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Killers of the Flower Moon, la recensione: Riesci a vedere i lupi?

Con Killers of the Flower Moon, Martin Scorsese racconta una nuova pagina oscura della storia Americana. Dopo The Irishman, approdato su Netflix, lo storico regista aumenta il minutaggio e ci dona ben tre ore e mezza di ingiustizie perpetuate ai nativi abitanti della Terra delle Opportunità.

Ringraziamo AppleTV+ per aver prodotto questo film e averlo distribuito sui grandi schermi, con un accordo che possiamo definire decisamente migliore rispetto a quello riservato a The Irishman da parte di Netflix.

Sangue e soldi

Dopo anni passati al fronte durante la Grande Guerra, il giovane Ernest torna a Fairfax, in Oklahoma, da suo zio William Hale, soprannominato il Re, ora vicesceriffo della cittadina. Questi gli offre un’opportunità per fare soldi: tempo addietro i grandi proprietari terrieri avevano dato ai nativi Osage un grande appezzamento di terra, poiché credevano che non valesse nulla. Ma da pochi anni le tribù hanno scoperto il petrolio, il che le ha rese uno dei popoli più ricchi del mondo.

Perciò questi imprenditori, di cui fa parte anche il Re, hanno adoperato un sistema subdolo ed efferato per rubare la terra agli Osage: far sposare i loro uomini a delle donne indiane per poi far sparire o morire le mogli e i loro parenti in circostanze strane, così da ereditare la ricca terra.

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Ernest, che all’inizio non capisce la gravità della proposta, accetta senza riserve e sposa la Osage Mollie, di una delle famiglie più ricche. Ma più la storia con la sua nuova moglie andrà avanti, più si troverà schiacciato tra due mondi in indiretto conflitto. Tra massoni avidi da una parte e nativi oppressi dall’altra, il protagonista verrà emotivamente schiacciato dalla verità che lui stesso non vuole accettare: capire chi sono i lupi.

Cronaca di una storia e storia di una cronaca

Una delle più grandi paure di Martin Scorsese nel corso della scrittura del film, battuta a quattro mani con Eric Roth, era quella di rendere questo film composto da “soli uomini bianchi“. Una paura forse fondata, vista la continua pretesa del nuovo pubblico di assistere a film più inclusivi possibile.

Nel libro da cui è tratta la vicenda, Gli Assassini della Terra Rossa, il protagonista non è Ernest, ma Tom White, l’agente della neonata FBI incaricato di indagare sulle morti degli indiani, ruolo in origine dato di fatti a DiCaprio. Nel film, Tom appare invece a due terzi della vicenda. La trasposizione non è dunque un’inchiesta investigativa come nell’originale. O meglio, non è una cronaca degli eventi, ma una loro narrazione, o drammatizzazione. Scorsese sa che, per aumentare l’empatia verso i personaggi, deve trasformare fatti di cronaca in storia con la s minuscola.

Non ci serve dunque vedere un uomo bianco deciso a salvare gli indiani di sua iniziativa. Ci serve vedere cos’è accaduto prima e da cosa ciò è scaturito: gli indiani che di loro spontanea volontà, dopo anni di omicidi e soprusi, raccolgono i soldi e chiedono aiuto. Ecco cosa ha voluto fare Scorsese.

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Volontà accentuata nel significativo finale, nel quale vengono sacrificati i tanto abusati cartelli bianchi su sfondo nero per far posto ad una collisione tra realtà e narrazione in un contesto proprio degli anni in cui si sono svolti i fatti. Una metanarrazione finale che dona un significato più profondo al film.

Lupi e agnelli

Sarebbe stato oltremodo fuori luogo cadere nell’errore di farci empatizzare con Ernest, suo zio o i loro colleghi. Errore che viene perpetuato ormai molto spesso in molte produzioni che vogliono ancora oggi mostrarci i delitti con gli occhi del criminale, per farci capire il suo punto di vista e dare una spiegazione anche emotiva dei suoi misfatti.

Fortunatamente Scorsese non ha mai commesso un simile errore neanche nei suoi film più “grigi” e crudi, e questo non è da meno. In nessuna delle tre ore e mezza di minutaggio il film cerca di farci sentire in colpa per Ernest, Hale o qualcuno dei loro collaboratori. Ci mostra semplicemente la realtà dei fatti attraverso i punti di vista di tutti i personaggi. Forse Ernest non comprendeva davvero il male che stava facendo a sua moglie, ma ciò non gli toglie una minima parte della colpa.

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Il male perpetrato da avidi ricchi bianchi non ci viene neanche sbattuto in faccia con una violenza kitsch. Non ci sono fiumi di sangue. È più spaventosa l’apatia dei capitalisti mentre parlano di come uccidere i nativi e guadagnare ancora più soldi, perché sappiamo che queste cose sono successe davvero e continuano a succedere ancora oggi.

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Gli unici momenti visivamente scioccanti sono le inquadrature volutamente statiche ed esitanti sulle conseguenze delle azioni del Re. Cadaveri degli indiani morti per “malattia” o “incidenti“, contadini e minatori sfocati che scavano la terra dei nativi con fiamme sullo sfondo sono solo alcuni degli esempi. Perché non basta che gli indiani si comportino da bianchi, vestano come loro e credano nel loro Dio. Devono anche accettare di farsi uccidere.

Scorsese alla regia… c’è da aggiungere altro?

Abbiamo già parlato delle inquadrature volutamente esitanti, ma se ci limitassimo a questo, Scorsese non sarebbe annoverato tra i registi più influenti del cinema. Il suo occhio abbraccia lande desolate che ci fanno davvero sentire vuoti, come la secchezza dell’anima dei personaggi, fattore aiutato dalla nitidezza della profondità di campo.

Solo nei momenti emotivamente più intensi, e solo verso l’ultima ora del film, ci si avvicina sempre di più ai personaggi fino a primissimi piani con sfondi claustrofobici, quasi psicologici, e colori più secchi, fino ad arrivare a inquadrature che ricordano l’espressionismo tedesco.

Tutto ciò, unito alla narrativa, non fa per nulla pesare le tre ore e mezza di durata. Anzi, c’è chi potrebbe richiederne anche di più per approfondire ulteriori personaggi, ma qui si sarebbe rischiato di creare una miniserie.

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Vecchi e nuovi volti

Parlare degli attori sarebbe scontato. Oltre ai beniamini di Scorsese, Di Caprio nel ruolo del grigio protagonista e De Niro come antagonista calmo, freddo e calcolatore, per la prima volta insieme in un film di Scorsese, non si può non citare Jesse Plemons nel ruolo di Tom White, che rimane impresso per quanto appaia da due terzi del film.

Tuttavia chi ruba la scena, o tutte le scene, è indubbiamente Lily Gladstone nel ruolo di Millie. Tutta la sofferenza fisica e psicologica cresciuta negli anni di nefandezze da parte di suo marito e zio acquisito traspaiono attraverso i suoi soli occhi. Indubbiamente una delle attrici più sottovalutate di Hollywood.

Unica pecca in questo campo è il ruolo riservato a Brendan Fraser, qui relegato a poco più di un cameo. Sappiamo che avrebbe dovuto avere più tempo sullo schermo, ma è stato barbaramente tagliata a causa della già eccessiva durata, e questo logora anche noi.

Killers of the Flower Moon: è sempre Martin Scorsese

Tre ore e mezza che scorrono come se fossero appena due. Nessun attore che non sia almeno mostruoso nel suo ruolo. Inquadrature curate al dettaglio. Una storia straziante che non si compiace di sé. Scorsese rimane Scorsese. Per quanto non tutti possiamo essere d’accordo con certe sue opinioni su certi generi cinematografici, nessuno di noi può dire che sappia fare il suo lavoro.

Potremmo definirla la sua versione di un “film inclusivo“, ma probabilmente lui non la condividerebbe. Direbbe solo che ha voluto raccontare la storia come lui voleva, guidato solo dai suoi anni, anzi decenni, di esperienza nel mestiere. Così facendo, ci ha donato uno dei migliori film del 2023, nonché uno dei (molti) ottimi lavori della sua carriera.

Killers of the Flower Moon, la recensione: Riesci a vedere i lupi?
SCRITTURA
8.5
REGIA
10
COMPARTO TECNICO
10
DIREZIONE ARTISTICA
9
CAST
9.5
PROS
Storia giustificatamente drammatica di fatti realmente accaduti
Regia e fotografia impeccabili
La narrazione impedisce di annoiare nonostante la lunga durata
Attori eccezionali, prima fra tutti Lily Gladstone
CONS
Poteva tranquillamente durare di più per approfondire alcuni personaggi
Brendan Fraser appare per appena un cameo
9.4
VOTO
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Veoneladraal

Fin da bambino sono sempre stato appassionato di due cose: i romanzi fantasy e il cinema, passioni che ho coltivato nel mio percorso universitario, laureandomi al DAMS Crescendo hoi mparato a coltivare gli amori per i videogiochi, i fumetti e ogni altra forma di cultura popolare. Ho scritto per magazine quali Upside Down Magazine e Porto Intergalattico, e ora è il turno di SpaceNerd di sorbirsi la mia persona! Sono un laureato alla facoltà DAMS di Torino, con tesi su American Gods e sono in procinto di perseguire il master in Cinema, Arte e Musica.

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