Pensateci; siete al cinema ed entrate in sala convinti di stare per vedere Godzilla: King of the Monsters. All’interno siete in quattro gatti, avete posti centrali ad un’altezza adeguata. Insomma, la perfezione. Finiscono i consueti quaranta minuti di trailer tipici dei multisala e scoprite il fattaccio: partono i titoli di testa con il logo della Marvel e comincia un altro film. A quel punto, voi e il vostro amico guardate i biglietti. Sopra c’è scritto X-Men: Dark Phoenix. Il bigliettaio si è sbagliato, ed è troppo tardi per tornare indietro.
Facciamo un passo indietro. X-Men: Dark Phoenix è l’ultimo capitolo della saga cinematografica targata FOX che vede protagonisti i mutanti dei fumetti Marvel Comics.
Non è però l’ultimo film della casa produttrice, ora proprietà della Disney, con questo genere di eroi, titolo che dovrebbe invece spettare al venturo (si spera) e apparentemente interessante (si spera) New Mutants.
La saga cinematografica degli X-Men, tra alti è bassi, è comunque da considerarsi l’esperimento qualitativamente più riuscito di trasposizione su larga scala di personaggi a fumetti.
Se si escludono i primi due scadenti spin-off dedicati a Wolverine, X-Men: Conflitto finale e X-Men: Apocalisse, le pellicole che restano raggiungono e in certi casi superano abbondantemente la sufficienza. E questo senza citare l’esaltante serie tv Legion.
Su 12 pellicole e 2 serie tv, possiamo quindi annoverare 4 film come qualitativamente non all’altezza, e cioè che in una scala da 1 a 10 non raggiungono il 6.
Contando che due di questi, X-Men le origini – Wolverine e Wolverine – L’immortale, sono degli spin-off che più volte sono stati etichettati come fuori canone dai produttori stessi – cosa che comunque non li giustifica in alcuno modo – tutto sommato non c’era motivo di dubitare eccessivamente della qualità di questo Dark Phoenix, se non il fatto che fosse preceduto da quello special dei Power Rangers in salsa mutante dei poverissimi che porta il nome di X-Men: Apocalisse.
Eppure, ancora una volta, il pubblico aveva già deciso la sentenza ancor prima di visionarlo.
Avete presente Avengers: Endgame, quel buco di trama di tre ore avvolto in un involucro di CGI e meme? Quello aveva incassato i suoi due miliardi al botteghino ancor prima di uscire, e chiunque provasse ad esprimere perplessità sulla base dell’ovvia altalenanza dei precedenti film veniva automaticamente linciato.
Con X-Men: Dark Phoenix è accaduto l’esatto opposto. Il film, secondo il pubblico, era una schifezza ancora prima di uscire.
Invece adesso, passo passo, vedremo cosa c’è che oggettivamente va e non va in questo film. A mente fredda e senza risparmiare niente e nessuno. Piccola anticipazione: non è così male.
Partiamo dal comparto tecnico, vero e proprio perno attorno al quale ruota il concetto di blockbuster.
Il regista, nonché sceneggiatore e produttore della pellicola, è Simon Kinberg, alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa.
Vuoi forse perché ha sempre lavorato con registi di film d’azione come Doug Liman (The Bourne Identity, Edge of Tomorrow – Senza domani) o Guy Richie (Sherlock Holmes, Snatch), il buon Kinberg dimostra di conoscere più che bene la grammatica cinematografica, non lesinando citazioni visive qua e là e lanciando anche qualche frecciatina di tanto in tanto.
In particolare, in un’occasione, prende la scena al rallenty di Superman e Flash dal film Justice League e la fa meglio.
La sua regia è pulitissima, chiara e grammaticalmente ineccepibile, merito anche del perfetto lavoro di montaggio di Lee Smith, premio Oscar nonché montatore di fiducia di Christopher Nolan.
Tuttavia – sarà per inesperienza o per paura di sbagliare – non si può certo dire che Kinberg sia un virtuoso, di fatto la sua è una pura regia di funzione, senza guizzi, idee geniali o colpi di testa di sorta.
Potremmo anche definirla una regia operaia, ma non renderebbe giustizia ad un lavoro, nel suo piccolo, di tutto rispetto.
Gli effetti speciali, per una volta, sono davvero credibili e ben amalgamati allo scenario. Per niente raffazzonati o pupazzosi come la media del MCU o del precedente – e in questo senso, vergognoso – X-Men: Apocalisse, che invece puntano tutto sulla spettacolarità dell’effetto in sé, fregandosene del fatto che cozzi terribilmente con qualsiasi altro elemento dello scenario.
E qui, ancora una volta, bisogna dare credito ad un altro grande professionista che risponde al nome di Mauro Fiore, il quale, forte della sua esperienza come direttore della fotografia del film Avatar di James Cameron, riesce a rendere credibile sia le comuni sovrapposizioni in green screen, sia gli effetti particellari più complessi.
Fiore opta infatti per colori vividi e brillanti, ma senza scadere nel patinato alla Zack Snyder.
Ciò permette all’occhio di concentrarsi comodamente sugli elementi dello scenario che risaltano di più, che sono ovviamente le tute degli X-Men, fornendo in questo senso un notevole apporto anche alla regia.
Non a caso i soggetti rilevanti in scena indossano indumenti dalle tonalità molto forti.
Anche qui, però, gli effetti speciali, così come la regia, sebbene realizzati a regola d’arte, non spiccano certo per imponenza o spettacolarità, tranne forse sul finale.
Chiariamoci, non hanno niente di sbagliato e sono molto belli da vedere, ma visto che non puntano ad un inutile sfoggio di budget per nulla funzionale alla storia, potrebbero non piacere agli amanti dei film brutti.
Arriviamo quindi alla croce e delizia di questo film: la sceneggiatura.
L’intreccio della storia è semplice, lineare e arriva alla fine senza troppi fronzoli. Tuttavia, ha in sé tutta una serie di forzature più o meno gravi e una caratterizzazione del cast di contorno eufemisticamente poco impegnata.
Partiamo dall’opera a fumetti che ha ispirato questo film, La Saga di Fenice Nera, facente parte della celebrata run degli X-Men di Chris Claremont e John Byrne.
E’ risaputo che per realizzare una buona trasposizione non si debba ricalcare pedissequamente la fonte, bensì carpirne il messaggio e le componenti essenziali che la caratterizzano.
In questo caso, il fulcro della Saga sono la crescita e l’emancipazione del personaggio di Jean Grey, una ragazza fin da piccola succube di figure maschili che l’hanno sovrastata e incatenata, rendendola insicura.
All’improvviso, la giovane si ritrova a convivere con una forza spaventosa, e per la prima volta in vita sua si sente effettivamente potente e in controllo.
Ovviamente, quando le figure oppressive timorose di questo cambiamento (Ciclope e Xavier) cercano di farla tornare allo stato servile precedente – perché, pavidamente, in cuor loro sanno di essere gli unici colpevoli dello stato della ragazza, nonché prime potenziali vittime – la ragazza si ribella ed esplode in tutta la sua splendida e allo stesso tempo terrificante potenza.
L’analogia tra la storia di Jean e il percorso di transizione dall’adolescenza all’età adulta è più che palese, ed era questo concetto che andava chiaramente trasposto su pellicola.
Ed è stato fatto? Si, e anche in maniera abbastanza efficace, seppur con qualche riserva.
Dopotutto, dopo aver sceneggiato X-Men: Conflitto finale, ispirato anch’esso alla stessa Saga, qualcosa Kinberg l’avrà imparata.
La Jean Grey del film, interpretata dalla sempre scioccata Sophie Turner, è timorosa, priva di iniziativa e sottomessa come la controparte cartacea.
Le manca però quella quella componente smaccatamente sessuale e libertina che implicitamente caratterizzava il personaggio di Claremont e Byrne nei fumetti.
Di fatti, questa Jean è più Sansa Stark, o meglio, più Carrie del film di Brian De Palma.
Una scena molto intensa vede infatti Jean ripulirsi la maglietta bianca (simbolo di purezza) da una macchia di sangue mentre piange disperata sotto la pioggia.
Il raffinato richiamo alla scena di Carrie in cui alla protagonista vengono le prime mestruazioni nella doccia della palestra è stato piacevolmente sorprendente e incredibilmente azzeccato.
Certo, agli spettatori più giovani potrebbe venire in mente la scena di Game of Thrones in cui Sansa cerca di strappare le lenzuola macchiate di sangue per lo stesso motivo, e non sbaglierebbero.
Il concetto è più o meno lo stesso, viste le analogie con i personaggi di cui sopra.
Quando ottiene i poteri di Fenice la Jean del film non ne resta inebriata, non li fa suoi, ma li rifugge e li teme.
Se da un lato questo fa perdere al personaggio un po’ di girl power, dall’altro ne traspone un’immagine notevolmente più realistica ed emotiva, anche perché appare subito chiaro come i poteri di questa Fenice siano abbastanza incontrollabili, persino per un essere potente come lei.
Rendendo le azioni di Jean e quelle di Fenice come attuate da due coscienze distinte, un po’ si va a perdere quel sottotesto della Fenice come catalizzatore dei lati nascosti della stessa Jean, ma si è semplicemente optato per una scelta diversa.
La ricostruzione del background della protagonista e l’approfondimento del rapporto tra lei è Xavier è realizzato con un certo gusto – ricordando che nel film precedente i due a stento si sono parlati – e regala alcune delle sequenze emotivamente e fisicamente più crude del film, se non le più crude in assoluto, anche se le motivazioni di Xavier non sono affatto grigie, come la scrittura di Kinberg vorrebbe far intendere, e il conflitto che nasce tra allieva e mentore risulta abbastanza pretestuoso.
Per ovviare a questo problema, si è optato per una sequela di deja vù abbastanza lampanti, in cui Xavier ripropone difetti ampiamente superati già ai tempi di Giorni di un futuro passato, litigando con i personaggi di Hank e Raven su questioni in cui le loro opinioni andavano sempre a coincidere.
L’aver snaturato la crescita e l’essenza stessa del personaggio di Xavier costituisce uno dei punti maggiormente a sfavore del film.
D’altro canto, l’averci mostrato, in una bella presentazione, Mystica nel ruolo di leader sul campo dei giovani X-Men e generale voce della ragione della compagnia è stata una scelta audace ma interessante.
Nei fumetti abbiamo visto spesso degli antieroi dubbiosi e combattuti che, forti del loro grigio passato, riescono a vedere le contraddizioni insite nell’animo umano.
L’aver adottato questo pattern con Mystica, che di fatto è caratterialmente la Wolverine di questo film, risulta molto azzeccato, anche se finalizzato a scopi che con la sceneggiatura hanno poco o niente a che fare.
Tremenda delusione è invece il personaggio di Magneto, che avrebbe potuto svolgere un ruolo chiave nella trama, e invece fa quello che fa sempre da tre film a questa parte: lui sta tranquillo da una parte, qualcuno va a rompergli le scatole, lui fa casino, rinsavisce e combatte in aiuto degli X-Men.
Qui però ha l’aggravante di avere un movente legittimo portato avanti in maniera infantile, nonché deleterio per la sua comunità, e di fare di due pesi due misure, cosa molto poco coerente con quello che abbiamo visto nel corso della saga cinematografica.
Se si volesse spezzare una lancia a suo favore, va detto che il dialogo meglio scritto del film vede protagonista proprio lui e un militare.
Per la prima volta vediamo delle argomentazioni sensate da entrambe le parti della barricata, con una pacatezza e una ragionevolezza encomiabile.
Il dialogo si riferisce in maniera allegorica alla condizione dei rifugiati politici, ma anche di quelle comunità che occultano la presenza di terroristi, nonché dei militari che, pur di completare la loro missione, sono disposti a violare i diritti privati altrui.
Tutti temi controversi e attuali che non si prestano a facili risposte, degni della tradizione sovversiva e socialmente impegnata degli X-Men.
Lodevole, verrebbe da pensare, ma in una storia incentrata prevalentemente sul processo di crescita di un singolo personaggio sembra più un pretesto per impegnare il resto del cast in qualcosa che non sia il cercare Jean.
Altro personaggio che avrebbe dovuto decisamente essere sfruttato meglio è Scott Summers (Ciclope) che si è rivelato invece il più inutile di tutti.
Ad una fredda analisi, il personaggio di Ciclope non è altro che un sottone, oltre che lo scemo del villaggio.
Il suo unico scopo risulta l’essere costantemente fuori luogo.
Non ne azzecca una, sta sempre dalla parte sbagliata e l’unico suo vanto è quello di aver imparato ad usare bene il suo ridicolo superpotere (e dopo un’intera saga di film era pure ora).
Non ha una vera opinione. Non sa quello che vuole. Si limita a fare ciò che dicono Xavier e Jean. E quando le loro opinioni sono in contrasto, lui non fa niente.
Prima fa pressione su Jean, la sua ragazza, affinché entri in uno space-shuttle che sta per essere investito da una forza cosmica, per poi sbraitare agli altri di salvarla quando ormai è troppo tardi, nonostante le perplessità di Mystica che non voleva assolutamente lasciarla andare.
Un personaggio davvero infimo, quasi pari a quello del fumetto, al quale però la sua condizione umana veniva costantemente ricordata.
Gli altri personaggi cadono nell’anonimato più totale.
Da Tempesta, che prima se la gioca alla pari con un tizio il cui unico potere è controllare i dreadlocks (?) e poi sfodera il suo vero potere contro orde di simil-Terminator (poi ci arriviamo), a Nightcrawler, che ottiene il coraggio e la volontà di usare pienamente il suo potenziale attraverso la tecnica Phil Coulson.
Per chi non lo sapesse, la tecnica Phil Coulson è un tipo di forzatura narrativa che si basa sulla morte di un personaggio inutile comparso pochissimo, ma che dimostra un certo attaccamento affettivo ad uno di protagonisti (tipo che lui o un parente sono suoi fan).
La sua morte servirà all’eroe come slancio emotivo per cambiare idea di punto in bianco e trovare la forza/il coraggio che gli mancavano.
La tecnica prende il nome dall’omonimo personaggio del film The Avengers di Joss Whedon, ma quello non è stato certo il primo caso, né il più emblematico.
E poi ci sono i cattivi.
I cattivi di questo film sono i temibili alieni D’bari, il cui pianeta (che possiamo immaginare essere L’puglia) è stato distrutto dalla Forza Fenice, portando allo sterminio quasi totale della loro razza.
Da quel momento, inseguono la Forza Fenice nel tentativo di imbrigliarne il potere per creare un nuovo pianeta, o in alternativa distruggerla.
Questi alieni portano sì il nome della razza aliena che ha subito la stessa identica sorte nei fumetti, ma in realtà hanno più in comune con gli Adattoidi, esseri artificiali in grado di assorbire i poteri altrui al solo tocco (nel film ne assumono solo l’aspetto).
Di base, il loro scopo è lecito, i loro poteri sono ben delineati e rimangono – più o meno – coerenti, il loro background è interessante e le loro motivazioni sono sensate.
Cosa c’è che non va? Essenzialmente due cose: la mancanza di un punto di riferimento carismatico e di un piano.
In genere, quando i cattivi sono più di uno, si tende ad individuare una figura che incarni gli ideali di ciascuno di loro, e per questo riconosciuta come leader.
Nei precedenti film c’erano Apocalisse e Magneto, qui c’è Vuk, un alieno che ha preso le sembianze di Jessica Chastain, la quale interpreta un ruolo assolutamente non facile: cercare di rendere credibile il classico alieno privo di emozioni che sfrutta invece quelle degli umani per il proprio tornaconto.
Avete presente l’aliena cattiva di Man in Black 2? Quasi uguale. Solo che lì, almeno, era divertente.
Tra lei e Jean s’instaura un parallelismo tutto sommato funzionante.
Essendo loro alieni e avendo avuto contatti con la Forza Fenice, sono di fatto gli unici sulla Terra a poter coerentemente comprendere, indirizzare dare una mano a Jean, che infatti accetta di buon grado di aiutarli. Ci sono però delle cose che non tornano.
Nel momento in cui Vuk capisce che Jean non vuole la Forza Fenice, utilizza i suoi poteri di assorbimento per strappargliela.
Se può fare questo, perché lei o chiunque altro della sua razza non l’hanno fatto quando la Fenice ha distrutto il pianeta?
Questo porta direttamente al piano dei D’bari. Loro sono andati sulla Terra perché hanno visto la Forza Fenice entrare in Jean e sperano di convertirla alla sua causa.
Al che sorge spontanea una domanda: se invece di Jean, manipolabile e tutto sommato “buona”, ci fosse stato qualcuno di meno accomodante, come speravano di combattere l’avatar di un’entità cosmica distruggi-pianeti?
E, nel caso fossero riusciti a trionfare, magari assorbendo la Forza dall’avatar, ciò porterebbe ad altre domande: perché non l’hanno fatto prima?
E se la Fenice non avesse mai trovato un avatar?
Come hanno anche solo potuto pensare di poter controllare la Fenice se un intero pianeta pieno di gente con le loro stesse capacità è stato annichilito al suo solo passaggio?
Tutte domande che, com’è tipico dei cinecomics, non avranno mai risposta.
X-Men: Dark Phoenix non è assolutamente la conclusione che la saga dei mutanti FOX avrebbe meritato.
Al suo interno, si trovano elementi obbiettivamente pregevoli, su tutti il sottotesto che muove l’intera storia e il comparto tecnico d’indubbia qualità, che in alcuni casi risulta davvero sorprendente.
Forse, eliminando totalmente i D’bari e sfruttando il minutaggio in più per approfondire le dinamiche tra i personaggi davvero importanti, avremmo avuto un mezzo miracolo.
Parlando di minutaggio, vale la pena citare un ultimo grande pregio di questa pellicola: dura poco.
E in un epoca in cui le case produttrici costringono gli spettatori a rimanere anche tre ore in sala per prodotti di livello decisamente più infimo, risulta essere un vanto non da poco.
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