Cinema&Tv

The Tragedy of Macbeth, la recensione: cinema e teatro

The Tragedy of Macbeth

9.1

SCRITTURA

8.5/10

REGIA

9.0/10

COMPARTO TECNICO

9.0/10

DIREZIONE ARTISTICA

10.0/10

CAST

9.0/10

Pros

  • Suggestiva scenografia espressionista
  • Uso ingegnoso del bianco e nero
  • Ottima trasposizione della tragedia
  • Attori eccellenti

Cons

  • Tagliata la visone degli eredi di Banquo
  • Dispiace non vederlo al cinema

Macbeth è con ogni probabilità la tragedia del Bardo di Avon più oscura e degenerativa, almeno per quanto riguarda i personaggi principali. Con l’aggiunta di elementi sovrannaturali, guerre per il potere e per la vendetta, questa tragedia è diventata non solo simbolo di ottima scrittura teatrale, ma anche di approfondimento psicologico di persone spinte al limite delle loro capacità mentali.

Per questo è sempre un piacere vederla e rivederla, nonostante esistano decine di trasposizioni proposte da grandi maestri del teatro e cinema: non solo da Giuseppe Verdi con la sua opera lirica, ma anche da Orson Welles a Polanski, da Akira Kurosawa nel suo adattamento giapponese Il Trono di Sangue al più recente Justin Kurzel. Come si sa, per quanto più volte ci venga raccontata una storia, è il modo diverso in cui ci viene proposta a farcela assaporare, e a darle sempre più un tono di novità e modernità. Ciò a dispetto di quanti anni, o secoli in questo caso, siano passati dalla sua creazione.

Ora tocca a Joel Coen, fino a poco tempo fa sempre in coppia col fratello Ethan a raccontare la storia surreale della società americana, dare la sua visione alla tragedia, con un attore shakespeariano tra i più conosciuti degli ultimi trent’anni, Denzel Washington. La sua sperimentazione soggettiva in questo caso ha voluto unire cinema e teatro in un connubio che solo un regista veterano come lui poteva rendere al meglio. Un azzardo che ha saputo garantire a questa pellicola ben tre nominations agli Oscar 2022.

Un prurito ai pollici sento

Descrivere la trama di Macbeth sarebbe superfluo, come lo sarebbe cercare di riassumere una qualsiasi delle opere di Shakespeare. Dopo Amleto, dopotutto, è la sua tragedia più riuscita e conosciuta. Un barone scozzese, eroe del suo popolo e amato dal suo re, riceve una profezia da parte di tre strane sorelle, che gli annunciano la sua prossima seduta sul trono. Una profezia che assai sicuramente non si sarebbe avverata se le sorelle non avessero detto nulla, o forse qualcosa che ha solo accelerato il lento decadimento delle personalità di Macbeth e della sua consorte?

Perché da quel momento, spinto dalla sua fredda moglie, Macbeth userà i sotterfugi più crudeli per ottenere i suoi scopi: mentirà, tradirà, assassinerà, e più discenderà nel baratro oscuro della crudeltà più s’innalzerà l’oceano di sangue scaturito da lui. Il tutto in nome dell’unico fine predisposto per persone come lui e sua moglie: il potere.

La vita non è che un’ombra che cammina

Joel Coen prende una strada diversa dall’ultimo lungometraggio, estremamente crudo e realisticamente accurato, seppur esteticamente stupefacente. Il regista non si vuole concentrare sul realismo storico, ne é esempio il fatto che sono presenti attori di colore, certamente non pertinenti con la Scozia medievale. Ci troviamo davanti a, se così può essere definito, un vero e proprio “film teatrale”, e non solo perché l’intera pellicola è girata all’interno di teatri

La scenografia, curata magistralmente da Stefan Dechant, è essenzialmente minimalista, quasi Artaudiana, per chi mastica il teatro moderno. Gli arredi e le strutture sono ridotti al minimo indispensabile, per il resto i personaggi sono circondati da lisce pareti bianche, che stagliano su di loro e sulla scena delle vere e proprie lame d’ombra. In un compendio che rimanda ai film espressionisti tedeschi degli anni ’20 o anche alle prime pellicole di Ingmar Bergman, i continui contrasti luce/ombra simboleggiano la dicotomia emotiva che Macbeth sta provando.

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Il bene e il male sono in continua lotta tra loro, intorno a loro, e gli unici grigi presenti sono proprio i personaggi. Mentre si vuole rendere chiaro, esteriormente, che ciò che sta succedendo è un’orribile sequenza di eventi, i personaggi la mascherano con azioni e parole. Il loro grigiore, le loro sfaccettature psicologiche sono a loro volta un’ombra delle ombre del mondo. Come dice Macbeth nel monologo storico, “la vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena e che poi non si sente più“.

Molte di queste ombre saranno essenziali per delle premonizioni narrative: una sarà messa davanti a un personaggio come un muro invalicabile. Un’altra, tagliata in obliquo, sopra la testa di un personaggio, mimerà una ghigliottina pronta a ricadere sul suo collo. Va anche dato il giusto merito al direttore della fotografia Bruno Delbonnel, che già aveva collaborato coi Coen in A Proposito di Davis e La Ballata di Buster Scruggs.

La suddetta fotografia, artisticamente esteticizzata dall’aggiunta del bianco e nero, che ricalca ancor di più la netta opposizione cromatica prima citata, è oltretutto girata nel formato 1:33:1, come se i personaggi fossero realmente ristretti in uno spazio più angusto. Restando in questo campo, è da encomiare il lavoro che viene svolto nella già elogiata scenografia: più i personaggi saranno agitati e messi “alle strette”, più le pareti attorno a loro si restringeranno, più saranno tranquilli, più queste si allargheranno, quasi facendo sparire tutto ciò che li circonda. In questo modo per lo spettatore sarà difficile seguire la storia senza empatizzare per ciò a cui assiste.

Il fiore e la serpe

I due attori protagonisti, un eccelso Denzel Washington e una torreggiante Frances McDormand, rendono onore non solo ai loro personaggi, ma anche alla resa artistica del film. La loro recitazione è infatti totalmente non teatrale, a parte qualche eccesso d’ira totalmente giustificato da parte di Washington. La loro età avanzata è rispecchiata dal loro incessabile arrancare, come il già citato attore che simboleggia la vita. Impossibile non elogiare, nel doppiaggio italiano, il come sempre eccezionale lavoro di Francesco Pannofino.

Sui dialoghi non ci sarebbe molto da dire: è Shakespeare, è uno dei più grandi innovatori della lingua inglese. Solo con questa tragedia ha creato dei veri e propri modi di dire che ancora oggi usiamo, quali “quel che è fatto è fatto”. Tuttavia c’è da appuntare un fattore.

In molti dialoghi sono stati tagliate una o due frasi, la cui mancanza tuttavia non toglie l’essenza del discorso. Ma vi è una linea di dialogo pronunciata da Lady Macbeth che, visto il contesto, Coen avrebbe potuto tagliare: dopo l’assassinio di Duncan, Macbeth torna da sua moglie, scosso, portando con sé le daghe. Non ha il coraggio di tornare nel luogo del misfatto per nasconderle, così la consorte deve prendere letteralmente la situazione in mano e fare il lavoro sporco. Mentre esce dalla stanza, ella pronuncia “Le mie mani hanno il colore delle tue, ma io non ho un cuore altrettanto bianco”.

Questa frase potrebbe risultare fuori luogo dato il colore della pelle di Denzel Washington, ma probabilmente è stata tenuta di proposito. Forse Coen vuole simboleggiare che il modo in cui Lady Macbeth vede suo marito, superficialmente, non è come lui realmente è. Lei lo vede, o s’illude di vederlo, simile a lei, ma più avanti si spingerà più scoprirà che sono opposti. Alla fine infatti i ruoli si scambiano: lui diventa sanguinario e spietato, mentre lei impazzisce dal dolore come fece Ophelia nell’Amleto, con la quale condivide il destino. Lui è il vero serpente sotto il fiore.

Spegniti, corta candela

The Tragedy of Macbeth è, in definitiva, non solo uno dei migliori film del 2021, ma anche uno dei più chiari esempi di come il cinema, se non è l’evoluzione del teatro, ne è un suo diretto successore. Con esso può ancora interagire, e da esso può imparare molto, e viceversa. La sperimentazione qui creata da un regista per la prima volta in solitaria dimostra quanto ancora possano esistere autori. Autori che rispettano il passato con uno sguardo verso il futuro. Questo è, insomma, un film capace di soddisfare sia gli appassionati di cinema sia quelli di teatro.

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Veoneladraal

Fin da bambino sono sempre stato appassionato di due cose: i romanzi fantasy e il cinema, passioni che ho coltivato nel mio percorso universitario, laureandomi al DAMS Crescendo hoi mparato a coltivare gli amori per i videogiochi, i fumetti e ogni altra forma di cultura popolare. Ho scritto per magazine quali Upside Down Magazine e Porto Intergalattico, e ora è il turno di SpaceNerd di sorbirsi la mia persona! Sono un laureato alla facoltà DAMS di Torino, con tesi su American Gods e sono in procinto di perseguire il master in Cinema, Arte e Musica.

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