che cerca di spingere Max oltre i suoi limiti e Warren Graham, studente nerd dell’accademia che si è preso un debole per lei. Sebbene possiamo decidere di dare un bacio a Warren durante la tempesta, il gioco ci spinge decisamente a scegliere di voler rimanere con Chloe, tant’è vero che il grande dilemma del finale è costituito proprio dal sacrificare la ragazza o Arcadia Bay.
Life is Strange: Before the Storm, invece, si pone come prequel del primo e ha come protagonista proprio la nostra Chloe. Qui la relazione è con Rachel Amber, che è gestita in modo abbastanza diverso rispetto a quella di Max e Chloe: è più “obbligata“, probabilmente per mantenere una certa coerenza con gli eventi successivi e con il fatto che la ragazza diventi quasi ossessionata dal pensiero della scomparsa di Rachel. Infatti, sebbene anche qui possiamo sempre scegliere come gestire il rapporto, alla fine di Before the Storm Chloe rimarrà comunque più o meno intensamente assuefatta dall’amica dopo averla aiutata.
Anche Life is Strange 2 contiene la possibilità di avere una relazione omosessuale: Sean può scegliere fra Cassidy o Finn McNamara, i due capogruppo della comunità hippy della fattoria d’erba. La chimica fra i due ragazzi è evidente sin da subito, tuttavia per conquistare Finn dobbiamo concordare il suo piano di derubare il supervisore, mettendo in pericolo sia noi sia nostro fratello Daniel.
Tutto questo per ottenere un singolo bacio, cosa che ha generato malcontento nei fan poiché, anche se negli altri titoli bisogna compiere una follia simile, subito dopo si capisce subito che il legame si è rafforzato, mentre qui non accade. Inoltre, nel caso decidessimo di avere una romance con Cassidy, Sean avrà un vero e proprio rapporto con lei, mentre con Finn no, un’altra differenza che ha sconcertato i fan queer.
Infine menzioniamo un’altra opera LGBTQ+ sempre di Dontnod al di fuori della LiS saga, Tell me Why, di cui potete vedere cosa ne pensiamo qui.
Celeste è un videogioco indie prodotto da Extremely OK Games nel 2017 che è stato ampiamente apprezzato dalla critica grazie al suo gameplay avvincente e alla trama estremamente curata. Oltre a rappresentare un cammino psicologico, la scalata è anche un mezzo attraverso cui conosciamo Madeline, i suoi pensieri e le sue difficoltà. In particolare scopriamo che la ragazza è transgender, poiché nell’epilogo del gioco sono presenti due bandierine pride sulla scrivania. Nel 2019, con l’uscita di Farewell, quella che poteva essere una semplice aggiunta carina ci è stata confermata dai creatori stessi quando, alla fine del capitolo, ci godiamo un bellissimo screen finale con tanto di bandiera d’orgoglio trans.
Questa caratteristica aggiunge al tema del viaggio e del cambiamento una peculiarità in più: i concetti di identità in evoluzione e fluidità. Celeste ci vuole dire che siamo liberi di scegliere chi essere e siamo liberi anche di mutare come e quando vogliamo. Aggiungiamo inoltre che Madeline non era stata teorizzata come tale, ma dopo aver fatto coming out come non-binary, unə dei creatori, Maddy Thorson, ha confermato l’identità del personaggio in relazione alla sua vita personale, trasponendo il suo viaggio interiore in quello di Madeline.
Dunque, Celeste ci offre un’ottima rappresentazione LGBTQ+. Pur non approfondendo a dovere il tema, attraverso la grande scalata della protagonista comprendiamo anche il viaggio interiore che molte persone della comunità compiono o hanno compiuto per arrivare ad accettarsi e giungere alla conclusione che sono quello che sono.
Un dettaglio molto interessante è che Madeline non appare esplicitamente trans. Questo perché non si conforma agli stereotipi del queer-code, e la storia non si muove a giustificare il suo perché di esserlo, comunicando un concetto essenziale: lei è semplicemente lei e non ha bisogno di un motivo per esistere.
La serie di Fire Emblem, saga principale di Intelligent Systems, ha da sempre mostrato personaggi di ogni tipo. Alcuni più riusciti di altri, ma ogni volta diversi per obiettivi, passato e peculiarità.
In questo variegato gruppo sono figurati persino personaggi facilmente interpretabili come queer: dal rapporto tra Raven e Lucius in Fire Emblem 7, dove i due condividono un finale e il secondo viene paragonato a una moglie, a quello tra Ike e Soren in Path of Radiance e Radiant Dawn, il cui legame viene spesso evidenziato, sia nei dialoghi di gioco sia nelle stampe ufficiali, e i due hanno un dialogo molto intimo prima della battaglia finale. Sempre in Radiant Dawn, Heather esprime fin da subito il suo amore per le ragazze.
Nel 2015, questa serie così apparentemente aperta a mostrare relazioni di vario genere è stata al centro di un numero di critiche proprio riguardanti questo aspetto. Nonostante i vecchi titoli fossero già stati localizzati più o meno fedelmente in Europa e America, la localizzazione di Fire Emblem: Fates ha stravolto le due relazioni omosessuali disponibili per l’avatar del giocatore, Niles per l’avatar maschile e Rhajat per quello femminile.
I due personaggi, infatti, hanno visto i loro dialoghi completamente cambiati. In entrambi casi le conversazioni col MC sono state rese identiche a prescindere dal genere del protagonista, rimuovendo i dialoghi unici della controparte omosessuale nella versione originale.
Nel caso di Rhajat, si passa da un reciproco interesse tra le due a una situazione di vero e proprio stalking, mentre nel caso di Niles sono state rimosse le dichiarazioni esplicite di amore, tema portante della sua backstory, come sono anche stati rimossi tutti gli accenni alla sua bisessualità nei dialoghi con gli altri personaggi.
Se ne ricavano dei personaggi incoerenti, stereotipati e quasi noiosi, spogliati di una parte del loro carattere senza ricevere altro in cambio.
Questa scelta, chiaramente pensata guardando al mercato occidentale, fa riflettere sulle sue motivazioni. Era davvero necessario ridurre dei personaggi già scritti a dei meri “token”? Sembra quasi che Nintendo of America abbia avuto paura di dare qualche tipo di risalto a queste relazioni, nonostante gli enormi passi avanti, andando contro l’intento originale degli autori e rovinando ulteriormente l’opera.
Se non altro, nel 2019, sembrano aver cambiato idea: Three Houses non solo torna a presentare relazioni non etero tra i personaggi, ma le offre anche al giocatore stesso, mostrando personaggi verosimili e interessanti, il cui orientamento non stride come un’imposizione, ma è solo una parte del loro essere.
I fumetti, in America, sono stati da sempre sotto lo sguardo critico della società per bene.
Nati negli anni ’30 come le raccolte delle strisce pubblicate sui giornali, gli albi a fumetti ebbero grande successo nella società della Grande Depressione e della Seconda Guerra Mondiale: la crisi aveva abbattuto il consumo di libri, divenuti troppo costosi, e il clima politico accresceva l’attrattiva della satira, ma anche di storie fantastiche. Nei ’40 tutti leggevano fumetti.
Considerato il periodo d’oro del fumetto, buona parte degli autori del tempo erano immigrati o appartenenti ad altre minoranze che, all’epoca, non avevano possibilità di sfondare nel mondo della stampa letteraria. In quel periodo sono nati personaggi che conosciamo tuttora, come Batman e Wonder Woman, e non essendoci ancora sovrastrutture formali la creatività degli scrittori non incontrava ancora forti ostacoli, dando vita a storie di ogni genere che toccavano anche forti tematiche sociali come il genere o la razza.
Insieme al successo, però, arrivarono le critiche: gruppi religiosi e di genitori avevano paura dell’influenza che la presenza di scene violente e messaggi ritenuti “sovversivi” avrebbero potuto avere sui bambini, incolpando i fumetti dell’ondata di criminalità giovanile di quegli anni, senza nessuna reale correlazione.
In uno studio, poi rivelatosi fraudolento, lo psichiatra Fredric Wertham osservò che i giovani criminali ricoverati in psichiatria leggevano fumetti (come la maggior parte della popolazione). Nel 1954 le sue teorie furono esposte in un libro, The Seduction of the Innocent, dove denunciava apertamente il presunto sottotesto sessuale dei fumetti, colpevoli a suo dire di rendere violenti i giovani. In particolare accusava Wonder Woman di essere lesbica, Batman e Robin di essere gay, e Superman di godere sessualmente nel vedere gli altri patire sofferenze a cui lui era immune (il cosiddetto “Complesso di Superman”).
Per sopravvivere all’attacco dell’opinione pubblica, galvanizzata da questi studi e dall’ideologia della Guerra Fredda, le case editrici si organizzarono nella Comics Code Authority, stipulando un codice di autoregolamentazione per l’approvazione dei fumetti che, seppur non formalmente, diventò di fatto una legge, in quanto i rivenditori avevano paura di distribuire materiale non approvato dal codice.
Il codice formalizzava i valori della società bianca e cristiana: il bene doveva sempre prevalere sul male; qualsiasi riferimento sessuale era vietato, come erano vietati l’horror e la volgarità; e, soprattutto, andava rispettata la santità della famiglia tradizionale, escludendo quindi il divorzio o l’esistenza stessa di persone non etero.
Il fumetto mainstream nei decenni seguenti si fossilizzò sul genere supereroistico. Era facile scrivere storie del genere che seguissero i dettami del codice, ma anche loro persero fascino. Batman, nato come uno dei personaggi più cupi, vide pesantemente ridimensionata la sua backstory e alleggeriti i temi.
Il dominio del codice durò incontrastato fino agli anni ’70, quando Stan Lee pubblicò dei capitoli di Spider-Man che affrontavano l’abuso di sostanze. Da lì il codice venne a ridimensionato sempre di più, fino a essere abbandonato definitivamente nel nuovo millennio.
Nel frattempo, quella minoranza volenterosa di raccontarsi aveva trovato posto nel mercato underground.
Pubblicazioni non approvate sbocciavano ancora a destra e a manca, e tra queste ne troviamo anche di esplicitamente queer: Gay Heart Throbs, Dynamite Damsels, Wimmen’s Comix sono solo alcune delle pubblicazioni che circolavano negli anni ’80, come anche Strip AIDS e Sexile, fumetti a scopo informativo diffusi durante l’epidemia di HIV.
Il panorama mainstream ha impiegato un po’ di anni in più per tornare alla libertà di prima, nonostante qualche accenno durante il periodo della CCA. Personaggi minori gay iniziano a comparire dalla fine degli anni ’80, e più avanti viene anche esplorata la transessualità.
Da allora la presenza di personaggi LGBTQ+ è aumentata sempre di più anche nei grossi studi DC e Marvel, di cui vorremmo menzionare alcune importanti tappe:
Nato nel 1979 ad opera di Chris Claremont e John Byrne, Northstar è stato tra i primi supereroi dichiaratamente omosessuali (anche se il suo orientamento venne esplicitato solo nel 1992, nel toccante Alpha Flight n. 106), e il primo in assoluto della Marvel.
Membro degli X-Men dal 2002, da allora la sua sessualità è stata mostrata con sempre meno esitazione da parte degli scrittori. Nel 2009 venne mostrato per la prima volta insieme al compagno Kyle Jinadu, con il quale, nel 2012, è stato protagonista del primo matrimonio omosessuale mostrato dalla Marvel, evento che ha attirato l’attenzione della stampa e anche di critiche da parte di gruppi reazionari religiosi.
È importante notare come questo sia arrivato in seguito alla legalizzazione delle unioni omosessuali nello stato di New York, avvenuta nel luglio 2011. In questo caso, il loro matrimonio voleva essere un modo da parte degli autori di riflettere il mondo reale. È forse anche interessante tracciare un parallelo tra gli X-Men, che lottano per l’accettazione nel loro universo, e gli attivisti che hanno permesso la liberazione gay nel mondo occidentale.
Per quanto riguarda invece la DC Comics, un caso molto interessante è rappresentato da Poison Ivy e Harley Quinn.
Le due supercattive, si incontrarono per la prima volta nel 1993, non in un fumetto ma bensì nella serie animata di Batman.
Dopo essere stata cacciata da Joker per averlo quasi fatto catturare, Harley decide di derubare un museo per riconquistarlo. Qui che incontra accidentalmente la “collega”, e le due fuggono insieme dalla polizia verso il rifugio di Ivy. Il resto dell’episodio si concentra sul tentativo da parte di Ivy di far dimenticare all’altra la sua relazione abusiva con Joker, portandola a rapinare club riservato all’elite sociale maschile.
Dopo essere state fermate, non da Batman, ma dalla poliziotta Renee Montoya (che in seguito si rivelerà essere a sua volta lesbica), le due tornano a frequentarsi anni dopo, nel 2000, nella nuova testata Harley Quinn, dedicata alla giullare. Qui prosegue il canone stabilito dal cartone animato, e infatti vediamo Ivy ancora intenzionata a mostrare ad Harley la vera natura del suo rapporto abusivo con Joker, arrivando a farsi sparare da quest’ultimo dopo essersi travestita.
Il loro rapporto viene ripreso ancora nel 2004, con la miniserie Batman: Harley & Ivy, che vede la coppia in una serie di avventure nefaste, come salvare la Foresta Amazzonica.
Intanto, in Gotham City Sirens del 2009, il personaggio di Harley si sviluppa in un ciclo che la vede ripetutamente lasciare e tornare con Joker, finché non crea insieme a Ivy e Catwoman un trio criminale che mette a ferro e fuoco Gotham City. Tuttavia, un litigio con la gatta fa riaffiorare i suoi traumi passati con Joker, al punto che decide di irrompere nel manicomio di Arkham per ucciderlo, ma senza riuscire a premere il grilletto alla fine. È qui che Ivy rivela che il rapporto tra le due non è puramente platonico, costringendo Harley a scegliere tra lei e Joker, cosa che mette fine alla band.
È però nel 2013 che il rapporto tra le due diventa qualcosa di ufficiale: nella serie Harley Quinn, questa si riferisce alla partner come “girlfriend“, anche se per vedere il primo bacio canonico tra le due è stato necessario aspettare il 2017 (il primo in assoluto è avvenuto su DC Comics: Bombshells n. 42 di Marguerite Bennett e Mirka Andolfo). Tra l’altro, proprio questo bacio è stato oggetto di un’autocensura da parte della stessa DC Comics, che nelle future ristampe lo ha editato rendendolo un semplice bacio sulla guancia. La loro relazione non è “rose e fiori” neanche qui, ma è proprio questo che la rende speciale.
Le due ragazze rappresentano tutto ciò che il CCA avrebbe bandito decenni prima: l’idea stessa di poter simpatizzare col cattivo della storia, la loro sessualità, ma anche la poligamia: Harley infatti non disdegna altre avventure occasionali.
La cosa più importante del loro rapporto è però quello di essersi sviluppato in maniera organica: la loro relazione si è “scritta da sola”, partendo da due personaggi indipendenti con le proprie storie, e non creati appositamente come era spesso il caso di altre coppie, etero e non. In queste storia sviluppate nel corso degli anni e delle edizioni, è possibile vedere l’amore tra loro due sbocciare, letteralmente.
E la chiamano estate, il cui titolo originale è This One Summer, è una graphic novel del 2014 di genere coming of age scritta da Mariko Tamaki e illustrata da Jillian Tamaki.
La trama è incentrata sulla vacanza della dodicenne Rose e con la sua amica Windy in una piccola cittadina balneare. Le due cominciano ad affrontare il temuto periodo dell’adolescenza, con tutto quello che comporta, come l’interesse per i ragazzi, i litigi dei genitori, l’utilizzo di droghe o l’influenza del gruppo dei pari. Fra questi vi è la sessualità e in particolare l’attenzione è focalizzata sulla relazione estiva fra le due protagoniste, che non viene mai esplicitata e viene osservata con una prospettiva del tutto innovativa.
Sebbene abbia ricevuto numerosi premi come l’Eisner Award o l’Ignatz Award, E la chiamano estate non è stato accettato da tutto il pubblico. La polemica è scoppiata nel momento in cui l’opera è stata onorata con la medaglia Caldecott nel 2015, un premio che si dona a libri o fumetti rivolti a un target di bambini e ragazzi fino ai 14 anni. Spinti dal prestigio del premio, numerosi genitori hanno deciso di comprare la graphic novel ai loro figli, ignari del fatto che in realtà l’opera è destinata a un pubblico dai 12 anni in su.
Ciò ha portato This One Summer a essere rimosso da varie librerie americane e a essere vietato in numerose scuole, soprattutto elementari. Si sono mobilitate diverse persone in difesa del libro, fra cui l’associazione Comic Book Legal Defense Fund. In particolare quest’ultima chiedeva di poter raggiungere un compromesso e includere lettori dai 10 anni in su, anziché dai 12, con il permesso e la supervisione di un adulto.
A causa del trambusto, il fumetto si è posizionato per due volte, nel 2016 e nel 2018, al primo posto della Top Ten Challenged Books List dell’American Library Association, dedicata ai libri più censurati dell’anno. Numerose volte le autrici si sono espresse sulla censura, esprimendo rammarico soprattutto sul fatto che i contenuti LGBTQ+, secondo il pubblico, non sarebbero adatti ai bambini, quando in realtà andrebbero educati anche su questo.
Questo lungo articolo giunge al termine, ma speriamo che gli esempi citati, pochissimi tra tanti, possano avervi mostrato una nuova prospettiva sull’importanza della presenza di ogni tipo di personaggio nei media. Non dimentichiamo che spesso e volentieri queste minoranze fanno parte dei team dietro lo sviluppo, è impensabile escluderle da ciò che producono.
Lesbiche, gay, bisessuali, transgender e ogni altra sfumatura dello spettro queer sono in fondo persone come le altre, e rivedersi in un bel film o in una serie di fumetti aiuta a respingere quello stigma che ancora ci portiamo dentro di essere diversi e in difetto verso le persone che ci circondano, che invece sono proprio come noi.
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