Passare dal commentare film a commentare libri non è una transizione facile: serve cambiare punto di vista rispetto a cosa sia più importante nella scrittura della storia, capire come si approccia un lettore piuttosto che uno spettatore e come questo influenza la fruizione della storia.
Fortunatamente per me, Aponìa, di Luca Sacchieri edito da Robotics 2000, è un libro scritto in maniera molto cinematografica esclusi alcuni accorgimenti che hanno permesso al libro di brillare come tale e non sembrare una sceneggiatura.
Pietro, il protagonista di Aponìa, è uno specializzando in chirurgia all’ospedale Umberto I di Roma, timido e solitario che bilancia la sua vita tra il lavoro, le sessioni di studio coi suoi colleghi e amici, la passione per i supereroi e il corso di karate.
Due eventi cambiano completamente la vita di Pietro nel giro di pochi giorni: il primo è l’inizio del suo flirt con Maria Giovanna, ragazza iscritta al suo stesso corso di karate, il secondo è il pestaggio che subisce insieme all’amico Giorgio ad opera di due nazi per strada.
In seguito all’attacco, Giorgio rimane in coma e Pietro riporta gravi danni al sistema nervoso che gli inibisce completamente il senso del dolore, Aponìa, appunto.
Una volta resosi conto che l’assenza di dolore gli permette anche di non percepire la fatica, Pietro comincia a utilizzare questo suo nuovo “potere” per vendicarsi contro chiunque gli abbia fatto un torto.
La storia di Aponìa scritta da Sacchieri può essere inquadrata in quel genere supereroistico “all’italiana” inaugurato da Lo Chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, che con il romanzo di Sacchieri condivide alcune caratteristiche, come l’essere ambientato a Roma e la messa in scena dell’ambiente criminale romano in maniera realistica, per quanto, a differenza del film di Mainetti, Aponìa mette in scena un ambiente per nulla sopra le righe.
Il protagonista di Aponìa può essere visto come il rovescio della medaglia dell’Enzo Ceccotti di Lo Chiamavano Jeeg Robot.
Entrambi cambiano in seguito all’acquisizione dei loro poteri, ma mentre Enzo all’inizio usa i suoi poteri per se stesso e poi impara a mettere se stesso al servizio degli altri in maniera disinteressata, Pietro comincia col voler raddrizzare i torti che gli vengono fatti, per poi precipitare in una spirale di corruzione e di senso di invincibilità che rischia di distruggerlo.
Parlando del superpotere di Pietro poi, questo spesso sembra più un handicap che un potere nonostante tutto e Sacchieri non esita a presentarlo come tale.
La perdita di empatia di Pietro nei confronti di ciò che gli sta intorno, diretta conseguenza dell’influenza che i suoi nuovi poteri hanno sulla sua mente, è lasciata trasparire benissimo dalle parole dell’autore, che mostra con piccoli gesti quotidiani del protagonista come tutto intorno continui a muoversi senza Pietro, mentre lui stesso è con la testa altrove.
Al netto del dover sostenere la presenza di un uomo che non prova né dolore né fatica, la storia propone eventi perfettamente credibili in un contesto reale. Gli scontri tra Pietro e i vari criminali che affronta nel corso della storia sono tutto fuorché spettacolari o coreografici, solo brutali, realistiche e per nulla entusiasmanti scazzottate come è giusto che siano, con denti che saltano, ossa che si rompono e sangue che schizza in ogni direzione, addolcite soltanto dalla parziale preparazione marziale di Pietro, che contestualizza la sua capacità nel colpire, mentre gli studi di medicina gli permettono di sapere cosa e come colpire per aver ragione sugli avversari.
L’idea alla base è estremamente semplice: un chirurgo con la capacità di non provare dolore e fatica, che può ricucirsi da solo le ferite e utilizza i suoi studi di anatomia per combattere i criminali. Una caratterizzazione ottima per un supereroe di quartiere che funziona perfettamente in un contesto reale senza risultare troppo sopra le righe.
Come detto nell’introduzione, la scrittura di Aponìa è molto cinematografica, molto più concentrata sull’azione che sulle descrizioni di ambienti e personaggi, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.
I lati positivi sono molti. Con pochissime pause descrittive e azioni che si susseguono a un ritmo molto sostenuto la lettura risulta molto scorrevole, con il lettore che a ogni pagina si trova sempre in mano un evento in evoluzione, piccolo o grande che sia. Concentrandosi maggiormente sull’azione dei personaggi e con una loro caratterizzazione ben delineata, Aponìa riesce a far percepire al lettore la personalità dei personaggi della loro azioni e dalle sue relazioni con gli altri, in breve tempo si avrà l’impressione di conoscere Pietro, Maria Giovanna, Giorgio, e tutti gli altri personaggi del libro come se fossero vecchi amici, come se fossimo li con loro.
Parlando dei personaggi, il lavoro di caratterizzazione fatto su di loro è fenomenale. Pietro come protagonista funziona dal primo istante: abbastanza sfigato da risultare simpatico, ma non così tanto da risultare patetico. Un ragazzo come tanti, appassionato di fumetti e cinema di supereroi, che nasconde le insicurezze e le emozioni dietro una maschera di ironia: facile identificarsi in lui, specie per i lettori tra i 20 e i 30 anni.
Dal punto di vista di Pietro, unico e solo punto di vista di tutta la storia, potremo conoscere anche gli altri personaggi, tutti ben caratterizzati, chi più approfonditamente e chi meno, in particolare Maria Giovanna, che ha l’unico difetto di aver messo troppa carne al fuoco per quanto viene effettivamente sviscerata, alla fine ci si chiede se non si potesse conoscere qualcosa di più di questo personaggio.
Spicca sicuramente la sottotrama romantica di Pietro con Maria Giovanna, motore principale della caratterizzazione del protagonista, ma in generale tutte le sottotrame sono trattate molto bene e si finisce per affezionarsi a tutti i personaggi principali.
Ciò che invece manca in Aponìa, e soprattutto all’inizio della lettura risulta un problema, sono le descrizioni fisiche dei personaggi.
Per quanto minimali, le descrizioni degli ambienti cittadini di Roma riescono a dare quantomeno un’idea di dove e come ci troviamo, sicuramente chi vive a Roma o ha familiarità con la città sarà avvantaggiano, ma i personaggi sono descritti fisicamente molto poco, talmente poco che per buona parte della storia risulta molto difficile visualizzarli.
Ci sono dei problemi anche per quanto riguarda una parte dei dialoghi. In gran parte i dialoghi tra i personaggi sono molto carini, frizzanti botta e risposta credibili in ogni contesto, da quelli più casual di Pietro con i suoi compagni di studi a quelli più intimi con Maria Giovanna, il problema si presenta quando vengono inseriti degli inserti in mezzo ai discorsi che non si capisce se sono effettivamente pronunciati dai personaggi o solo pensati. Inserti di questo tipo, con commenti aggiuntivi, sono molto carini quando vengono inseriti nei testi dei messaggi di chat telefoniche, presenti nella storia, e rendono alcuni scambi anche molto divertenti… ma quando inseriti nel parlato risultano troppo artificiali e poco adatti al contesto; in un certo senso facendo a pugni con il tipo di scrittura molto cinematografica e povera di decorazioni adottata in tutto il resto del libro.
A contribuire all’idea cinematografica di Aponìa c’è anche il fatto che i capitoli in cui è divisa la storia sono molto brevi, nella maggior parte dei casi non superano le 20 pagine, in alcuni casi neanche le 10, come se fossero scritti in forma di scene o sequenze di una sceneggiatura. Questo aspetto mi sento di promuoverlo perché concorre a dare dei punti fermi alla lettura, che altrimenti avrebbe un ritmo molto rapido e difficile da sostenere.
Chi non vorrebbe essere un supereroe? Chi non vorrebbe avere il potere di riparare un torto subito da se stesso o da qualcun altro? Chi non vorrebbe essere superiore a se stesso? Superiore a chiunque altro?.
Aponìa racconta esattamente questa sequenza di domande poste a se stesso da qualcuno che si ritrova tra le mani un potere e ne fa un utilizzo che lui ritiene giusto, senza rendersi conto di star diventando lentamente, ma inesorabilmente schiavo di quello stesso potere.
Aponìa non racconta una storia senza eroi, ma una storia in cui un personaggio risulta eroico non perché combatte i demoni di questo mondo, ma perché combatte i propri demoni, impendendogli di prendere il sopravvento su di lui. Rabbia, violenza, vendetta, dietro la maschera di un distorto senso di giustizia tentano continuamente Pietro, che finisce per riversare su altri quel dolore che non riesce più a provare, mentre si allontana inesorabilmente dalle persone che gli stanno intorno. Il paradosso del re che esce a caccia del drago mentre il suo popolo muore di fame.
Aponìa è un’ottima lettura, leggera, scorrevole, ma anche piena di spunti di riflessione. L’ottimo ritmo degli eventi, sia grandi che piccoli danno modo al lettore di avere sempre dell’azione o dell’approfondimento sotto gli occhi, a discapito di una minore cura per le descrizioni visive di personaggi e ambienti. Gli unici inceppi a questo ritmo, che segue dei fili logici ben precisi, stanno nella parte immediatamente precedente al finale, preparata, a mio modo di vedere, in maniere un po’ frettolosa. Inoltre la cura editoriale del libro ha più di una lacuna, in alcune parti gli errori di battitura sono particolarmente fitti e danno una brusca frenata all’immedesimazione.
Nonostante i difetti, Aponìa riesce a brillare per i suoi pregi e mi sento di consigliarlo a tutti, specialmente a chi ha già apprezzato Lo Chiamavano Jeeg Robot.
Una lettura giovane, energica, che tiene perennemente l’attenzione del lettore dal primo all’ultimo capitolo.
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