Fumetti

La mia cosa preferita sono i mostri, la recensione: L’orrore della realtà

Difficile credere che La mia cosa preferita sono i mostri sia la prima opera di Emil Ferris.

Non molte case editrici accetterebbero un primo fumetto di questa lunghezza (più di quattrocento pagine per ognuno dei due volumi), indipendentemente dallo stile grafico assolutamente non da principianti.

Incredibile è anche la storia travagliata dell’autrice: prima di dare vita alla sua opera, Emil Ferris ha dovuto infatti reimparare a disegnare con la mano sinistra dopo che il Virus del Nilo Occidentale le ha paralizzato la gambe e la mano destra. Successivamente ha dovuto subire decine di rifiuti da parte di altrettante case editrici e, infine, la pubblicazione ha rischiato di essere cancellata a causa di un blocco navale nel Canale di Panama.

Dopo tutta questa fatica e tutto questo dolore, Emil Ferris ha potuto vedere il suo lavoro esposto in numerose gallerie d’arte, vincere agli Eisner e persino ricevere elogi di autori come Art Spiegelman (Maus) e Alison Bechdel (Fun Home).

Ci sono voluti sei anni di attesa per vedere quest’opera completata col suo secondo volume, e ora che possiamo ammirarla nella sua interezza, possiamo confermare che è un capolavoro?

Tra giallo, società e vita

Chicago, 1968. Le tensioni politiche di fine decennio iniziano a farsi sentire anche nell’Uptown della città. Un crogiolo di culture e idee, ricco di arte e bellezza, ma anche di pregiudizi e povertà. In questo contrasto tra luci e ombre, nel seminterrato di un appartamento di periferia, vive la nostra protagonista, Karen Reyes, una ragazzina di dieci anni che abita con la madre e il fratello maggiore Deeze.

Karen è un’amante di storie horror, che colleziona assiduamente, tra fumetti Ghastly, libri di Shelley e film di Bela Lugosi e Boris Karloff, con gran diffidenza della cattolica madre e accondiscendenza del fratello appassionato d’arte. Ispirata dalle storie che legge, Karen immagina di essere un lupo mannaro e unirsi alla trafila di mostri che ama.

Un giorno, di ritorno da scuola, Karen scopre che una dei coinquilini a cui era più legata, Anka, è stata uccisa in casa sua da un colpo di pistola. La polizia pensa subito al suicidio, ma Karen, imparando dalle storie pulp di cui è appassionata, sa che c’è sotto qualcosa di più oscuro. Perciò si veste con un impermeabile di due taglie più grande e inizia a indagare sui suoi vicini: un colorato gruppo di individui, ognuno dei quali nasconde un segreto o un motivo per non amare Anka, dal marito di lei al suo stesso fratello Deeze.

Parte così un’indagine vista attraverso gli occhi di una bambina. Un’analisi della vita di una donna che porterà alla scoperta delle abitudini degli abitanti dell’appartamento, nonché l’anima della stessa Chicago e di tutti i mostri che la abitano.

Un fumetto attraverso gli occhi di una bambina

Ciò che colpisce immediatamente, sin dalla copertina, è lo stile grafico ricercato. Con una tecnica in cui a volte la Ferris predilige la matita, altre volte i pastelli, le pagine vengono trattate come se fossero quelle di un album a disegni, con tanto di righe e fori per gli anelli. Grazie a questa forma di fumetto-diario il lettore si immedesima immediatamente nell’autrice, che ci fa sentire parte del suo mondo facendocelo vedere attraverso il suo punto di vista, sia narrativo che visivo.

La stessa Anka sarà disegnata come una giovane lupa mannara, con una grossa mascella, lunghi artigli e canini inferiori sporgenti. Questo per dimostrare il suo distacco dalle persone che la circondano, che per quanto presentino tratti caricaturali rimangono comunque umani, seppur con caratteristiche altamente caricaturali alla Robert Crumb.

Non c’è mai uno stile unico, anche se i tratti della Ferris si riconoscono. Nelle scene di tensione emotiva si predilige la bicromia e i contorni si fanno più sfalsati, mentre nelle lunghe narrazioni a volte si predilige l’uso di splash page per mostrare singole scene accompagnate dalle descrizioni che si stagliano sullo sfondo, spesso facenti parte del disegno stesso.

Un plauso va al lettering italiano, curato da Vanessa Nascimbene. Non deve essere stato facile stare al passo con lo stile della Ferris, adattando interi paragrafi in un angolo della pagina o addirittura a spirale.

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Arte che imita arte

Emil Ferris, prima di essere un’ottima disegnatrice, è appassionata al pari della sua protagonsita. Non si riuscirà a tenere conto delle citazioni ai mostri classici della letteratura, ma anche alla filosofia, ai romanzi e alla pittura. Molto spesso si ricalcherà su una striscia famosa o un celebre dipinto, modificando leggermente l’originale per renderla parte della storia e mostrare lo stato d’animo di Karen.

Al contrario di quanto succede spesso nella narrativa contemporanea, quando si citerà un opera non vi saranno giudizi personali sugli autori del passato, se tralasciamo qualche battuta amichevole, né paragoni con l’io narrante.

Ogni capitolo è introdotto da quella che può essere definita una copertina da romanzo pulp disegnato (o ridisegnato) proprio dalla Ferris. Copertine che rimandano a Tales from the Crypt o altre testate della EC Comics. Tale scelta non sembra né fuori luogo né messa per creare un effetto kitsch, poiché ciò che è mostrato sarà il fulcro stesso del capitolo. Nel secondo volume questi capitoli si susseguono molto più rapidamente, il che è un peccato perché il pacing diventa più spezzettato e affrettato, ma dall’altro le copertine che aprono tali capitoli non mancano di dare suggestione e curiosità.

Questa continua ricerca di una forma grafica variegata, unita alla bravura di Ferris con la matita e i colori, permetterà al fumetto di avere sempre qualcosa da mostrare. E se narrativamente qualche tavola potrebbe essere narrativamente di troppo, dal lato grafico ci sarà sempre qualcosa da ammirare.

Non che in questo fumetto non vi siano digressioni. Basti pensare alle enormi parentesi aperte sul passato di Anka, le cui sezioni, in cui si affronta il tema della Shoah, occupano circa un quarto dell’intera vicenda. Tuttavia non serviranno unicamente ad aumentare lo shock value del fumetto: il dramma non sarà mai artificioso, le parole usate da Anka per descrivere la tragicità dello sterminio sono quasi fredde, distaccate, usate per far riflettere il lettore, piuttosto che farlo piangere.

Chi sono i veri mostri?

Sarebbe stato facile rendere cliché molti dei temi affrontati, o il modo in cui vengono approfonditi. Primo fra tutti – ormai abusato soprattutto in ambito fantasy – l’usare i mostri come metafora dell’emarginazione, o anche forti tematiche ancora attuali, come l’abuso minorile, l’omosessualità, il razzismo e la memoria della Shoah. Ma Emil Ferris ha saputo approfondire ulteriormente queste tematiche.

Per esempio, qualunque scrittore ormai potrebbe dire che, nella sua storia, sono i mostri emarginati ad essere buoni, mentre le persone “normali”, che perseguitano i mostri per il loro aspetto, i cattivi. All’inizio sembra così, dato che Karen afferma di aver paura che la G.E.N.T.E. (Grigi, Egoisti, Noiosi, Tristi ed Ebeti) la trasformi in una di loro. Ma la Ferris va oltre quest’idea, rendendo tutte le persone mostri. Dal suo punto di vista, “Ci sono i mostri che sanno di essere mostri, e mostri che non sanno di esserlo“, il che è probabilmente peggio della prima tesi.

Andando ancor più in profondità, Emil Ferris afferma che ci sono i mostri buoni, che fanno paura alle persone con cose che non possono controllare (la trasformazione in lupo mannaro è il primo esempio), e i mostri cattivi, cha fanno proprio del controllo la loro ragione di vita. Controllare non solo ciò che li rende mostri, ma anche le altre persone intorno a loro.

Ognuno dei personaggi, sia dell’appartamento di Anka sia della variegata Chicago, ha un una propria colpa. Ma il loro realizzare di essere imperfetti, di avere un lato oscuro e cercare di sovrastarlo, è ciò che li rende i “mostri buoni”. Per questo Karen li ama così tanto. E il mostro più strano di tutti, quello che riesce a fare a pezzi l’anima delle persone, non può essere che l’amore.

Dunque Karen può essere vista come una sorta di self-insert di Emil Ferris? Probabile, dato che anche l’autrice ha vissuto un’infanzia difficile a Chicago e molte delle difficoltà subite da lei o da altri personaggi sono specchio di quelle subite dall’autrice. Tuttavia quest’ultima non compie l’errore di rendere Karen un personaggio puro e innocente, per quanto abbia dieci anni: lei ha i suoi difetti legati alla sua età e al suo modo di fare o di vedere il mondo. In poche parole, come detto in precedenza, anche lei è un mostro.

Certo, fa uno strano effetto che Karen abbia una cultura così ampia e un linguaggio così forbito a soli dieci anni. Pur avendo sempre al suo fianco un fratello come Deeze, che la porta nei musei e le spiega diverse tecniche pittoriche e curiosità sugli autori, non basta a mitigare l’inverosimiglianza di alcune sue dichiarazioni.

La mia cosa preferita sono i mostri: la vostra prossima cosa preferita

Si abusa un po’ troppo di questi tempi del termine capolavoro, anche nei confronti di opere uscite da poco. La mia cosa preferita sono i mostri avrebbe tutte le carte in regola per diventarlo, ma perché ciò sia possibile dovremmo aspettare almeno un decennio e vedere se le opinioni convergono. Per ora possiamo solo dire che è un fumetto ottimo, che qualunque appassionato del genere dovrebbe leggere, se non altro per comprendere le infinite possibilità di quest’arte, siano esse grafiche, narrative o un miscuglio di entrambe.

Per ora, il modo migliore con cui si può definire questo fumetto è una fusione di arte ricercata e narrazione citazionista che ha creato un mostro che è diventata la cosa preferita di molti lettori.

La mia cosa preferita sono i mostri
SCRITTURA
8.5
DISEGNI
10
CURA EDITORIALE
8.5
Pros
Comparto grafico eccellente, sperimentale e variegato
Morale sul pregiudizio e sulla diversità affrontata senza cadere nel cliché
Personaggi profondi e diversificati
Cons
Una ragazzina di dieci anni con una cultura e un linguaggio così ricercati suona poco verosimile
9
VOTO
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Veoneladraal

Fin da bambino sono sempre stato appassionato di due cose: i romanzi fantasy e il cinema, passioni che ho coltivato nel mio percorso universitario, laureandomi al DAMS Crescendo hoi mparato a coltivare gli amori per i videogiochi, i fumetti e ogni altra forma di cultura popolare. Ho scritto per magazine quali Upside Down Magazine e Porto Intergalattico, e ora è il turno di SpaceNerd di sorbirsi la mia persona! Sono un laureato alla facoltà DAMS di Torino, con tesi su American Gods e sono in procinto di perseguire il master in Cinema, Arte e Musica.

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