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Perfect Days, la recensione: l’elogio della semplicità di Wim Wenders

Perfect Days segna il ritorno nelle sale dell’amato regista tedesco Wim Wenders, noto al grande pubblico per opere come Paris, Texas e Il Cielo Sopra Berlino.

Colpevolmente chi vi scrive ha un solo legame con il regista, Tokyo-Ga, docu-film girato nel 1985 in una pausa tra le riprese di Paris, Texas per commemorare la scomparsa di Yasuiro Ozu, regista giapponese dimenticato nel 1963. Wanders racconta la trasformazione della città dalla scomparsa del regista, immortalando l’iconica capitale giapponese nel pieno del suo mutamento.

Proprio sul filone di Tokyo-Ga si inserisce Pefect Days, una storia di quotidianità ambientata nella Tokyo dei giorni nostri. Un film che non poteva essere ignorato anche se con una rarefatta distribuzione italiana quasi criminosa, nonostante vadano ringraziate Lucky Red e cinema come lo Zenith di Perugia (e come lui tante altre realtà virtuose, ndr.) che lo hanno proiettato per un’intera settimana.

Just some Perfect Days

Parafrasando il brano di Lou Reed che ispira il titolo della pellicola, Wim Wanders ci racconta alcuni giorni perfetti della quotidianità di Hirayama, un uomo di mezz’età di Tokyo interpretato magistralmente da Koji Yakusho.

Nelle prime scene viviamo la routine metodica e ripetitiva del protagonista e i piccoli gesti che caratterizzano la sua giornata: la sveglia al suono della scopa che spazza la strada, annaffiare le sue piante, il caffè alla macchinetta, le cassette in macchina verso il lavoro.

Proprio sul lavoro di Hirayama si costruisce il filone narrativo di Perfect Days. Il protagonista pulisce i bagni pubblici di Tokyo, non proprio i servizi igenici a cui siete abituati. Il modo in cui Hirayama svolge il suo lavoro è quasi maniacale il che suscita, nello spettatore quanto nel suo collega, stupore e curiosità.

In pausa Hirayama è solito mangiare un panino nei giardini del tempio, osservando la luce che attraversa le foglie degli alberi, cercando di cogliere l’unicità di quel fascio di luce attraverso al sua fotocamera analogica. Come spesso accade questo simbolismo ha un proprio termine specifico nel linguaggio e nella letteratura giapponese: komorebi.

Komorebi è il contrasto tra luce e ombra, tanto visivo quanto emotivo, che in giapponese evoca un sentimento caldo e silenzioso, tipico di un ambiente piacevole. Una ricerca della positività nelle piccole cose della vita data dai raggi del sole che rompono le ombre degli alberi, simbolo di dubbio e di ansia. Il leit motiv della pellicola perfettamente rappresentato da Wim Wenders.

Nella quotidianità di quest’uomo solo ed invisibile nella Tokyo moderna nel quale sembra un pesce fuor d’acqua, si inseriscono alcuni personaggi che faranno parte dei giorni di Hirayama. Il giovane e fastidioso collega Takashi che cerca di uscire con Amy, una ragazza molto più interessante di lui che coglie la particolarità del protagonista e della sua passione per la musica (Patti Smith, gli anni ’70, un ponte al Giappone che si modernizzava e del quale resta ancora un’eco, ndr.)

Quando la ritalità giornaliera viene interrotta dal doppio turno a lavoro vediamo un po’ di rabbia entrare nella vita di Hirayama, scossa anche dall’inattesa comparsa di Niko, la nipote che non vedeva da tempo. Dopo un primo shock la connessione tra i due da vita ad una serie di immagini familiari che inizialmente non avremmo attribuito al protagonista, connettendo due generazioni in modo emozionante e simpatico.

Si susseguono così i “Perfect Days” di Wim Wenders, uno spaccato dell’esistenza di un’uomo, della cui vita possiamo solo intuire e cercare di ricostruire mettendo insieme delle supposizioni, ma di cui godiamo della semplice quotidianità, serena e apparentemente appagante, in netto contrasto con tutto quello a cui siamo abituati.

L’elogio della semplicità

Perfect Days è forse il film che più rappresenta una certa giapponesità (passatemi il termine) tra quelli diretti da registi stranieri. Non c’è eccessivo drama e manca completamente una trama generale che inizia e si risolve nel finale. Wenders non vuole raccontarci una storia, il suo obbiettivo è lanciarci un messaggio attraverso la quotidianità di un uomo.

Le storie che vediamo sono fotografie di persone che costellano la vita di Hirayama, secondo un canone narrativo che ultimamente ha avuto molta fortuna nel Sol Levante (ed anche qui da noi) con autori come Toshikazu Kawaguchi. Ed ecco che grazie a questi personaggi capiamo un po’ del nostro protagonista, senza che niente ci venga detto ma solo carpendo e immaginando.

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In Hirayama c’è un trauma, un prima e un dopo, e lo possiamo dedurre da un’incontro con la sorella dopo la fuga di Niko a casa sua. Questo però non viene approfondito, non c’è alcun bisogno di farlo, anche quando Takashi chiede ad Hirayama se si sente solo a vivere così alla sua età, lui non risponde. Non deve rispondere, noi spettatori non dobbiamo sapere altro, è giusto che sia così.

Hirayama ci serve come simbolo della semplicità perduta dalla nostra frenetica società dell’arrivismo, della serenità del sole che irrompe tra le foglie degli alberi nel caos della metropoli, la sua felicità è nelle piccole cose che compongono le sue giornate e le persone che incontra, una nipote ritrovata, una birra con un uomo sconsolato, un bacio sulla guancia.

Cast

Il film si chiude dopo che Hirayama, inserita la cassetta nella sua auto, ascolta alla luce dell’alba il brano simbolo della discografia di Nina Simone, Feeling Good. “It’s a new dawn, it’s a new day, it’s a new life… and I’m feeling good” canta la potente voce della cantante americana mentre in una lunga sequenza sul viso del protagonista viviamo il susseguirsi delle sue emozioni sotto la nuova luce della Baia di Tokyo.

Una tecnica di chiusura già vista, pensate allo struggente primo piano su Timothée Chalamet in Chiamami col tuo nome di Guadagnino accompagnata dalla voce di Sufjan Stevens, ma che funziona alla grande anche in Perfect Days e chiude la prestazione impeccabile di Koji Yakusho.

La palma d’oro di Cannes non è stata casuale, Yakusho ci trasmette attraverso i tipici gesti del popolo giapponese tutte le emozioni che Wenders vuole comunicare. Il piccolo inchino con la testa, il cenno d’intesa, la smorfia di disapprovazione, il sorriso. Tutto è reso perfettamente dal protagonista, in una prova che necessitava di un grande attore per arrivare al cuore dello spettatore che non ha certo fallito nel suo compito.

Il resto del cast supporta Yakusho in maniera ottima, con la pacatezza tipica della giapponesità che Wanders voleva farci respirare e che si rompe solo con il personaggio di Amy (Aoi Yamada), necessariamente più emotiva per il ruolo ricoperto.

Destinato ad essere un Cult

L’ispirazione per Perfect Days nasce da una visita post-pandemia di Wim Wenders a Tokyo, dove ritrova un città diversa da quella che aveva raccontato in Tokyo-Ga. A colpirlo particolarmente sono i bagni pubblici della città, vere e proprie opere di design funzionali ad inserirsi nel luogo dove vengono costruiti.

Perfect Days finirà senza dubbio nel filone di quei film culto che inevitabilmente attirano persone da ogni parte del globo verso la capitale giapponese. Pensate ad Hachiko, la sua statua a Shibuya è un luogo di pellegrinaggio, o ai viali illuminati dalle scritte e i grattacieli di Shinjuku, rappresentati nel film di Sofia Coppola che, ancora oggi, sponsorizza meglio Tokyo con una giovane Scarlett Johansson che li attraversa in Lost in Translation.

Chi vi scrive è tornato da pochi mesi da un lungo viaggio nel Sol Levante e probilmente subisce ancora il fascino di quel Paese. Ciò non toglie che Wenders ha costruito immagini meravigliose di una Tokyo poco conosciuta e mai banale che ammaliano lo spettatore dal primo all’ultimo istante, grazie anche alla proporzione scelta per la pellicola, 1.33:1, più intima e fotografica.

Wenders ritorna al meglio

Il ritorno di Wenders con Perfect Days non poteva andare meglio. Il regista ha costruito un film unico che sembra per pochi ma è dedicato a tutti. Un invito a vivere la felicità nelle piccole cose della nostra vita, nelle nostre passioni, i nostri interessi, gli affetti e le esperienze quotidiane.

Wenders in Perfect Days comprende in pieno la cultura giapponese, affidando tutta la carica emotiva del suo messaggio ad un protagonista che non dice quasi mai nulla ma che, quando lo fa, questo risuona e riesalta.

Un messaggio tipico dello stile di vita giapponese, inquadrato da un regista che voleva raccontare la normalità, la “luce che contraddistingue le vite minuscole in fuga dai desideri” come scrive nella sua analisi del film la scrittrice Laura Imai Messina.

Perfect Days
SCRITTURA
9.5
REGIA
9
COMPARTO TECNICO
9
DIREZIONE ARTISTICA
8.5
CAST
9
Pros
Un'ode alla semplicità destinata ad essere un cult
Rappresenta Tokyo da un punto di vista originale e unico
Koji Yakusho mette in scena una delle prove attoriali migliori degli ultimi anni
Colonna sonora perfetta
Cons
Poteva durare di più
9
VOTO
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Matteo Tellurio

Nascere in un paesino umbro ti porta ad avere tanti hobby. Cresciuto tra console e computer, è da sempre amante di cinema, serie TV e musica, nella quale si diletta in maniera molto amatoriale. Anime e manga invece sono il pane quotidiano ma anche lo sport lo appassiona. Crede di aver visto ogni singola disciplina inserita dal CIO alle Olimpiadi.

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Matteo Tellurio
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