Con Leone d’Oro, Golden Globe, premio Oscar e British Academy per miglior film dell’anno e miglior regia, Nomadland di Chloé Zhao è riuscito a guadagnarsi un posto d’onore nella storia del cinema. Un film di donne protagoniste sia nella storia che nella regia e anche nella scrittura, un film che parla dell’America e di come l’anima di una nazione in difficoltà si rifletta in quello di una persona apparentemente senza un obiettivo. Un film che continua a viaggiare come i suoi personaggi senza una meta apparente ma, al contempo, con un intento ben preciso.
Siamo nel 2008, la crisi economica dovuta alla grande recessione ha messo a dura prova le vite dei lavoratori americani. Nelle disperse distese del gelido Nevada, sullo sgangherato bus Vanguard, continua a girovagare Fern, da poco vedova, alla ricerca di lavori occasionali, tra i quali manovalanza con la promettente industria Amazon, racimolando ciò che le serve per vivere.
Col tempo incontra altre persone come lei, nomadi costretti dalla dura vita di quegli anni o delusi dall’industrializzazione statunitense a ritrovare un rapporto più diretto con le persone e con la natura. Fren cerca di entrare in quel mondo e di fare amicizia con diverse persone, tra cui Dave, col quale pare instaurare un rapporto più intimo. Qui, sembra aver ritrovato un suo posto nel mondo, una comunità alla quale sente di appartenere, che potrebbe aiutarla ad andare avanti.
I road movies hanno sempre fatto parte della storia cinematografica americana. Da Easy Rider a Paura e Delirio a Las Vegas, si parla di storie di persone disadattate, poco abituate allo stile di vita mainstream del Nuovo Continente, che partono alla ricerca del Sogno Americano e di un obiettivo da seguire.
In Nomadland, come negli altri film, questa ricerca è rappresentata dal viaggio senza meta di Fern, interpretata da una grandiosa Frances McDormand, che però non pare seguire una linea precisa, come nelle storie precedentemente citate: torna negli stessi posti, gira intorno ai paesaggi, fa visita a persone conosciute. Questo perché lei stessa non ha un obiettivo preciso, allo stesso modo in cui l’America del 2008 sembra non avere un futuro certo a causa della crisi.
Il suo è un viaggio simile a quelli descritti nei romanzi di Jack Kerouac, il vero creatore delle storie on the road, nelle quali la beat generation cercava di guadagnarsi la sua identità, in cui il protagonista affrontava un percorso di crescita che lo portava a scoprire ciò che voleva realmente.
Il viaggio di Fern in Nomandland, come quello del romanzo On the Road, è un’avventura portata a far ritrovare alla protagonista la propria identità. Mentre gli altri personaggi, col passare del tempo, realizzano chi sono e cosa vogliono, lei è l’unica a non avere un fine, a non visualizzare un traguardo. Forse perché la morte di suo marito le ha fatto perdere l’unica cosa davvero importante o, forse, perché non ne ha effettivamente bisogno.
Se l’economia della più grande potenza mondiale ha fallito, se l’industria non sembra avere speranza, allora che senso ha continuare a sfruttarla? Perché non perdersi negli ambienti naturali, nelle “rughe” di questa terra maestosa?
Nomadland è un film fatto di silenzi, lunghi anche diversi minuti, in cui, come dice Hitchcock, i dialoghi non sono altro che “suoni in mezzo ad altri suoni”. Più volte Fern si perderà nei deserti del cosiddetto Stato d’Argento, o sulle coste frastagliate della vicina California, spoglie della civiltà. I soli rumori del paesaggio o di sottofondo sono la colonna sonora che questo film userà più volte, un paesaggio incontaminato dopo l’altro, ripreso a campo largo per mostrarci la superba magnificenza del vero mondo.
Tali momenti rallentano il ritmo di Nomadland, ma non annoiano per niente: sono fatti apposta sia per sottolineare l’andamento ciclico del viaggio di Fern sia per far perdere lo spettatore in un’armonia catartica con l’ambiente, allo stesso modo in cui la protagonista e i nomadi come lei stanno cercando di fare.
I Nomadi stessi vengono visti come il vero popolo americano. Vengono citati i Padri Fondatori come progenitori di questa comunità ma anche loro erano diversi: loro avevano un obiettivo, volevano fondare l’America che noi ora conosciamo, avevano il Sogno di un nuovo mondo, un Sogno che portò bene e male in egual misura.
I Nomadi, invece, hanno un concetto più intrinsecamente filosofico nel viaggio. Incontrare nuova gente, scambiare idee e culture, anche solo col mero baratto, un metodo antico, semplice ma efficace per scoprire.
Lo stesso furgone, il Vanguard, diventa un personaggio. Fern ne parla più volte come se stesse descrivendo una persona più che un mezzo di trasporto. Per quanto vecchio possa sembrare, è fatto di oggetti che hanno un’anima, una storia, anche se di corpi di ceramica, legno o porcellana, che la fredda plastica non potrà mai sostituire. Cose semplici come il rimettere a posto i piatti sono resi più intimi dai rumori amplificati, con l’assenza di musiche di commento in sottofondo, per farci capire l’importanza che hanno certi oggetti per lei, piccoli come un piatto o grandi come il van.
Si è parlato dei rimandi a Kerouac, ai road movies e alla storia americana in generale ma non si può parlare del film senza parlare della penultima inquadratura. Chi mastica il cinema americano, non può non avere un’epifania con John Wayne che esce di casa sua nel finale del più famoso film di John Ford.
Lungi dallo scrittore dire che Nomadland sia il nuovo Sentieri Selvaggi (sono due storie completamente diverse che raccontano epoche lontane l’una dall’altra e con stili differenti), ma quell’inquadratura, quel personaggio che esce dall’uscio di una casa inquadrato da dentro l’abitazione, in entrambi i film ha lo stesso significato.
Il protagonista ha terminato il suo viaggio, ha raggiunto il proprio obiettivo, solo per iniziarne un altro. Ha conosciuto la verità e la verità l’ha reso libero. Ora non resta altro che sfruttare tale libertà per iniziare un altro viaggio.
La verità sta nel viaggio. Fern e Ethan sono due viaggiatori, entrambi cercano qualcosa, come dice il titolo originale di Sentieri Selvaggi (The Searchers) ed entrambi non sanno se lo troveranno mai. L’unica scelta che hanno è continuare a viaggiare, a cercare. A perdersi nell’ambiente di un America sempre più in evoluzione, ad abbandonare la civiltà di una casa, uscire dall’uscio delle loro abitazione, e perdersi sulla strada.
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