Man mano che gli anni passano e il medium videoludico si espande, si sta creando nei giocatori la tendenza sempre crescente nel voler contestualizzare e valutare le esperienze anche in base ad ogni singolo dettaglio “esterno” al semplice intrattenimento ludico: ogni rumor, leak, teaser, trailer, dichiarazione, polemica, scelta di pubblicizzazione e quant’altro, può influenzare in modo decisivo l’acquisto e persino la godibilità del prodotto in questione da parte di un videogiocatore.
Ogni publisher e casa di sviluppo deve infatti prestare estrema attenzione a tutto ciò che comunica attivamente o passivamente al pubblico: nonostante tale pratica sia ormai quasi scontata, alcune dichiarazioni finiscono per generare discussioni estremamente interessanti e non per forza polemiche, su quelle che sono le intenzioni di sviluppo rispetto alle percezioni finali dei giocatori.
A farci specificatamente questo effetto, in questo caso, ci ha pensato Capcom con l’ottavo capitolo numerato di una delle sue saghe di punta, quella di Resident Evil: poco prima dell’uscita di Village (a proposito, ecco qui la nostra recensione), gli sviluppatori fecero infatti una premessa piuttosto particolare, annunciando che il gioco avrebbe presentato una componente horror meno intensa e marcata rispetto a Biohazard, che venne considerato da molti giocatori “troppo spaventoso”.
Stando a Capcom infatti, la loro intenzione era quella di rendere Village accessibile al maggior numero di persone, anche alle più sensibili, cercando quindi di allentare la tensione con spazi tendenzialmente luminosi ed un maggior numero di momenti di tranquillità, che potessero dare al giocatore una sensazione di sicurezza in varie occasioni.
Avendo ormai vissuto in modo completo l’esperienza di Village e possedendo una certa conoscenza pregressa del settimo capitolo, vediamo di analizzare la situazione e capire quale chiave di lettura utilizzare per comprendere al meglio le intenzioni di sviluppo di Biohazard, e poi di Village, sotto questo punto di vista.
Per approfondire l’argomento, bisogna innanzitutto specificare qual è, a nostro avviso, l’essenza del concetto di paura nei videogiochi: ad accompagnare tale espressione vi sono altri terminologie che definiscono l’insieme delle sensazioni che gli sviluppatori devono riuscire in qualche modo a far provare ai giocatori; ma cosa significano realmente? In quali situazioni vengono provate quali di essi?
Senza entrare troppo nel dettaglio, abbiamo suddiviso questi aspetti in due macro categorie.
La più basilare ma al contempo importante è senza dubbio l’ansia, che definiamo in modo semplicistico come la resa dell’atmosfera da un punto di vista tecnico, e quindi l’insieme delle composizioni grafiche, estetiche e sonore volte a rendere l’esperienza la più immersiva possibile.
La seconda è di natura principalmente narrativa, e riguarda tutti quegli elementi di contesto volti al disturbare ed inquietare il giocatore il più possibile, al punto da fargli provare una forte sensazione di disagio, inadeguatezza e sconforto, e che gli faccia in qualche modo percepire di essere nel luogo sbagliato al momento sbagliato, e di desiderare quindi di trovarsi altrove.
Solo quando tali sensazioni giungono al loro apice possiamo parlare di effettiva paura, un’emozione talmente forte ed intensa da impedire al giocatore di voler proseguire, preferendo scaricare l’accumulo di tensione interrompendo momentaneamente l’esperienza pur di aprire una certa porta, girare un certo angolo o, ancora peggio, voltarsi.
Ci teniamo a sottolineare però, che questa non è altro che la nostra definizione di paura, e che non vuole essere in alcun modo qualcosa di universalmente stabilito.
Ma quindi, che cosa ritroviamo di tutto ciò in Resident Evil 7?
Sin dall’incipit è possibile notare uno schema narrativo simile a quello di molti altri titoli del genere: partendo da una situazione di tranquillità e sicurezza, l’impavido protagonista si ritroverà a volersi introdurre in luoghi sperduti ed abbandonati, per indagare sulla scomparsa di un certo personaggio, per poi rimanerne inevitabilmente bloccato a dover sopravvivere al mostro/assassino di turno.
Nel nostro caso, un normale uomo di nome Ethan Winters si addentrerà coraggiosamente in un’area boschiva e paludosa della Louisiana in cerca della moglie Mia, scomparsa tre anni prima, ritrovando dinanzi a sé un imponente abitazione, casa Baker.
Sin dalla lineare ed immersiva sequenza introduttiva (quella che ci farà materialmente entrare in casa ed attraversarne i primi corridoi) è possibile notare quella che è a nostro avviso la più importante delle scelte di design in quella che è la composizione artistico/estetica dell’intero videogioco, che si protrarrà fino alla fine: senza entrare troppo specificatamente nella narrazione, è facile comprendere che qualsiasi cosa sia successa alla famiglia Baker gli ha drasticamente cambiato le abitudini casalinghe.
Ci riferiamo ovviamente allo stato igienico degli interni: oltre ad essere tutto fuori posto in termini di ordine, è possibile notare in pressoché ogni area della casa elementi di forte degrado, tra stracci e vestiti zozzi, sporcizia ed immondizia ovunque, cibo marcio ed ammuffito in tutta la cucina, intercapedini brulicanti di insetti, intere zone crollate allagate e pareti grondanti di gocce di umidità.
Il picco di questo degrado è percepibile nel seminterrato dell’abitazione, luogo nel quale Jack compie esperimenti e brutalità varie a tutti gli sventurati che osano avvicinarsi alla casa: oltre a sacchi di cadavere, corpi in putrefazione, lettini sporchi e strumenti di morte di vario tipo, i corridoi del seminterrato sono quasi del tutto ricoperti da una misteriosa muffa nera chiamata mutamicete, in grado di trasformare coloro che vi entrano in contatto in mostruose creature antropomorfe con denti appuntiti e artigli affilati, che prendono il nome di micomorfi.
Essi rappresentano in tutto e per tutto la totalità dei nemici da affrontare (esclusi i boss), e la loro resa a schermo si adatta perfettamente al resto dell’ambientazione: queste personificazioni fisiche della muffa dalla forma umana trasudano sudiciume da ogni parte cartilaginosa del loro lurido corpo, e persino quando verranno colpiti dai nostri proiettili perderanno pezzi di carne e liquidi interni in modo alquanto schifoso.
Il discorso va posto all‘ennesima potenza parlando dei vari componenti della famiglia Baker, veri “protagonisti” di questo capitolo: essendo loro le prime vere vittime degli effetti della muffa (che cambiano radicalmente di persona in persona), hanno ottenuto capacità particolari del quale riescono ad averne il controllo, rimanendo in forma umana e trasformandosi in qualcosa di diverso all’occorrenza.
Per spiegare al meglio il nostro concetto, utilizzeremo Marguerite come esempio: non solo lei avrà la possibilità di controllare ed ospitare dentro di sé sciami di mosche, api ed insetti di altri tipi, ma durante la bossfight subirà deformazioni corporee come l’allungamento delle braccia e l’allargamento del ventre, volti al permetterle di camminare a quattro zampe anche su pareti e soffitte.
Ritrovarsela dinanzi a sé che sgattaiola in quel modo genera una sensazione di forte raccapriccio e disagio, proprio perché, nonostante tali mostruose mutazioni, si continua ad intravedere in lei una forma del tutto umana.
Inoltre, il fatto che l’intera residenza Baker (casa, giardino, fienile ecc.) sia composta da stanze, corridoi e passaggi tendenzialmente stretti e claustrofobici, che dovremmo attraversare con una certa lentezza (per esigenze di gameplay ed esplorazione, il protagonista è stato reso abbastanza lento) ci costringerà ad “assaporare” per bene tutto questo marciume.
Uscendo momentaneamente da questo contesto e tornando nell’horror più generico, risulta abbastanza ovvio che tali creature non siano poi così eccessivamente schifose: basti pensare alle mostruosità cosmiche di Bloodborne o ai necromorfi di Dead Space, estremamente più esagerate nella forma e nell’aspetto.
Quindi, in questo caso, Capcom è riuscita a trovare il giusto compromesso di design che potesse adattarsi al meglio alla trama e all’ambientazione: considerando che si tratta, in teoria, della “normale casa di una normale famiglia“, sarebbe stato fuori luogo esagerare con la fantasia inserendo creature tentacolari, alate e quant’altro (cosa che avviene solo in un singolo caso durante il gioco), e ha quindi optato per qualcosa che potesse comunque avvicinarsi il più possibile all’umano, e modificandolo quel po’ che bastava a renderlo terrificante.
Se a ciò aggiungiamo una componente tecnica di livello particolarmente immersiva, non ci stupisce che alcuni giocatori si siano sentiti talmente a disagio da volerlo abbandonare e non giocarci mai più.
Dall’altro punto di vista però, chiunque lo abbia finito può rendersi conto che ci sono al contempo svariati elementi che smorzano tutte queste sensazioni.
Innanzitutto, questo contesto molto di pancia e terra terra rende tutto molto fisico, reale e concreto (come d’altronde accade in tutti i Resident Evil), eliminando quasi del tutto ipotetici elementi anomali e sovrannaturali che contraddistinguono molti dei titoli che propongono un’ambientazione simile, come Silent Hill P.T., Visage e Layers of Fear, il che contribuisce a rendere l’ignoto non poi così ignoto.
In secondo luogo, proprio data la lentezza del protagonista, anche i nemici che dovrà affrontare risulteranno poco reattivi e rapidi, il che ci permetterà di poterli gestire in modo decisamente più tranquillo semplicemente muovendosi un po’ bene ed allontanandosi da loro, a differenza di come avviene per i già citati necromorfi che invece saranno ben più veloci, pressanti e che dovremo gestire con sangue ben più freddo.
Discorso similare va fatto per i membri della famiglia Baker, dato che, per la maggior parte delle volte che ci inseguiranno, lo faranno camminando con una certa calma, e anche se dovessero raggiungerci i loro colpi saranno lenti e prevedibili (inoltre, loro stessi dovranno riassestarsi per recuperare l’equilibrio perduto dagli attacchi, dandoci il tempo per allontanarci).
Sempre parlando di loro, va aggiunto il fatto che saranno una presenza molto meno sfiancante di quanto ci si potrebbe aspettare all’inizio: sia Jack che Marguerite appariranno solo ed esclusivamente in certe sezioni di gioco (che a loro volta non sono poi nemmeno così lunghe), che una volta superate ci permetteranno di esplorare quelle determinate aree senza alcuna loro pressione (anche in questo caso ricordiamo la perenne presenza dello xenomorfo in Alien Isolation che ci costringerà a fare attenzione in pressoché ogni momento del gioco).
Con ciò non vogliamo in alcun modo intendere che il gioco sia facile in termini di gameplay (richiede anzi una certa concentrazione), bensì offre una serie di concessioni che fanno quantomeno respirare il giocatore in termini di mood e pressione.
Infine, nonostante il protagonista Ethan Winters non sia la personalità più riuscita in assoluto, le sue motivazioni e la sua determinazione nel raggiungere l’obiettivo potrebbero dare un po’ di coraggio in più al giocatore per semplice trasporto empatico: infatti, laddove la maggior parte dei protagonisti di titoli simili hanno come unico scopo quello di salvare la propria pelle, Ethan non si fermerà davanti a niente e nessuno, affronterà ogni singolo pericolo ed ostacolo pur di salvare la moglie e risolvere la situazione.
Quindi, nel caso specifico di Resident Evil 7, ogni elemento di design è stato appositamente studiato per intimorire il giocatore disgustandolo con ogni mezzo possibile, seguendo però con attenzione e coerenza le logiche creative legate alla trama e all’ambientazione, nonostante a nostro avviso siano stati piuttosto onesti nell’evitare di scadere in pretesti troppo banali giusto per il gusto di spaventare in modo fine a sé stesso.
Come è avvenuto per quasi tutti i capitoli della saga, nel caso di Village, Capcom ha deciso di raccontare un altro pezzo di storia in un contesto ed un setting diverso dal capitolo precedente: passare da una sudicia e trasandata casa di pazzi in Louisiana a un villaggio medievaleggiante tra le vallate montuose della Romania rappresenta un cambiamento tematico drastico per quelle che sono le logiche artistiche ed estetiche legate ad atmosfera ed immersione.
Ed è proprio con la stessa attenzione riposta nel settimo capitolo che anche in questo caso molti degli elementi specifici all’interno del contesto sono stati studiati per adattarsi ad esso.
La secolare vampiresca stirpe Dimitrescu non poteva che aver sede in un imponente castello nobiliare, decisamente pulito e lussuoso, mentre il fratello ingegnere Heisenberg gestisce un enorme fabbrica di costrutti, in mezzo a macchinari e montagne di acciaio e lamiera; persino Mureau e Donna Beneviento avranno una propria personale dimora, completamente diversa dalle altre.
Quindi, il tema scelto ha permesso a Capcom di sbizzarrirsi con le idee sfruttando canoni dell’horror meno classici e più derivanti dal fantasy, creando di conseguenza ambientazioni, nemici e situazioni estremamente più eterogenee: inoltre, passare dall’una all’altra attraverso un villaggio spazioso ed esplorabile senza limiti offre al giocatore una sensazione di libertà e respiro (nonostante ovviamente le moltissime minacce), facendolo sentire molto più a suo agio che in passato.
Lupi mannari, vampiri, non morti (se così possiamo chiamarli) ecc. non sono nemmeno lontanamente viscidi ed inquietanti quanto i micomorfi, anche perché pure in termini di gameplay vi è stata una deriva decisamente più action: troveremo infatti molte più armi, munizioni, potenziamenti ma anche nemici da affrontare in termini di quantità.
Stesso discorso per i quattro Lord, la quale resa scenica e meccanica risulta molto meno opprimente rispetto a quella dei membri della famiglia Baker.
Ovviamente anche in questo caso si tratta di una scelta ragionata a lungo, dato che Capcom avrebbe potuto rendere anche questo contesto più ansiogeno e spaventoso, bensì ha usato questo pretesto semplicemente per offrire un’esperienza diversa: basti pensare al fatto che, a parte l’inizio e la fine del gioco, praticamente tutta l’avventura sarà ambientata di giorno alla luce del sole (vi saranno ovviamente anche spazi bui al chiuso, ma sicuramente molti meno rispetto al 7, in proporzione), o al fatto che il Duca, unico mercante del gioco, è stato reso volontariamente amichevole, sia in termini caratteriali che come resa di volto e doppiaggio.
Eppure Capcom ha deciso comunque di fare uno scherzetto, inserendo una specifica sequenza di gioco (del quale eviteremo di parlare) nel quale convergono tutti gli elementi che riteniamo personalmente spaventosi, e che da sola è riuscita a pietrificarci più di quanto non abbia fatto l’intero capitolo precedente, a dimostrazione del fatto gli sviluppatori sono ancora perfettamente in grado di spingere le componenti horror all’ennesima potenza, e che nel caso dell’intero Village hanno semplicemente preso un’altra direzione.
Anche in questo caso però, va specificato che nonostante Village sia effettivamente meno spaventoso di Biohazard, la componente strettamente immersiva continua ad essere al centro di tutto.
In definitiva siamo convinti che il drastico cambio di contesto, ambientazione e tematiche dall’intimità e il grezzume di una sudicia casa di matti al folclore horror fantasy di un villaggio medievale abbia permesso a Capcom di offrire un’esperienza differente sotto vari punti di vista, tra cui anche quello relativo al concetto di paura: ovviamente, le intenzioni produttive sono le loro e non sapremo mai quale sia l’esatta verità, ma noi, da buoni appassionati del medium, abbiamo provato ad andare oltre le loro stesse dichiarazioni per cercare di comprenderle al meglio ed approfondire la questione.
Inoltre, ogni giocatore vive l’esperienza videoludica secondo i propri approcci e con la propria sensibilità che è unica per ognuno di loro: ma d’altronde è anche questo il bello, confrontare le sensazioni e condividerne le interpretazioni.
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