Oggi i manga, ossia i fumetti prodotti in Giappone, sono una delle forme di intrattenimento più popolari, soprattutto tra i più giovani. Un fenomeno di cultura pop che ha visto una graduale e inesorabile espansione globale negli ultimi quarant’anni, riuscendo ad abbattere barriere sociali e politiche poste dagli stessi giapponesi a difesa della loro identità nazionale e dell’apparenza nei confronti delle altre nazione.
Un prestigio parzialmente involontario, quindi, e ancora oggi mal visto da certe fasce della popolazione del Sol Levante, per le quali i fumetti sono e rimarranno sempre veleno per le giovani menti e un’offesa alla pubblica decenza.
Contraddizioni come queste fanno parte del fumetto giapponese sin dalle loro origini, ed esplorarle risulta essenziale per comprendere appieno come mai questa forme d’arte abbia attecchito così tanto su popolazioni che, per forza di cose, non possono capirla, ma comunque l’apprezzano per i motivi sbagliati.
Come ogni forma d’arte, stabilire una data precisa della nascita dei manga è pressoché impossibile. Le prime testimonianze di una forma di proto-manga risalgono ad alcuni graffiti del VII secolo, ma è agli emakimono, o emaki, (rotoli di pergamena con storie illustrate) che in genere gli studiosi fanno risalire le origini dei manga. Tra questi sono da citare l’Eingakyo, scritto da un autore ignoto e narrante la vita del Buddha, e soprattutto i Chōjū-giga (lett. Rotoli degli animali) attribuiti all’abate Toba Sōjō. Questi ultimi riproducevano storie irriverenti in cui nobili, preti e guerrieri venivano ritratti con sembianze animalesche in pose assurde a scopo derisorio.
L’affinità tra i Rotoli degli animali e i moderni fumetti giapponesi è presto detta: manga è una parola composta dai kanji 漫画, che significano “immagini stravaganti“, così come stravaganti sono le illustrazioni attribuite all’abate Sōjō, sebbene maggior parte degli emaki mostrassero eventi storico-religiosi, di vita quotidiana, o tratti da romanzi.
Quali che fossero le immagini rappresentate, questi rotoli avevano tre caratteristiche che oggi consideriamo intrinseche del medium fumetto: la vignetta, i filatteri (spazi adibiti all’inserimento del testo, antenati dei balloon) e le linee cinetiche.
Gli emaki furono una forma d’arte piuttosto longeva e apprezzata, tanto da divenire desueta solo nel periodo Edo (1603-1863). Ciò permise ai giapponesi di sviluppare una profonda familiarità con la narrazione visuale che mischiava testi e illustrazioni, spianando la strada al futuro avvento del fumetto.
A partire da XIV secolo i monaci appartenenti alla corrente del buddhismo zen svilupparono l’arte dello zen-ga, che miscelava disegno e calligrafia.
Come gli emaki, anche gli zen-ga fecero libero sfoggio di immagini assurde atte a riprodurre gli enigmi tipici della filosofia zen, che a loro volta avevano lo scopo di liberare la mente dei discepoli dal pensiero razionale.
Molti zen-ga avevano come soggetto la defecazione, le flatulenze e altri atteggiamenti ridicoli entrati a far parte dell’immaginario umoristico giapponese, tanto che ancora oggi sono largamente utilizzati nei gag manga, i fumetti umoristici.
L’illustre origine monacale della narrazione umoristica ne fece un genere molto popolare durante il periodo Edo, vantando illustri esponenti come Bokusen Maki, discepolo del ben più noto Hokusai (che NON ha inventato il termine “manga”).
Nel XVII secolo il Giappone, prima diviso in una serie di regni costantemente in guerra tra loro, venne unificato dal primo degli shogun, Tokugawa Ieyasu, e la pace che ne conseguì permise lo sviluppo delle grandi città come Edo (l’odierna Tokyo) e di varie sottoculture urbane.
In questo periodo nacquero il teatro Kabuki e i libri illustrati ad ampia tiratura. Dal primo, gli odierni fumetti giapponesi traggono l’utilizzo di pose esagerate, l’elevata drammaticità e le scene violente e sanguinose; dai secondi, invece, il tratto caricaturale, essenziale e spiccatamente bidimensionale, all’epoca necessario per limitare l’eccessivo costo di stampa che delle illustrazioni più elaborate avrebbero richiesto.
I libri illustrati economici (e-hon) raccontavano spesso fatti storici o presunti tali ed erano divisi per colori (libri rossi, gialli, o neri) a seconda del genere.
Il loro attaccamento all’attualità e alla realtà li rese una delle forme di intrattenimento più popolari dell’epoca, nonostante alcuni di essi prendessero smaccatamente in giro l’operato della dinastia Tokugawa.
Durante il periodo Edo nacquero altresì forme di intrattenimento ben più trasgressive dei libri e del teatro: i quartieri del piacere. Era assai frequente che gli artisti li frequentassero e traessero da questi ispirazioni per le loro stampe e le loro illustrazioni. Non a caso è in questo periodo che apparvero le prime stampe che in futuro avrebbero ispirati i celeberrimi hentai (manga pornografici).
Nonostante il grande fermento culturale, il Giappone del periodo Edo era ancora un regno totalmente isolato dal resto del mondo. L’isolazionismo nipponico venne meno solo l’8 luglio 1853, quando il commodoro statunitense Matthew Perry si stabilì con le sue Navi Nere nella baia di Tokyo, costringendo il paese ad aprirsi all’occidente.
Sebbene l’intera operazione avesse gettato l’arcipelago in crisi, le influenze occidentali permisero al popolo giapponese di apprendere nuove tecniche di stampa e rendere i libri illustrati un vero e proprio mezzo di comunicazione di massa.
Pioniere di questa nuova ondata letteraria fu Charles Wirgman, fondatore della rivista satirica Japan Punch, rivolta a un pubblico di britannici espatriati, alla quale seguì Nihon Boeki Shinbun, il primo giornale giapponese a far uso di illustrazioni in bianco e nero “all’occidentale”, definite ponchi-e. Appaiono inoltre i primi tabloid, detti nishiki-e shinbun, caratterizzati da illustrazioni più autoctone, a colori e dai temi decisamente più turpi.
A differenza dello shogunato Tokugawa, il nuovo governo giapponese incentrato sulla figura dell’Imperatore non fu altrettanto tollerante con gli autori, in particolare con i nuovi giornali satirici fondati dai primi liberali e socialisti, in tutto e per tutto ostili alla figura del sovrano.
Le loro pubblicazioni di ispirazione occidentale fecero da apripista, negli ultimi anni del XIX secolo, a un modello di intrattenimento importato dagli Stati Uniti fino ad allora sconosciuto ai giapponesi, le comic strips, le strisce a fumetti pubblicate come appendici sui quotidiani, che di fatto risultano essere il primo incontro tra il Giappone e il fumetto propriamente detto.
Yuichi Fukuzawa, politico riformista, vide nelle comic strips il modo migliore per spingere le masse a riflettere sulla loro condizione. Promosse quindi sul suo giornale, il Jiji Shinpo, una campagna per rimpiazzare il termine ponchi-e, considerato troppo occidentale, con il termine manga, già utilizzato per identificare alcune illustrazioni caricaturali di scarsa importanza.
Il supplemento settimanale illustrato Jiji Manga diviene così popolare da decretare la fine delle illustrazioni e dei tabloid, facendo la fortuna di giovani disegnatori come Yasushi Kitazawa, meglio noto come Rakuten Kitazawa, che si era fatto le ossa sui giornali occidentali.
Le sue strip divennero così popolari da venire esportate all’estero, meritandogli persino la Legion d’onore a Parigi nel 1929.
Nello stesso periodo esordi un’altra futura leggenda del manga, Ippei Okamoto, al quale si deve l’importazione in Giappone di grandi classici del fumetto americano come Mutt and Jeff, Felix the cat e Arcibaldo (Bringing Up Father). Quest’ultimo divenne particolarmente popolare tra il pubblico e largamente imitato dagli autori nipponici.
Okamoto fu altresì un profondo innovatore: è stato il primo mangaka a discostarsi dal formato a striscia per introdurre, con la pubblicazione di Hito no isshô (1921-1929), il primo fumetto con una trama che andasse al di là dei singoli episodi settimanali, sancendo la nascita dello story manga.
Se oggi i manga sono in bianco e nero e presentano una struttura continuativa, lo si deve a Okamoto e ai fumetti occidentali.
Nel XX secolo il manga entrò pienamente a far parte della cultura giapponese.
Nacquero le prime associazioni di mangaka, come la Società giapponese dei manga e la Lega degli artisti proletari, i cui lavori critici e satirici andavano a braccetto con le lotte sindacali in corso nel paese.
Parallelamente, si sviluppò l’idea del manga come intrattenimento per bambini. Kōdansha, il primo editore di fumetti giapponesi, lanciò sul mercato diverse riviste dedicate a un pubblico infantile, prima tra tutti Shônen Club (1914), alla quale seguirono Shôjo Club (1923), dedicata a un pubblico femminile, e Yônen Club, dedicata a bambini in età pre-scolare.
Kōdansha fu inoltre il primo editore a ristampare le storie apparse sulle riviste in volumi rilegati, quelli che oggi conosciamo come tankōbon.
L’enorme successo di questo tipo di produzioni, alcune delle quali arrivano a vendere anche un milione di copie, spinge gli editori a investire sulla multimedialità.
Laddove in Europa e in America i fumetti vennero per lo più snobbati, in Giappone cominciano ad apparire carte da gioco, pupazzi e altre forme di merchandising ispirati agli eroi della carta stampata, dando vita a un approccio imprenditoriale e a un industria che persistono ancora oggi.
L’affermazione del manga nella cultura nipponica presentava ancora forti influenze stilistiche occidentali, in particolare le forme tondeggianti e le movenze esagerate dei cartoni animati di Walt Disney, ma la forte ondata liberale favorì l’immediato sviluppo di nuovi generi che sarebbero diventati un marchio di fabbrica del modo di fare fumetti alla giapponese.
Il personaggio di Dango Kushisuke, giovane samurai con poteri sovrannaturali, fu antesignano di tutti gli eroi dei battle shônen; Speed Tarô avrebbe invece preceduto l’Astroboy di Osamu Tezuka nell’affrontare intricati complotti bellici internazionali; Kasei Taken sarebbe stato il capostipite dei manga fantascientifici, e il suo protagonista, un ragazzino affiancato da un cane è un gatto parlanti, avrebbe ispirato innumerevoli opere che affiancavano bambini e animali parlanti, tra cui Doraemon.
Fece la sua comparsa il genere ero-guro, che miscelava l’erotismo shintoista e la truculenza del teatro kabuki a elementi surreali e orrorifici di importazione occidentale, come i racconti di Edgar Allan Poe e il libro Psychopatia Sexualis di Richard Freiherr von Krafft-Ebing. Questo genere viene però soppresso dalla censura militarista negli anni ’20, salvo poi tornare in pompa magna più avanti.
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