Batman è il Cavaliere Oscuro. Questo è assodato.
Creato da Bob Kane e, soprattutto, Bill Finger nel 1939 per sfruttare contemporaneamente il successo del neonato genere supereroistico – inaugurato da Superman – e dei tetri vigilanti dei pulp magazine (The Shadow, The Phantom Detective) l’alterego di Bruce Wayne si è sempre contraddistinto per una certa cupezza, complici alcune interpretazioni del personaggio che sono riuscite a varcare i confini dei fumetti per imporre quella precisa idea del personaggio nell’immaginario collettivo, come Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller e la trilogia cinematografica diretta da Christopher Nolan.
Per questo motivo il crociato incappucciato è generalmente considerato di gran lunga più serio della gran parte dei tizi in spandex che popolano il macrocosmo dei fumetti di supereroi.
Eppure non è sempre stato così. C’è stato un periodo, precedente persino i famigerati film di Joel Schumacher, in cui toni ben più scanzonati erano tutt’altro che estranei alle testate di Batman.
Già con l’introduzione di Robin, il ragazzo meraviglia, risalente al 1940, DC Comics cercò di mitigarne l’impronta grim and gritty, complici le numerose lamentele da parte dei genitori dei giovani lettori (ndr, oggi si discute animatamente di come Batman non uccida, ma agli esordi non si faceva scrupoli a sparare, avvelenare, bruciare, defenestrare i nemici con esiti indubbiamente mortali).
Fu però con l’avvento della Silver Age dei comics (1956 – 1971) che l’aggettivo “oscuro” divenne a dir poco fuori luogo per il guardiano di Gotham.
La Silver Age fu un periodo di svolta per i supereroi. Dopo la campagna diffamatoria dello psichiatra Fredric Wertham, i fumetti di supereroi caddero in un baratro che perdurò fino alla seconda metà degli anni ’50, quando tornarono in pompa magna grazie a figure chiave come Stan Lee, Jack Kirby e Julius Schwartz, editore capo di DC Comics nonché principale artefice del ritorno degli eroi in calzamaglia.
La Silver Age si contraddistinse per alcuni aspetti peculiari che affondavano le proprie radici nella cultura americana dell’epoca.
Uno di questi era la forte impronta scientifica, fomentata dalla corsa allo spazio che vide confrontarsi gli USA e l’URSS. Un altro era la morte di generi come il western, il poliziesco e l’horror, considerati troppo violenti dai genitori.
Un personaggio come Batman andava quindi totalmente rivisitato e reso più simile agli altri supereroi classici come Superman.
Le storie di Batman degli anni ’60, complice anche il successo della scanzonata serie televisiva con protagonista Adam West, erano caratterizzate da confronti sempre più assurdi tra il protagonista e i suoi nemici, diventati improvvisamente folli laureati in ingegneria che cercavano di uccidere l’odiato avversario con macchinari sempre più enormi e inutilmente complicati (ricordate, siamo nel periodo dello sviluppo tecnologico).
Lo stesso crociato incappucciato dovette adattarsi ai tempi anche dal punto di vista estetico. La cappa nera fece quindi spazio a costumi sgargianti, tra cui quelli multicolor del celeberrimo Rainbow Batman.
Abituati al Batman odierno, certe soluzioni appaiono oggi a dir poco risibili, eppure lo sceneggiatore Brian Michael Bendis (Powers, New Avengers) e il disegnatore Nick Derington (Doom Patrol), colorato dall’instancabile Dave Stewart, hanno deciso di recuperarle e ammodernarle per dare vita a una delle miniserie di Batman più genuinamente divertenti degli ultimi anni con Batman: Universo.
Come l’altrettanto pregevole Superman: Su nel cielo di Tom King, Andy Kubert e Brad Anderson, anche Batman: Universo nasce dalla collaborazione tra DC Comics e la catena di ipermercati Walmart.
La miniserie è stata infatti inizialmente pubblicata a puntate all’interno della testata antologica Batman Giant, acquistabile esclusivamente all’interno dei negozi Walmart, per poi venire successivamente raccolta in un unico volume, stesso formato in cui è stata pubblicata anche in Italia da Panini Comics.
Tuttavia, gli approcci di King e Bendis con le rispettive miniserie sono stati opposti.
Laddove King ha puntato tutto sull’approfondimento psicologico di un personaggio ampiamente sviluppato, Bendis ha rimosso qualsiasi pretesa di profondità per dare al lettore una storia priva di messaggi ma dannatamente divertente da leggere.
Team up improbabili, ambientazioni ai confini del tempo e dello spazio, dialoghi carichi di ironia autoreferenziale, praticamente il contrario di quello che ci si aspetterebbe da un fumetto di Batman odierno (fatta eccezione per la dose invereconda di azione e violenza) ma perfettamente conforme ai canoni della Silver Age.
Storie del genere sono complicate da scrivere. Basta un attimo di incertezza per dare vita a siparietti imbarazzanti più che divertenti, storie piene di buchi più che ritmate, personaggi stupidi più che ironici.
Eppure Bendis e Derington, entrambi autori dall’immenso talento, sono riusciti a mantenere salde le redini della trama (quasi sempre, almeno), giocando tutto sulle capacità analitiche di Batman e sulle soluzioni visive variegate per tenere alte la qualità dell’intreccio e l’attenzione del lettore.
Di base è Batman che deve impedire a Vandal Savage di entrare in possesso di un manufatto dagli straordinari poteri, e nel farlo finisce per essere proiettato negli angoli più sparuti dell’Universo DC, da qui il titolo della miniserie.
Bendis, come pochi altri prima di lui, strappa il Cavaliere Oscuro dalla sua comfort zone/prigione editoriale, Gotham City, per proiettarlo in contesti diversi e ben più difficili da approcciare per un maniaco del controllo come Bruce Wayne.
Il contesto e i toni cambiano drasticamente, ma Bendis non rinuncia all’intelligenza e alla freddezza che contraddistinguono da sempre il suo protagonista, qui ben più simile alle controparti animate delle serie Justice League e The Brave and The Bold.
Vederlo trattare con gli alieni ostili del pianeta Thanagar in posizione di svantaggio o comportarsi in maniera formale e rispettosa nei confronti del sovrano di Gorilla City è al contempo estraniante ma perfettamente in linea con le aspettative del lettore nei confronti del personaggio.
Così come una rosa con un altro nome avrebbe sempre lo stesso profumo, così Batman in un altro contesto assai meno oscuro ma ben più pericoloso di Gotham non perde un briciolo di smalto e di credibilità, grazie anche alla capacità straordinaria di Nick Derington di mediare tra un tratto pop e cartoonesco e una particolare ruvidità nelle espressioni e negli ambienti di scuola underground. Di fatti anche lui è un moderno figlio della Silver Age.
Difficile trovare un disegnatore più adatto alla penna di Bendis, vista la sua enorme versatilità registica. Vuoi stacchi veloci, cadenzati e registicamente accurati? Ci sono. Vuoi doppie splash page con personaggio che si muove nell’ambiente stile Gianni de Luca? Ci sono anche quelle. Vuoi una bella splash page d’impatto in cui Batman piomba inesorabilmente sui nemici? Terza tavola, culmine di una sequenza introduttiva che andrebbe studiata in tutte le scuole di fumetto per capacità di snocciolare informazioni senza pesare sulla fluidità della narrazione.
Con una tale varietà di soluzioni, colpi di scena e cambi di registro qualsiasi detrattore di un Batman meno cupo e più avventuroso dovrà per forza ricredersi.
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